Il segreto del bosco vecchio
- Fantasy
- Italia
- durata 134'
Regia di Ermanno Olmi
Con Paolo Villaggio, Giulio Brogi, Riccardo Zannantonio, Lino Pais Marden
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Era proprio questo ciò che desideravo, hoc erat in votis: un pezzetto di terra, oh!, non molto grande, ma recintato e sottratto agl’inconvenienti di uno spazio pubblico; un pezzetto di terra abbandonato, sterile, bruciato dal sole, terreno ideale per i cardi e gli imenotteri. Qui, senza timore di venire disturbato da persone di passaggio, potrò interrogare l’ammofila e lo sfecide e dedicarmi a questo difficile colloquio in cui le domande e le risposte vengono condotte nel linguaggio della sperimentazione; qui, senza dover affrontare lontane spedizioni in cui si perde tanto tempo prezioso, senza quelle corse faticose che ottundono l'attenzione, io potrò studiare i miei piani d'attacco, tendere le mie imboscate e seguirne i risultati ogni giorno, a qualsiasi ora. Hoc erat in votis, sì, era proprio questo il mio desiderio, il mio sogno, sempre accarezzato e che sempre mi sfuggiva perdendosi nelle nebbie dell'avvenire.
Non è certo facile procurarsi un laboratorio in aperta campagna quando si è presi nella morsa terribile dell'angoscia del bisogno del pane quotidiano. Per quarant'anni ho lottato con un coraggio indefettibile contro le meschine miserie della vita, e finalmente il tanto agognato laboratorio è arrivato. Non cercherò neppure di dire quanta perseveranza e quanto lavoro accanito esso mi è costato. Finalmente è arrivato, e con esso, ma a condizioni più difficili, forse anche un po' di tempo libero. Dico "forse", giacché trascino tuttora attaccato alla gamba qualche anello della catena del forzato. Ma il mio voto si è realizzato. È un po' tardi, o miei begl’insetti! Ho una gran paura che il frutto della pesca mi venga presentato soltanto ora, quando comincio a non avere più i denti per gustarlo. Sì, è un po' tardi; gli ampi orizzonti dei miei inizi sono diventati una volta opprimente, schiacciata in basso e di giorno in giorno più ristretta. Pur senza rimpiangere nulla del passato, eccetto ciò che ho ormai perduto, senza rimpiangere nulla, neppure i miei vent'anni, senza neppure sperare più nulla, tuttavia sono arrivato a un punto in cui, stroncati dall'esperienza della vita, ci si chiede se vale davvero la pena di vivere.
In mezzo alle rovine che mi circondano un mozzicone di muro resta in piedi, incrollabile sulla sua base fatta di calce e sabbia: è il mio amore per la verità scientifica. Ma questo sarà abbastanza, miei industriosi imenotteri, per accingermi ad aggiungere degnamente ancora qualche pagina alla vostra storia? Le mie deboli forze non tradiranno la mia buona volontà? Perché vi ho abbandonato per così lungo tempo? Degli amici me l'hanno rimproverato. Ah!, ditelo voi a questi amici, che sono non soltanto miei ma anche vostri amici, dite loro che la colpa non era da attribuirsi a dimenticanza o a stanchezza da parte mia! Io pensavo sempre a voi, ero convinto che il nido delle cerceridi aveva ancora dei magnifici segreti da rivelarci e che la caccia allo sfecide ci riservava ancora nuove sorprese. Ma il tempo mancava, e io ero solo, abbandonato da tutti, in lotta contro la cattiva sorte. Prima di filosofare bisognava vivere. Ditelo voi a questi amici e loro mi perdoneranno.
Ci sono stati altri che mi hanno rimproverato per il mio linguaggio che non ha la solennità o, per meglio dire, la pedantesca austerità di un testo accademico. Questi temono che una pagina che si legga senza fatica non possa sempre essere l'espressione della verità. A starli a sentire non si potrebbe essere profondi che a condizione di essere oscuri. Venite qui, tutti quanti siete, voi armati di pungiglioni e corazzati di elitre, venite a prendere le mie difese e a testimoniare in mio favore. Dite loro in quale intimità io vivo con voi, con quanta pazienza io vi osservo e con quale scrupolo registro tutti i vostri comportamenti. La vostra testimonianza è unanime: sì, le mie pagine non sono gremite di vuote formule o di sapienti elucubrazioni, bensì contengono l'esatta narrazione dei fatti osservati, niente di più e niente di meno, e chiunque vorrà a sua volta interrogarvi otterrà da voi le medesime risposte.
