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E.A.P.
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E.A.P.

No, mi spiace: non si tratta di Edgar Allan Poe né di Edogawa Ranpo (Tarō Hirai), ma di "prestige" horror (ovvero Questa Cosa Qui; nota: titolo alternativo per questa playlist: QCQ - Cuccicù!).

Quindi vi beccate, in ordine poe...tico (eh-eh, se no il giochetto non funzionava), Dave Eggers, Ari Aster e Jordan Peele (prima i medio-lungometraggi e poi i cortometraggi). 

E Alex Garland? Lui è meno horror (a parte "Men") e più Hard SF (Ex Machina”, “Annihilation”, “DEVS) di Jordan Peele e di Aster ed Eggers mess'insieme, perciò è a parte (in attesa di "the War"). Jonathan Glazer, poi, è altra cos'ancora. Così come Charlie Kaufman. E Richard Kelly? Bella domanda! Alla quale "rispondo" con David Robert Mitchell

 

• Filmografia completa di Robert Eggers.

- Hansel & Gretel (2006, B/N, 16:9, muto, 25’) - * * *
- the Tell-Tale Heart (2008, colore, 4:3, sonoro, 20’) - * * * * ¼
- Brothers (2013, colore, 4:3, sonoro, 10’) - * * * ½
- the VVitch: a New England Folk-Tale (2015, colore, 4:3, sonoro, 90’) - * * * *
- the LightHouse (2019, B/N, 4:3, sonoro, 105’) - * * * ¾
- the NorthMan (2021-’22, colore, 2.35:1, sonoro, 135’) - * * * ¾
- Nosferatu (2023-’24, B/N, 4:3, sonoro, x

 

• Filmografia completa di Ari Aster.

Dal College di Santa Fe al Conservatorio dell’American Film Institute (AFI)
- “Tale of Two Tims” (2008; esordio) - ?
- “Herman’s Cure-All Tonic” (11’30’’, 2008; l’unico film non scritto da lui): * * *
- “The Strange Thing About the Johnsons” (29’, 2011; tesi di laurea specialistica): * * * ½
- “TDF (Tino's Dick Fart) Really Works” (3’45’’, 2011): * * *
- “Beau” (6’30’’, 2011) - * * * ¼

Post-AFI e Dintorni
- “Munchausen” (15’45’’, 2013): * * * ¼
- “Basically” (14’45’’, 2013): * * * ½
- “the Turtle’s Head” (11’30’’, 2014): * * * ¼
- “C’est la Vie” (7’45’’, 2016): * * * ½ 

Lungometraggi
- “Hereditary” (125’, 2018): * * * ¼
- “MidSommar” (145’, 2019): * * * ½
- “Beau Is Afraid” (180’, 2023): * * * ¾

 

• Filmografia completa di Jordan Peele.

- "Get Out" (2017, 100'): * * * *
- "Us" (2019, 115'): * * * *
- "Nope" (2022, 130'): * * * * ¼

 

Playlist film

The Witch

  • Horror
  • USA, Canada
  • durata 87'

Titolo originale The Witch

Regia di Robert Eggers

Con Anya Taylor Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie, Harvey Scrimshaw, Lucas Dawson

The Witch

In streaming su Amazon Video

vedi tutti

 

- - - ROBERT EGGERS - - -

 

Esemplare compendio di sberleffo satanico: la logica scientifica e il metodo sperimentale sono in mano a noi spettatori contemporanei, mentre i personaggi del XVII° secolo si affidano ciecamente alle inadeguate contromisure al male dettate dall'ignoranza del dogma della fede : messe di fronte al 'mistero' entrambe le parti soccomberanno, tranne...

 
Tremate! Tremate!
("Mulier, tu es diaboli ianua!" - "Hm... Ok, va bene...").

• La Porta dell'Inferno (un Florilegio di Summa Teologica).

