Ultimamente, qui e altrove, si è parlato a lungo e a più riprese di alcune cinematografie nazionali, come per esempio quella francese, tedesca, messicana, islandese, greca e irlandese. E quella spagnola? Forse nessuno si è accorto che, oltre all’America Latina, esiste un paese occidentale, in Europa, a nove ore di macchina dal confine italiano, con una cultura affascinante e plurale, una fortissima letteratura e un cinema che non ha nulla da imparare da nessuno.
Sarà che sono un professore di lingua spagnola, dottore in letteratura spagnola del novecento, e forse sono leggermente di parte, ma anche quello che mena il gesso – come diciamo dalle nostre parti – sa che nel mondo occidentale si parlano solo due lingue: inglese e spagnolo. Eppure in Italia, sia l’editoria che la distribuzione cinematografica si sono dimenticate della Spagna.
La vittoria di Iñárritu agli Oscar 2015 è la conferma dell’inesorabile scalata del mondo latino ai vertici della cultura e del costume globali. Tutto era cominciato nel 1998 con il fenomeno di Ricky Martin, ed era proseguito sempre in campo musicale con Jennifer Lopez, Shakira, Enrique Iglesias e Christina Aguilera. Il 1998 è stato anche l’anno di The Faculty, mio piccolo oggetto di venerazione. Lo sci-fi scolastico era diretto da quel tornado tex mex di Robert Rodríguez che s’era già imposto all’attenzione degli addetti ai lavori già nel 1992 con El Mariachi. Ed il 1992 è stato anche l’anno di Belle Époque, di Fernando Trueba, premiato con l’Oscar nel 1994, premio che tornerà alla Spagna nel 2000 per Todo sobre mi madre, di Almodóvar, e nel 2005 per Mar adentro, di Amenábar.
L’ondata rossa non si ferma. Dal 2010, anno della vittoria dei mondiali in Sudafrica, tra calcio, ciclismo, tennis, basket, cinema, musica, letteratura, arte, cucina e turismo, congiuntamente con l’inarrestabile fascino per i paesi latinoamericani iniziato già negli anni ‘70, la Spagna si conferma, crisi politica ed economica a parte, uno dei paesi occidentali di maggior traino culturale. Supera Francia, Germania e Inghilterra e il suo appeal non ha rivali.
Con gli anni ’10 del terzo millennio il mondo conosce anche Álex de la Iglesia grazie a Balada triste de trompeta (2010), nonostante fosse già affermato autore in patria, e personale regista di culto, fin dai primissimi anni novanta – El día de la bestia (1995), visto in videocassetta negli adolescenziali pomeriggi estivi non si dimentica facilmente. Las descubiertas non finiscono qui: molti sono gli attori spagnoli seminati qua e là in produzioni internazionali, come Penélope Cruz, Javier Bardem, Jordi Mollá, Antonio Banderas e Miguel Ángel Silvestre; il regista e produttore Guillermo del Toro, è oggi uno degli uomini di maggior peso del sistema hollywoodiano; il catalano Jaume Collet-Serra dal 2011 sta riscrivendo l’action (Senza identità, 2011; Non-Stop, 2014; Run All Night, 2015) e già nel 2005 aveva giocato felicemente con l’horror dirigendo La maschera di cera; infine, per due anni consecutivi, il premio Oscar per la miglior regia è andato a due messicani, Cuarón e Iñárritu, che confermano, anzi consacrano definitivamente lo sdoganamento della cultura ispanica in America.
L’Italia che fa? Rimuove. Allontanando da sé il calice.