Nel caso che voi, miei cari insetti, non riusciate a convincere queste brave persone perché non avete il peso e l'autorità dei pedanti, ebbene sarò io a dir loro: voi sventrate l'animale e invece io lo studio vivente; voi ne fate un oggetto d'orrore e di pietà e io invece lo faccio amare; voi lavorate in un laboratorio di torture e di smembramenti e io l'osservo sotto l'azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottomettete ai reagenti chimici la cellula e il protoplasma, io studio l'istinto nelle sue manifestazioni più elevate; voi scrutate la morte e io la vita. E perché non dovrei esprimere fino in fondo il mio pensiero? I cinghiali hanno intorbidato l'acqua limpida delle fontane; la storia naturale, questo magnifico studio dell'età giovanile, a forza di perfezionamenti cellulari, è divenuta qualcosa di odioso e di disgustoso. Ora, se io scrivo per i sapienti, per i filosofi che tenteranno un giorno di fare un po' di luce sull'arduo problema dell'istinto, io scrivo anche e soprattutto per i giovani, ai quali desidero far amare questa storia naturale che voi fate tanto odiare. Ed ecco perché, pur mantenendomi scrupolosamente nell'ambito della verità, io evito la vostra prosa scientifica che troppo spesso, ahimè!, sembra redatta nell'idioma di qualche tribù degli Uroni.
Ma per il momento non sono queste le mie preoccupazioni; ora voglio parlare di questo fazzoletto di terra così agognato, destinato nei miei progetti a divenire un laboratorio di entomologia vivente, che sono finalmente riuscito a procurarmi nella solitudine di un piccolo villaggio. È un harmas. Con questo termine da queste parti viene chiamato un pezzo di terra incolto, sassoso, abbandonato alla vegetazione spontanea del timo. È un terreno troppo povero per compensare il lavoro dell'aratro. In primavera, quando per caso capita che abbia piovuto e che vi cresca un po' d'erba, le pecore vi vengono a pascolare. Tuttavia il mio harmas, grazie alla presenza di un po' di terra rossa annegata in una quantità sterminata di sassi, ha ricevuto un inizio di coltivazione; un tempo, a quanto si dice, vi erano piantate delle vigne. Ed effettivamente degli scavi eseguiti per piantare qualche albero hanno messo qua e là allo scoperto dei resti delle preziose radici mezzo carbonizzate dal tempo. Il vomere a tre punte, l'unico strumento di coltivazione che possa penetrare in un suolo simile, è dunque passato qui sopra e me ne dispiace molto perché la vegetazione primitiva è scomparsa. Non c'è più il timo, non c'è più la lavanda, non ci sono cespugli di quercia spinosa, la quercia nana le cui foreste si possono scavalcare alzando un po' la gamba. Siccome questi vegetali – soprattutto i primi due – potrebbero essermi utili per offrire agli imenotteri materiale da raccogliere, mi trovo obbligato a ripiantarli sul terreno da cui il vomere li ha scacciati.
Ciò che invece abbonda, e senza il mio intervento, sono le piante che invadono ogni terreno che sia stato lavorato e in seguito sia stato per lungo tempo abbandonato a se stesso. Ciò che vi si trova, anzitutto, è la gramigna, quell'erba detestabile di cui tre anni di lotta accanita non hanno potuto ottenere la definitiva estirpazione. In secondo luogo, per il loro numero, vengono le centauree, tutte di aspetto arcigno, irte di aculei o di alabarde stellate. C'è la centaurea solstiziale, la centaurea delle colline, la centaurea calcitrapa e la centaurea aspra. Ma è la prima a dominare. Qua e là, in mezzo all'inestricabile groviglio delle centauree, si leva in alto, simile a un candelabro le cui fiamme sono dei grandi fiori color arancione, il feroce scolimo di Spagna dagli aculei forti come chiodi. Ma lo scolimo è dominato in altezza dall'onopordo d'Illiria il cui stelo, diritto e isolato, arriva a un metro o due di altezza culminando con dei grossi pompon rosa. La sua armatura non ha nulla da invidiare a quella dello scolimo. E non dimentichiamo la tribù dei cardi, anzitutto il feroce cirsio, così bene armato che il raccoglitore di piante non sa come afferrarlo; quindi il cirsio lanceolato, dal ricco fogliame le cui nervature terminano in punte di lancia; e infine il cardo bruno che somiglia a una piccola rosa irta di aculei. Negli intervalli tra i cardi, strisciando per terra simili a cordicelle armate di uncini, si allungano i rami del rovo dai frutti bluastri. Per esplorare l'intrico spinoso quando l'imenottero va a farvi la sua raccolta di polline, bisogna calzare degli stivali alti fino a metà gamba oppure rassegnarsi a sanguinose punzecchiature sui polpacci. Finché il terreno conserva ancora qualche resto delle piogge primaverili, questa rude vegetazione non manca di un certo fascino quando, al di sopra del compatto tappeto formato dai capolini gialli della centaurea solstiziale, si elevano le piramidi dello scolimo e gli slanciati zampilli dell'onopordo. Ma poi sopraggiunge la siccità estiva e allora non resta nient'altro che una distesa desolata dove basterebbe la fiammella di un fiammifero a propagare l'incendio da un capo all'altro. Tale è – o, piuttosto, era quando io ne ho preso possesso – il delizioso Eden dove ormai conto di vivere a stretto contatto con l'insetto. Me lo sono guadagnato al prezzo di quarant'anni di lotta ostinata.