“Abbracciare le donne è come abbracciare un mucchio di letame : la donna è figlia della falsità, sentinella degl'inferi, nemica della pace. La donna è la porta dell’inferno, la strada che conduce all’iniquità, la puzza dello scorpione.” 
Tertulliano – De Cultu Feminarum [ Libro Primo, Capitolo Primo, Paragrafo Secondo (I,1,2 - Etc...) ] – ca. 200 d.C.   
    
“Muliere ianua inferi.” 
(Pseudo) Boezio (?) - De Disciplina Scholarium (II, 10) - ca. 500 d.C.   
    
• Agnus Diaboli, Hircus Dei.

Animali semi-antropomorfizzati : le capre così come i delfini sembrano sorridere, e Black Phillip (sodale compagno della volpe ambasciatrice del caos nel vontrieriano “AntiChrist”) lo fa dall'inizio alla fine, specchio scuro del suo omonimo ''giullare di Dio”, Filippo Neri.   

 

Confortorio Sabbatico, Tregenda Pleonastica (Sangue del Loro Sangue). 
   
Un padre [William (Ralph Ineson)], forte e debole al tempo stesso, ugualmente abile (agricoltore, coltivatore, allevatore, cacciatore, falegname) e inetto ( buono solo a spaccar legna e non a...colonizzare, sconfitto dalla segale cornuta che ha reso un campo di stoppie il suo seminativo di mais e dal suo essere ''diversamente estremista'' : atteggiamento sacrificale che lo farà cacciare, con tutta la famiglia al seguito, dall'autorità della comunità puritana di cui ha sempre fatto parte, mentre in un lampo sommesso ch'è una delle sequenze più belle del film si scorge un gruppetto di amerindi ''integrati'' che guardano allontanarsi il nucleo famigliare con indecifrabile espressione ), una madre [Katherine (Kate Dickie)] rimasta imprigionata nella Valle di Arryn ed incapace di districarsi da questo isolazionismo di ripiego per assenza di alternative (si sprecano le metafore sulle donne peggiori nemiche di sé stesse...e delle altre), un figlio (Caleb) ancora troppo giovane per essere un eroe ma non abbastanza per non divenire preda (l'isterica euforia mistica restituitaci con possente furioso vigore dall'interpretazione di Harvey Scrimshaw - che con l'esordiente strega/modella Sarah Stephens condivide l'esplicito momento "the Shining" di un film che collassa e trascende nella luccicanza - è impressionante), due bambini più piccoli [Mercy (Ellie Grainger) e Jonas (Lucas Dawson)] sputati fuori dall'inferno e/o da un film di Peckinpah, un neonato non battezzato per causa di cavillose forze maggiori (la sequenza della sua scomparsa contiene un ottimo intervento di regia e di messa in scena : Thomasin riapre gli occhi e noi con lei, e a quel punto la MdP compie un lento movimento ad arco di 45 gradi in verticale verso l'alto, dalla messa in abisso a picco sul vuoto alla visione frontale verso il bosco, ed ecco che, una volta posizionatosi in asse orizzontale, il PdV della ragazza, fino ad allora coincidente con quello dello spettatore, si sgancia dal nostro), e un'innocente [Thomasin (Anya Taylor-Joy)] pronta a sopravvivere a tutto, tranne a quel che le rimane da fare...  

 


Tratto (per quel che vale) da resoconti e testimonianze (vere, false, sincere, bugiarde) storiche e tribunalizie (cronache e processi dell'epoca), l'opera prima nel lungometraggio di Robert Eggers scorre e procede inesorabilmente lineare -[ non v'è quasi nulla da rilevare sul piano narrativo o di sintassi filmica e grammatica cinematografica : regia compostamente perfetta, fotografia (Jarin Blaschke) pittorica (1.66:1) di trapiantate brume fiamminghe e reimpastate ceneri barocche, musica (Mark Korden : “Cube”, “the Border”) brulicante di archi e corde (anche vocali) straziate in ligetiane lux aeterne, montaggio (Louise Ford) intuitivamente austero, rigogliosamente scarno, severo e spoglio ]- sulla falsariga dello straconosciuto/risaputo : ed è questa la sua forza.