L’editoria italiana è stitica a riguardo. Poche e sporadiche le uscite letterarie di autori spagnoli sia classici che contemporanei. Nomi importanti come Ramón José Sender, uno dei cinque massimi scrittori in lingua spagnola, è ancora quasi totalmente sconosciuto in Italia. Lo stesso per Camilo José Cela, sempre uno dei cinque, le cui traduzioni ancora oggi in commercio si contano sulle dita di una mano. Se escludiamo nomi di ottimo livello letterario e culturale, ma anche più facilmente commerciabili, come Arturo Pérez-Reverte, Almudena Grandes, Carlos Ruiz Zafón, Javier Marías, Alicia Giménez Bartlett, Francisco González Ledesma e Miguel Vázquez Montalbán, altri autori contemporanei di grandezza letteraria dieci volte superiore ai nostri, sono praticamente sconosciuti. Ricordiamo che in Spagna oggi si fa ancora “letteratura”, mentre da noi in Italia è più difficile trovare testi visceralmente letterari. Nomi come Juan Goytisolo, Luciano González Egido, Víctor Álamo de la Rosa, Juan Millás, José María Merino, Álvaro Pombo, Ana María Matute, Enrique Vila-Matas, Carmen Martín Gaite, Antonio Muñoz-Molina, Ignacio Martínez de Pisón, Javier Cercas, Miguel Ángel Mañas, Isaac Rosa e Manuel Rivas – padre di Martiño Rivas, l’attore – insieme a moltissimi altri più incostanti, sono autori di opere fortemente letterarie, indagando sulla forma come sul linguaggio e sul contenuto. Sono anche autori che, in diversi casi, attraversano i generi, giocano con le forme e le tecniche del romanzo, coltivano il racconto che in Italia è invece bandito, hanno inaugurato narrazioni brevissime chiamate microrrelatos e sono strettamente legati alla cultura cinematografica e al passato letterario e politico del proprio paese.
Lo stesso accade con il cinema. Dagli anni novanta ad oggi, dagli anni del destape a quelli della crisi economica, dei mileuristas e degli indignati, la Spagna, oltre a scalare il tetto del mondo in più settori, si è distinta anche cinematograficamente. Che non me ne abbiano gli amici francofili o germanofili, ma il cinema spagnolo, oggi, batte qualsiasi altro cinema europeo.
Indubbiamente, il cinema francese ha delle caratteristiche peculiari che lo rendono forte e pieno di appeal. È uno dei cinema più “svestiti” del mondo, dove il corpo nudo fa capolino tra protesta e voyeurismo. È un cinema che ha fatto del poliziesco il proprio genere di bandiera, con titoli di grande impatto. È anche un cinema molto politico, che affronta senza riserve i problemi della società francese, soprattutto di tipo razziale. È un cinema che sa ancora percorrere territori difficili e raccontare storie “altre”. È però purtroppo, anche un cinema sofisticato, strettamente d’autore, con attori e attrici che personalmente non mi sanno accattivare – anche se due ragazze che regolarmente sogno di notte vengono proprio da lì: Eva Green e Marine Vacth.
Lo confesso. Il cinema francese mi piace. Anche molto. Non mi piacciono invece, quelli che continuano a parlare del cinema francese come se fosse l’unico cinema possibile. Non è così. E la Spagna è lì a dimostrarcelo.
Per ovvie questioni di studio e di lavoro, divoro libri, film e serial tv spagnoli. Ho visto anche non pochi film francesi e tedeschi, oltre che ovviamente agli italiani e agli inglesi, e posso assicurare, per quel che può valere la mia competenza cinematografica, che il cinema spagnolo non è secondo a nessuno. Nemmeno a quello francese. Situazione di parità, credo.
Emilio García Fernandez, in una sua spietata diagnosi sullo stato di salute del cinema spagnolo (1) cita il modello francese come il migliore e il più adeguato, dove i finanziamenti per l’industria cinematografica arrivano dall’industria stessa, mentre in Spagna si ricevono sempre e solo aiuti economici su aiuti economici, obbligando di fatto il cinema a dipendere dallo Stato. L’autore infatti, sostiene che si debba applicare un’imposta sulle entrate e su ciò che corrisponde al settore televisivo, del home video e di internet, per reinvestirlo nel cinema; chiede inoltre una legge che meglio definisca gli sgravi fiscali, che consolidi l’industria, che incrementi la creatività, migliori le scuole di ogni settore, dalla recitazione alla regia, dalla sceneggiatura alla produzione, che investa nella pubblicità e nella promozione del prodotto nazionale e infine che permetta alle opere spagnole di poter rivaleggiare con quelle statunitensi in termini di numero di schermi. Detto questo, a me sembra che l’industria cinematografica spagnola, se davvero non se la passa bene esattamente come la cugina italiana, ha però dalla sua, nero su bianco, una serie di punti di forza che la rendono comunque vitale e plurale.