L'ho chiamato Eden e, almeno dal punto di vista che m'interessa, l'espressione non è fuori luogo. Questo terreno maledetto, a cui nessuno avrebbe voluto affidare neppure un pizzico di semi di rapa, è in realtà un paradiso terrestre per gli imenotteri. La sua possente vegetazione di cardi e di centauree li attira qui da ogni parte. Mai, in tutte le mie battute di caccia entomologiche, mi era capitato di trovare riunita in un punto solo una tale popolazione: tutte le corporazioni d'insetti vi si danno appuntamento. Vi si trovano cacciatori di ogni specie di selvaggina, muratori che lavorano la terra battuta, tessitori di cotonato, insetti dediti all'assemblaggio di frammenti ritagliati in foglie o in petali di fiori, costruttori in cartone, stuccatori che impastano l'argilla, carpentieri che forano il legno, minatori che scavano gallerie sotterranee, conciatori che lavorano le membrane intestinali dei bovini, e chissà quanti altri.
E questo chi è?
[…]
Ecco dunque – e l'enumerazione è ben lungi dall'essere completa – una comunità tanto numerosa quanto scelta, la cui conversazione ha senz'altro la capacità di affascinare la mia solitudine se mi dimostrerò in grado di provocare le loro risposte. I miei cari animaletti, sia i compagni e gli amici di lunga data, sia quelli di più recente conoscenza, si ritrovano tutti qui, intenti a cacciare, a raccogliere o a costruire, nella più stretta vicinanza tra loro e con me. D'altronde, se si rende necessario variare i punti di osservazione, a qualche centinaio di passi di distanza c'è la montagna con le sue macchie di corbezzolo, di cisto e di erica arborea, con le sue distese sabbiose così care al bembice, con le sue scarpate marnose sfruttate da vari imenotteri. Ed ecco perché, prevedendo queste ricchezze, sono fuggito dalla città per stabilirmi in un villaggio e sono venuto a Sérignan a sarchiare le mie rape e annaffiare le mie lattughe.
Sulle nostre coste oceaniche e mediterranee vengono installati, con forti spese, dei laboratori dove vengono sezionati i piccoli animaletti marini di ben scarso interesse per noi. Si fa sperpero di potenti microscopi, di delicati apparecchi per la dissezione, di ordigni per la cattura, di imbarcazioni, di personale addetto alla pesca, di acquari, e tutto ciò per sapere come si segmenta l'uovo di un anellide, cosa di cui non sono ancora riuscito ad afferrare l'importanza, mentre si disdegna lo studio dei piccoli animali terrestri che vivono perpetuamente in rapporto con noi, che potrebbero fornire dei documenti d'inestimabile valore alla psicologia generale e che troppo spesso distruggono i nostri raccolti compromettendo la ricchezza nazionale. Quando dunque verrà costruito un laboratorio di entomologia dove si studi, non l'insetto morto, macerato nell'alcool puro, bensì quello vivente, un laboratorio dove si studi l'istinto, le abitudini, il modo di vita, i lavori, le lotte e il modo di propagarsi di questo piccolo mondo che sia l'agricoltura che la filosofia dovrebbero tenere in seria considerazione? Conoscere a fondo la storia del flagello delle nostre vigne sarebbe forse più importante che sapere il punto di arrivo delle terminazioni nervose di un cirripede; stabilire in via sperimentale la linea di demarcazione che separa l'intelligenza dall'istinto e dimostrare, ponendo a confronto i fatti concreti riscontrabili nella serie zoologica, che la ragione umana è, o non è, una facoltà irriducibilmente a noi propria, ebbene tutto questo dovrebbe ben avere la precedenza sullo stabilire il numero esatto degli anelli presenti sull'antenna di un crostaceo. Per risolvere questi problemi di enorme importanza sarebbe indispensabile un esercito di ricercatori, e invece non c'è proprio niente. La moda attuale s'interessa ai molluschi e agli zoofiti. Le profondità dei mari vengono esplorate con uno spropositato uso di draghe, mentre il suolo che calpestiamo con i nostri piedi ci resta sconosciuto. Nell'attesa che la moda cambi, io apro un laboratorio di entomologia vivente nel mio harmas, un laboratorio che non costerà neppure un centesimo alla borsa del contribuente.
Questo lungo brano riproposto qui quasi integralmente, ch’è il principio del primo capitolo della seconda serie dei “Ricordi/Souvenir Entomologici”, per questioni di praticità e per non esagerare con le trascrizioni prese dal singolo volume della Adelphi, è tratto dall’edizione Armando del 2007, con la traduzione di Gianlorenzo Pacini, della raccolta di brani scelti “Merveille de l'Instinct chez les Insectes” (Delagrave, 1913) che pescava da opere precedentemente edite di Fabre.
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