Peccato per il finale : dirompente, ma sterile. O forse mai così prolifico...
Dal perenne cielo grigio piombo allo sguardo limpido, in campo, sottratto alla propria supremazia, dall'assenza di Dio al fuoco di braci mai spente, ai falò che incendiano la notte, alle cupe vampe che s'innalzano al cielo.
Invece di combattere il vero male, nel bosco, fuori, lo si cerca dove non c'è ed è più comodo cercarlo, accanto a sé : e a Thomasin non rimane altro che godersela. Alla grande. Di Grazia.   

• Il Crogiuolo, ovvero : Oida (Guarda!, è tutto vero!).

Una cosa non si può dire dei cattolici, persino dei puritani : che siano iconoclasti. E allora : c'era una volta (1630, in attesa di Salem), nel New England (avete presente la Florida? Ecco, l'esatt'opposto ribaltato non solo geografico; più - indigeni paria e immigrati naturalizzati - R.W.Emerson e H.D.Thoreau, N.Howthorne e H.Melville, E.A.Poe e H.P.Lovecraft, E.Dickinson e R.Lowell, R.Frost e A.Miller, J. Irving e J.Updike, E.Strout e S.King), una famiglia di coloni pellegrini britannici…

• Ascensione (ControPatibolo). 

Si chiude qui il mio breve viaggio in questa trilogia horror di leggende metropolitane (“It Follows”), fiabe/favole della buona notte (“BabaDook”) e folk-tale (“the Vvitch”).
Sogni d'oro, dunque (Thomasin permettendo).
E occhi aperti (puntati su Robert Eggers).

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

The Lighthouse

  • Drammatico
  • Canada
  • durata 110'

Titolo originale The Lighthouse

Regia di Robert Eggers

Con Willem Dafoe, Robert Pattinson, Valeriia Karaman

The Lighthouse

In streaming su Infinity Selection Amazon Channel

vedi tutti

 

Che Nettuno ti strafulmini!

 

the LightHouse”, ovvero: il prologo fine ottocento ad “Annihilation” (una considerazione andrebbe posta in essere anche verso "the Phantom Light" di Michael Powell del 1935 e "Sh! the Octopus" di William McGann del 1937): un primo tentativo d'invasione (non xenica, ma endemico-autofaga).

 

Robert Eggers si conferma grande vivificatore di quadri, e con la sua icasticamente iconografica opera seconda (scritta col fratello Max e co-prodotta con A24, che distribuisce: costata 4 mln di $, ad oggi, [edit] metà febbraio, ne ha incassati 4 volte tanto) crea al contempo tanto una copia quasi conforme al lavoro d'esordio, “the Vvitch: a New England FolkTale”, finendo per inserirvi pure ulteriori quasi-semi letterali citazioni da “the Shining” [dove più che il veloce incedere azzoppato armato d'ascia, qui, come nell'altra pellicola, incentrata sul New England dell'enroterra e non costiero, si tratta del momento “Woman in the (non Red ma Green) Room 237”, col Guardiano del Faro a prendere il posto della Sirena], quanto un passo avanti [ancora più scarno di nuovo significato, ancora più insensato, e ancora più saturo e gremito di pura bellezza - l'omaggio al recuperato (non che si fosse perso) cinema degli albori -, stratificata come guano: a fin di bene (il nostro) fine a sé stessa, e, in piccole dosi, nutriente].

 
Quel che Nicolas Winding Refn stroppia, Robert Eggers è: in attesa di “the NorthMan” - compagno di viaggio del miglior film di NWR ad oggi, “Valhalla Rising” (One-Eye) e, chissà (ri/as-sonanze), del primo dei Seven Dreams di William T. Vollmann, "la Camicia di Ghiaccio" -, che vedrà il ritorno da una parte di Anya Taylor-Joy e dall'altra di Willem Dafoe.

