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La isla minima

Regia di Alberto Rodriguez vedi scheda film

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La recensione su La isla minima

di scapigliato
10 stelle

Come succedeva in Grupo 7 (2012), anche in La isla mínima, Alberto Rodríguez utilizza le maglie larghe del genere per entrare meglio nel tessuto culturale del suo paese e da lì rappresentare con tante simbologie e archetipi universali le ambiguità, i grandi mali, le piccole cose belle che scandiscono la sua Spagna, la sua Andalucía, come tutto il mondo. Dopotutto, anche García Lorca aveva rivisto nei suoi gitani andalusi un simbolo dell’uomo oppresso, dalla forte attitudine alla libertà e alla vitalità, ma irrimediabilmente oppresso dalla società e dai suoi quadri polizieschi. Allo stesso modo, il Guimarães Rosa di Grande Sertão, utilizza sertanejos, jagunços e cangaceiros per raccontare l’universale attraverso il particolare.

Nelle marismas del Guadalquivir, il grande fiume spagnolo che taglia l’Andalucía e si butta nell’oceano a Sanlúcar de Barrameda, Cádiz, in una Spagna appena uscita da quarant’anni di dittatura franchista, due giovani ragazze spariscono da casa. Sono adolescenti, sono belle, sono curiose, e hanno fama di ragazze facili. Il loro destino è quindi già segnato dalla diceria popolare. L’inquisizione silenziosa che serpeggiò durante il franchismo, continua a strisciare subdola e meschina tra le case popolari con i muri smangiati dall’usura, tra le rive umide del grande fiume, le sue paludi, i suoi canneti, le sue risaie e i suoi acquitrini, gli argini, i piccoli sterrati e le capanne isolate nel coto, la riserva privata di caccia.

Un ambiente spettacolare che diventa malsano quando diventa lo specchio del malessere umano. L’onnipotenza di piccoli caudillos di provincia, nostalgici del regime, devoti a Franco come a dio, è il cancro mortale che contamina l’acqua, la terra, l’aria, i pesci e gli animali. Ancora una volta, l’ambiente naturale e l’indifferenza della natura sovrana, fanno da referenti e da contraltari, da specchi deformi e da ombre junghiane, all’esistenza dell’uomo.

La bravura di Rodríguez, che non sbaglia un colpo da 7 vírgenes (2005), oggi terzo grande regista di Spagna dopo Almodóvar e de la Iglesia, è quella di saper giocare con il genere, saper catturare in una inquadratura e in uno snodo narrativo topico, tutta l’atmosfera del genere di riferimento con tutte le sue simbologie e i rimandi culturali intertestuali. Il film muove i suoi passi in un clima di orrore ancestrale e primitivo che ricorda Twin Peaks (1990-1991) e True Detective #1 (2014), per atmosfere, ambienti e personaggi, ma va subito detto che la pellicola di Rodríguez era già terminata prima che uscisse la serie statunitense di Pizzolatto.

La figura sfuggevole dell’orco assassino, la sua invisibilità, o meglio la sua forte presenza, avvertibile in ogni angolo del pantano, tra i canneti e tra le mura delle case, ricorda appunto il re giallo di True Detective #1, ma anche il Georgie di The Black Dahlia (2006), il maniaco di Profondo Rosso (1975) e l’indiano di Omicidio a luci rosse (1984), il Bob di Twin Peaks, i sospettati di Zodiac (2007) e tante altre figurazioni di un male atavico, di cui è pregna la terra e ogni cosa. Un male onnipresente sebbene invisibile, un male che striscia accanto all’uomo da sempre e in ogni luogo, una nebbia che penetra lenta in ogni ambiente e ammorba tutto di un male pestilenziale che sembra poter vivere in eterno, uomini, donne, case, oggetti e natura.

Questo è l’effetto incredibile che il film di Rodríguez riesce a trasudare in ogni sua scena, in ogni sua immagine, complice forse quella canicola opprimente dell’afoso sud rivierasco che segna i suoi personaggi tragicamente, inani al destino, pedine dell’onnipotenza di una natura fluviale sfingea e incomprensibile. Un film pienamente riuscito in cui la pulizia visiva e la solidità narrativa, entrambe a firma di Alberto Rodríguez, regista e sceneggiatore, sono la cifra stilistica principale di una pellicola che ha tra i suoi punti di forza la bellissima e riuscita fotografia di Álex Catalán. Un film che regala allo spettatore scene di incalzante suggestione, ammantate di uno spirito fatalista che non lascia scampo, con questa imprendibile ed enigmatica figura orchesca che si muove nell’ombra, sempre presente, intorno, vicino, al fianco dei protagonisti e li sfida, li minaccia, li colpisce da lontano. Il male c’è, ma non si vede.

Ulteriore punto di forza di La isla mínima è la rassegna dei personaggi. Le maschere del dramma sono prese dalla terra, dallo strato folklorico e povero di una regione già povera di suo, dimenticata dal governo centrale tra i canneti, le paludi e le terre arse dal sole. Non c’è un personaggio, pur piccolo che sia, che non sappia lasciar addosso quella sensazione di inquietudine e ambiguità che solo le grandi favole nere sanno infondere.

Personaggi affascinanti anche nel loro rapido tratteggio. Dalla coppia di sbirri madrileni inviati a indagare, Javier Gutiérrez e Raúl Arévalo, il primo “cattivo” e il secondo “meno cattivo”, uno rude e lassista, figlio delle dinamiche del franchismo, l’altro, più giovane, più insubordinato, meno permissivo, fino ai comprimari strappati dal tablado de marionetas di quella terra sonnolenta: il padre povero e incattivito da quella povertà, interpretato da Antonio de la Torre; sua moglie, la madre delle due ragazze, l’unica a provare un sentimento di forte disgusto per quello che sta succedendo; la giovane amica delle due ragazze morte, echi di Laura Palmer, foto pornografiche e Ronette Pulaski; il bello del paese, figura cara all’immaginario sociale di ogni latitudine e che in Spagna si origina con il mito del Don Juan e si radica modernamente nel “estirao” de La familia di Pascual Duarte di Camilo José Cela (1942), archetipo del caso che in La isla mínima è l’oggetto di desiderio d ogni ragazzina, tanto seducente e affascinante quanto ambiguo e glaciale dietro gli impenetrabili occhi azzurri di Jesús Castro.

Tra il resto della fauna locale abbiamo il fotografo sciacallo che svela gli scheletri nascosti dello sbirro cattivo; la donna della barca, una sensitiva che sa dove si trovano i cadaveri e che vede qualcosa di inquietante negli occhi dello sbirro cattivo; l’uomo col cappello, l’enigmatica figura dell’orco sfuggente; la padrona della casa del coto, il vecchio Sebastián, il cacique locale e tanti altri personaggi di questo piccolo ritratto costumbrista che diventa così il grande affresco socio-politico della transizione spagnola in luoghi remoti e impoveriti dal regime in cui si lotta per sopravvivere e dove i giovani cercano qualsiasi modo per fuggire a quella triste realtà. Trovando la morte.

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