Uno di questi punti di forza del cinema spagnolo è l’inclinazione al genere. Dal poliziesco all’horror, dal thriller allo sci-fi, dalla commedia colorata al dramma politico, fino all’animazione e al classico cine de guerra, il cinema spagnolo dialoga con il proprio paese e con il mondo intero. Attraverso film più o meno riusciti, guarda con un occhio al botteghino e con l’altro alla narrazione dei temi universali. Con il genere, l’appeal sale, e l’empatia e la fidelizzazione del pubblico aumentano. Si può guardare se stessi, il proprio paese e la propria storia anche attraverso lo specchio deformante di generi non prettamente autoctoni.
Per non dire poi della libertà del corpo. Attori e attrici di prima linea si mostrano nudi integralmente, sia frontali che da tergo, sposando con il loro primo strumento attorico la causa della narrativizzazione del corpo, fulcro centrale di tutte le riflessioni, le patologie, le ossessioni, le gioie e i dolori del pensiero moderno e contemporaneo.
Sempre García Fernández sostiene invece che non se ne può più di questi nudi gratuiti che da novità del cinema della transizione sono diventati con il tempo delle stanche abitudini del cinema di oggi. Inoltre, sostiene anche che gli attori spagnoli siano ben poca cosa e che dovrebbero vocalizzare meglio e leggere molto di più – forse per imparare a parlare, ipotizzo io; in più dovrebbero aderire al personaggio con integrità, ovvero con meno naturalezza e con più energia interpretativa. Eppure in Spagna si concentrano gli attori più interessanti del panorama mondiale; attori molto naturali, freschi, diretti, con un’ottima modulazione vocale e una padronanza fisica del loro corpo altrettanto ottima, per non dire dell’uso intelligente, felice e libero che fanno proprio del loro corpo: Yon González, Mario Casas, Miguel Ángel Silvestre e Martiño Rivas i più promettenti tra i giovani, e poi Hugo Silva, Carlos Areces, Javier Cámara, Raúl Arévalo, Quim Gutiérrez, Álex González, Maxi Iglesias, Juan José Ballesta, fino ad attori di razza come Javier Barderm, Lluís Homar, José Coronado, Antonio de la Torre, José Sacristán, Luis Tosar, Santiago Segura, Jorge Sanz, Sergi López, Eusebio Poncela, Manuel de Blas e Enrique Villén;
senza contare il noto fattore femminile che va da Carmen Maura a Victoria Abril, da Ángela Molina a Terele Pávez, contando con Aitana Sánchez-Gijón, Amparo Baró, Concha Velasco, Belén Rueda, Adriana Ozores, Marisa Paredes, Rosa María Sardá, Rossy de Palma e tra le più giovani Amaia Salamanca, Blanca Suárez, Carolina Bang, Maribel Verdú, Adriana Ugarte, María Valverde, Najwa Nimri, Michelle Jenner e Clara Lago.
Grazie a grandi autori come Pedro Almodóvar, Álex de la Iglesia, Montxo Armendáriz, Alejandro Amenábar, Juanma Bajo Ulloa, Carlos Sauras, Jaume Balagueró, Daniel Sánchez Arévalo, Daniel Calparsolo, Alberto Rodríguez, David Menkes, Alfonso Albacete, Fernando León de Aranoa, gli “americani” Juan Antonio Bayona, Jaume Collet-Serra e Nacho Vigalondo ed esordienti esuberanti, vitali, colorati, provocatori e quant’altro come Juanfer Andrés, Esteban Roel e Carlos Vermut tra i tanti, il cinema spagnolo è davvero, se non l’unico, uno dei soli due cinema possibili oggi in Europa e, fatta da parte l’America, di tutto l’Occidente.
A seguire lascio qualche trailer che può dire molto di più delle mie parole. Seguirà un post sugli anni novanta, uno sul nuovo millennio e uno sulle serie tv spagnole.
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Link utili e di approfondimento:
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Note:
(1) http://thecult.es/Cine-clasico/historia-del-cine-espanol-xiii-la-nueva-legislacion.html
Alacrán enamorado (al Festival del cine español di Milano/Roma a maggio 2015).
Las brujas de Zugarramurdi (oggi nei cinema italiani).
La isla mínima (Milglior film 2015 ai Goya).
Lo mejor de Eva.
No habrá paz para los malvados.
Mentiras y gordas.
El cuerpo.
Combustiòn.
Mientras duermes.
Celda 211.
10.000 kilómetros.
Por un puñado de besos.
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