 

Una frase è paradigmatica dell'intera operazione, e per una piccola forzatura tecnico-storica (il film si svolge nel luglio del 1881, e la fortuna pubblica e critica di Herman Melville - ben diverso è il discorso per S.T.Coleridge - era al suo punto più basso dopo i successi dei primi romanzi e la riscoperta nel primo quarto del secolo successivo), e per un valore di auto-disamina/critica: “I'm tired of your damned-fool yarns and your captain Achab horseshit! You sound like a goddamned parody!” (“Sono stufo del tuo stupido blaterare e delle tue stronzate da capitano Achab! Sembri una stramaledetta caricatura!”).  

 

Willem Dafoe (flatulente omoerotico lovecraftiano tritone zoppo sedicente ex-marinaio) e Robert Pattinson (eiaculante ex-boscaiolo auto-masturbatore col suo bel topos albino a guisa di doppelgänger à la Don Draper) licenziano - considerando il fatto che il primo ha un carnet ricolmo [no, non stilerò una lista di interpretazioni per uno degli attori più importanti degli ultimi quarant’anni - Scorsese, Schrader, Friedkin, Trier, Ferrara, Lynch, Cronenberg, Herzog, Hill, Stone, Parker, Raimi... -, mi limito a una delle ultime (splendida), “Dog Eat Dog” e, giusto per sottolineare il magnifico lavoro sull’accento e l’inflessione che si può apprezzare in “the LightHouse”, “Vox Lux”], e il secondo lo avrà (Cosmopolis, the Rover, Maps to the Stars, Queen of the Desert, Life, the ChildHood of a Leader, the Lost City of Z, Good Time, High Life, Waiting for the Barbarians, Tenet) - due delle migliori interpretazioni della loro carriera.
Esordio per la moldava modella anfibia Valeriia Karaman.

 

Torna la crew di “the Witch”, con i sodali Jarin Blaschke alla splendida* fotografia in bianco e nero (pellicola 35mm, ISO 120, EastMan Double-X, formato 1.19:1; lenti Baltar anni '30; audio mono), Louise Ford (“WildLife”) al montaggio e Matt Korven (“Cube”, “the Great Martian War”, “the Terror: Infamy”, “In the Tall Grass”) alle ottime musiche.

 
*Bianco e nero (e formato / aspect ratio) con intenzioni tanto filologiche (ma lo spettro all'apparenza non è ortocromatico) quanto politiche (degli autori) vicine a quelle (all'incirca post-2000), meravigliose, di Béla Tarr [“Kárhozat”, “Sátántangó”, “Werckmeister Harmóniák”, “A Londoni Férfi”, “A Torinói Ló”), di Edgar Reitz (“Heimat”, 1981-2013 ↔ XIX, XX e XXI secolo), dei Coen (“The Man Who Wasn't There”, 2001↔1949) e di Haneke (“il Nastro Bianco”, 2009↔1913-'14), e ai Soderbergh di “the Good German” (2006↔1945) e de Heer di “Dr. Plonk” (2007↔1907), ed in parte a quelle di Philippe Garrel, e di “Good Night, and Good Luck”, 2005↔1953), “Tetro” (2009↔seconda metà XX secolo), “Polytechnique” (2009↔1989), “A Field in England (2013↔metà XVII secolo), “Nebraska” (2013↔oggi), “Risttuules - In the CrossWind” (2014↔metà XX secolo), “1945” (2017↔1945), “November” (2017↔fine XIX secolo) e “Roma” (2018↔1970-'71), piuttosto che a quelle di “the Artist” (2011↔1927), “BlancaNieves” (2012↔anni '20), “Tabù” (2012↔oggi e metà XX secolo), “Ida” (2013↔1962), “Frantz” (2016↔1919) e “Cold War” (2018↔1949).

 

Sascha Schneider (1870-1927) - “Hypnosis” - 1904

Winslow Homer (1836-1910) - "the Artist's Studio in an AfterNoon Fog" - 1894

 

Rimane ben poco da dire, e come per altre occasioni (“the Limits of Control”, “Under the Skin” e lo stesso "the Witch"), non altro da fare che lasciar parlare ancora le immagini. E ascoltare il rumore di fondo scandente (↑) la salvezza e/o l'oblio della bradburyana Sirena da Nebbia [sua è la Shanty-Ballata monoton(ic)a]. 

 

Troppa luce, nessun significato...

 

E l'ottocento lascerà ben presto il passo al novecento, e il Romanticismo si frantumerà nelle trincee assediate dai gas della Prima Guerra Mondiale e nelle Fornaci Umane e Atomiche della Seconda...

 

E dopo Copernico/Galileo/Keplero che ci hanno detronizzati dal centro dell'Universo e del Sistema Solare, dopo Darwin che ci ha scagliato giù dalla sommità della scala evolutiva, dal vertice del Regno Animale e dall'apice della catena alimentare, mentre Freud ci sta scindendo persino dal centro, dal cuore e dal nucleo di noi stessi, ecco che presto si presenterà Einstein sulla scena a rivelarci l'essenza illusoria di Spazio e Tempo...

 

Non ci rimane altro che brindare alla Bellezza...

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

The Northman

  • Thriller
  • Gb, Rc, USA
  • durata 140'

Titolo originale The Northman

Regia di Robert Eggers

Con Alexander Skarsgård, Nicole Kidman, Claes Bang, Ethan Hawke, Anya Taylor-Joy

The Northman

IN TV Rai 4

canale 21 HD 521 altre VISIONI

 

Robert Eggers marcia fermo sul posto diretto verso HollyWood, che un poco si muove verso di lui.

 

Divenuto berserkr invece che monarca a causa di uno zio (in senso letterale, oltre che allegorico) bastardo, Amleth (che il Bardo di Avon rinominerà con omeopatica metatesi Hamlet) trova la sua scuotilancica Ofelia nella Rus’ di Kiev - la terragna slava Olga del bosco di betulle - e il suo destino (coincidente con quello della tragedia shakespeariana e non con quello della Vita Amlethi contenuta nelle Gesta Danorum stese da Saxo Grammaticus che sta alla base della versione finale dell’Ur-Amleto e ne costituisce le radici norrene) in Islanda, alle averne Porte di Hel(l), sulle pendici dell’Hekla, trasformando la vendetta in un atto d’amore protettivo verso la propria genìa futura raffigurata sull’Yggdrasill di famiglia.

 
Una questione di privilegi di classe, con qualche danno collaterale sgozzato sul posto.

Nel solco, per ragioni scientemente produttive (ché altrimenti Robert Eggers, se avesse voluto, avrebbe girato il suo rohmeriano “Perceval le Gallois”, no?), tanto di “the Vikings” di Richard Fleischer e di “Valhalla Rising” di Nicolas Winding Refn quanto di “Game of Thrones” e di “Vikings” (più GoT che VR, e - considerando che GoT è un’ottima serie ma non fa parte dell’Olimpo e che VR è il miglior film di NWR - ciò non è per forza un male), il terzo lungometraggio del regista di “the Witch: a New England FolkTale” e “the LightHouse” perde il confronto (in)diretto con “the Green Knight” (iniziando praticamente - non che ci fosse un altro modo filologicamente corretto per farlo - in maniera identica) di David Lowery, un altro hipster, e quello un po’ più a distanza con “Excalibur” (qui Draugr) di John Boorman, che son entrambi lavori d’un’altra pasta e razza.


Uppsala, Kyïv, Costantinopoli: schiavi a disposizione per tutti.

E anche “The Ice-Shirt”, il primo volume dei “Seven Dreams” di William T. Vollmann, rimane un’altra cosa e resta lontano, certo però è che potrebbero bastare quei pochi frame in pp.p. ortodonticamente iperrealista di Inieta Sliuzaite e quei pochi secondi in cui, sineddoche onirica di Anya Taylor-Joy, cavalca un compagno di galoppate e scuderia di Sleipnir gettandosi in plongée antigravitica verso il Valhalla sulle grandiosamente onomatopeiche note di Robin Carolan e Sebastian Gainsborough in arte Vessel per assegnare/conferire al film un proprio senso (di necessità).


È l’harpastum ch’è migrato al nord o il knattleikr ch’è migrato al sud?

Sceneggiato con Sjón (Sigurjón Birgir Sigurðsson), paroliere per Björk (qui interprete della veggente svetovitiana), consegnando al protagonista una scusa per uccidere il fratellastro pre-adolescente, “the NorthMan” segna un ottimo passo laterale, né avanti né indietro, per Robert Eggers, che porta con sé nella HollyWood di Arnon “Te la rimonto io l’America!” Milchan i suoi storici collaboratori: fotografia (compresi i reshoot) di Jarin Blaschke e (ri)montaggio di Louise Ford.

“Ti vendicherò, padre. Ti salverò, madre! Ti ucciderò, Fjölnir!!”
Scritta sovrimpressa in rune: “anni dopo”…
“Ti ucciderò, madre!! Ti vendicherò, Fjölnir! Ti salverò, padre.”
Oh, la legge del telefono senza fili, anche in versione “chiamata verso sé stesso”, non perdona.

 

Alexander Skarsgård contrae rutilante i muscoli e, da sorta di co-creatore del film qual è, lo è, il film. Nicole Kidman licenzia una delle sue migliori prestazioni degli ultimi anni, Ethan Hawke, prima di tuffarsi in “Zeros and Ones”, la distopia documentaria di Abel Ferrrara, qui ha ben poco da invidiare ai regnanti cavalier-soldati del “the Last Duel” di Ridley Scott, Anya Taylor-Joy si prepara per il cast corale riunito in “Amsterdam” da David O. Russell, per il tour de force del “Furiosa” di George Miller e per il post-Kamera Obskura e pre-Lolita del nabokoviano “Laughter in the Dark” di Scott Frank (in cui sarà l’amante giovane o la moglie?) e Claes Bang compie compiutamente il suo dovere, e poi c’è Willem Dafoe (“Poor Yorick!”, qui Heimir), mentre chiudono il vasto cast, tra gli attori principali, Olwen Fouéré, Kate Dickie, la già citata Björk e il piccolo Oscar Novak. Consulenza di Neil Price (come Kip Thorne per “Interstellar”).


Una bella avventura, in attesa di sapere se l’eventuale secondo remake del “Nosferatu” di Murnau dopo quello herzoghiano sarà un ritorno alle origini o un altro fermo marciare sul posto.

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Strange Thing About the Johnsons

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 28'

Titolo originale The Strange Thing About the Johnsons

Regia di Ari Aster

Con Billy Mayo, Brandon Greenhouse, Angela Bullock, Danièle Watts, Carlon Jeffery

The Strange Thing About the Johnsons

 

- - - ARI ASTER - - -

 

(Ari, Ari, Ari Aster.) Too Much Johnson(s).

 

The Strange Thing About the Johnsons”, il mediometraggio (29') scritto e diretto da Ari Aster, non il suo esordio, ma il suo primo lavoro importante (è la tesi di laurea per l'American Film Institute), del 2011, cui seguiranno, prima di “Hereditary” (2018) e “MidSommar” (2019), i cortometraggi “TDF (Tino's Dick Fart) - Really Works” di 2' e “Beau” di 7', del 2011, “Munchausen” di 17' del 2013, “Basically” di 15' e “the Turtle's Head” di 12', del 2014, e “C'est la Vie” di 8' del 2016, nulla sposta - né col senno di poi né con la precognizione - lungo il percorso del suo cinema che prendeva le mosse 10 anni fa proprio con la genesi di quest'opera piana, lineare e risolta (dalla pedofilia "inversa" alla gerontofilia "edipica": e il problema non è impuntarsi e indignarsi sul concetto allargato, sfiancato, sfilcciato, liso e strappato di "amore"), e che, soprattutto, lascia intatto l'asse cartesiano del PdV dall'inizio alla fine, senza evoluzione di sguardo: racconta ma non elabora, spiega ma non ragiona, dice ma non affronta.
Troppo sui Johnson? Troppo poco?

 
La parte principale è affidata al caratterista di lungo corso Billy Mayo. Il resto del cast è completato da Angela Bullock e Brandon Greenhouse.
Fotografia di Pawel Pogorzelski, che diverrà sodale collaboratore del regista. Montaggio di Brady Hallongren. Musiche di Brendan Eder. Produce Alejandro de Leon.

 

Il figlio guarda il padre.

Il padre guarda il figlio.

 

La madre guarda in basso verso il figlio, il figlio guarda in alto verso il padre, e il padre guarda dritto davanti a sé, e sorride.

 

Oida: la madre, finalmente, vede (la scelta topica - tanto decisiva e risolutiva quanto retorica e semplicistica - della improrogabile sveltina al matrimonio), dopo aver stornato lo sguardo (?) per anni.

 

Il padre, un H.H. "traviato" (a scanso di equivoci: no), prima di fare la fine di Charlotte Haze (e non sarà il Grande Romanzo Americano, la Confessione sotto forma delle mentite spoglie di un'AutoBiografia, a salvarlo: il "manoscritto" divamperà mentre le ultime braci della Famiglia si spengono annegando nel Sangue), più non ride.

 

Qui di seguito il film...

 

 

Michael Haneke, Jorgos Lanthimos, Todd Solondz, Ulrich Seidl, Gregg Araki, Larry Clark, Andrew Jarecki, John Cameron Mitchell, Matt Sobel...

Troppo sui Johnson? Troppo poco?

 

Comunque il cinema di Ari Aster merita sempre un'occasione: non è rigonfio, pomposo e ridondante come solitamente si presenta quello di Sam Mendes, Alejandro González Iñárritu, Nicolas Winding Refn, Darren Aronofsky o Luca Guadagnino (ma hanno anche dei difetti, eh), e assistere ad esso, per lo meno, non crea indigestione e gorgoglii addominali, ma solo qualch'emetico rigurgito.

 

One of my shorts, The Strange Thing About the Johnsons, was my Sirkian film. That was a weird mutt of a movie, where it started as one thing then became another and then another. I was at AFI, which is a kind of industry school. They’re very Hollywood-oriented and they want to train you to become a Hollywood filmmaker, and the films they show the incoming fellows are very politically correct, you know, Oscar movies. And I just thought, what’s the worst thing I can make at AFI?

Ari Aster a Film Comment (2018)

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Hereditary - Le radici del male

  • Horror
  • USA
  • durata 120'

Titolo originale Hereditary

Regia di Ari Aster

Con Toni Collette, Gabriel Byrne, Alex Wolff, Ann Dowd, Milly Shapiro

Hereditary - Le radici del male

In streaming su Paramount Plus

vedi tutti

 

L'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole) in cui qualcuno perde la testa: il regista.

 
Con qualche rallentamento e molta suspense, il primo respiro di compensazione lo si tira dopo 40 minuti e due funerali. E da lì in poi la domanda è: dove si vuole andare a parare? Per com'è costruita l'azione…fino a quei dati punto e momento, e con quei dati a disposizione, tutto è tanto plausibile quanto accadibile, persino la razionalità. Poi, intorno all'ora, un uno-due: che spreco, se almeno… No, niente, nulla, così è.  
E dunque: “the Exorcist”? “Rosemary's Baby”? “the Shining”? E ancora, dopo W.Friedkin, R.Polanski e S.Kubrick: Sam Raimi, un certo côté argentiano, M. Night Shyamalan (l'elemento "nascosto" sullo sfondo dell'inq.ra che poco a poco, sotto traccia, piano piano, si palesa costituente e attore principale dell'azione), e...sulla fiducia per il futuro...Robert Eggers? Certo che no: “Hereditary” è solo la miniatura di tal Cinema.  

È l'interpunzione di un grimaldello/passepartout e la traslitterazione onomatopeica del suono Q della lingua Xhosa, "Glock", in seno a un discorso un po' più ampio: il genere horror.

 
Con i casualmente summenzionati esordi e opere seconde di David Robert Mitchell, Jennifer Kent e Robert Eggers, il primo lungometraggio dopo una serie di corti del regista e sceneggiatore Ari Aster ha a che spartire qualcosa: dalle stupidamente utilizzate in modo pretenziosamente e sfocatamente “disturbante” nudità (sostanza e contenuto veicolato attraverso la forma e lo stile) come nell'ingenuo e pretenzioso “It Follows”, all'insensatezza, declinata attraverso due prevalenti dispositivi differenti, dello spirito/sostanza/contenuto/significato, in “Babadook” (l'inaccettabilmente compromissoria e arrendevole morale finale), e della tecnica/forma/stile/significante, in “Hereditary” [l'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole), dalla quale invece Robert Eggers con “the Vvitch” si salva in pieno grazie alla riduzione all'osso dell'evidenza ostentata].
Ciò che invece salva il film dalla messa in abisso - fisica - è il suo essere - consapevolmente o meno, “non” importa - totalmente cazzoide/cazzone.

 

Toni Collette (anche prod. esec.), che forse ha mai avuto quell'exploit che davvero si sarebbe meritata [ovviamente, dato il tema: “the Sixth Sense”, e poi: “Velvet GoldMine”, “8½ Women”, “About a Boy”, “In Her Shoes” (la sua prova migliore), “Little Miss Sunshine”, “TowelHead”] e che da almeno più di un lustro (dopo la grande prova di “Unites States of Tara”) non ha avuto parti di rilievo, qui è di una bravura mostruosa (che riproporrà in "WanderLust"), tanto sottile quanto sbracata.
Gabriel Byrne (anche prod. esec.), la sempre brava Ann Dowd [carriera trentennale ("Olive Kitteridge"), e oramai iconica Aunt Lydia], l'esordiente Milly Shapiro e in parte il giovane Alex Wolff le tengono testa. Poi, qualcuno la perde (spoiler: il regista).
Fotografia di Pawel Pogorzelski, montaggio di Jennifer Lame (noahbaumbachiana d.o.c.g.) e Lucian Johnston, musiche del grande Colin Stetson che qui si diverte tanto a pigiare sul pedale dell'acceleratore quanto ad utilizzare sullo spartito l'evidenziatore giallo fluorescente.


Marchio A24 Films, una garanzia (ad oggi, ancora enormemente più nel bene che nel male: American Honey, the Ballad of Lefty Brown, the Bling Ring, the Disaster Artist, Enemy, Ex Machina, First Reformed, the Florida Project, A Ghost Story, Good Time, High Life, How to Talk to Girls at Parties, InTo the Forest, It Comes at Night, the Killing of a Sacred Deer, Krisha, Lady Bird, Lean On Pete, Life After Beth, the Lobster, Room, the Rover, the Sea of Trees, Spring Breakers, Swiss Army Man, Tusk, Under the Skin, Under the Silver Lake, the Vvitch, WoodShock).
Gli effetti digitali messi a ricreare uno sciame di mosche tipo vecchia pellicola puntinatamente rovinata sono giustamente (?) irritanti.

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Midsommar - Il villaggio dei dannati

  • Horror
  • USA
  • durata 140'

Titolo originale Midsommar

Regia di Ari Aster

Con Florence Pugh, Jack Reynor, Will Poulter, William Jackson Harper, Vilhelm Blomgren

Midsommar - Il villaggio dei dannati

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Continuare ad ignorare l'orso. Ha poco più di vent'anni, Dani, e la sua mezz'estate è ancor ben lontana. Ha rimpiazzato la sua famiglia d'origine (non è una questione di emancipazione, ma di cose che avvenendo accadono, e capitando succedono) abortendo per tempo la nascita di una famiglia di ripiego. Certo è che non prende più pillole per sognare.

 

Siam sempre lì…

«Ricordarsi che un film è un’opera d’arte che vive solo nella quarta dimensione, il Tempo.
Un’opera d’arte alta 3 centimetri e lunga 3 chilometri.   
Ci sono due strade già segnate e comode: quella aperta dai Fratelli Lumière e quella di Georges Méliès.
La strada realistica, il treno che arriva alla stazione de La Ciotat e sorprende sempre (nelle sue varie estrapolazioni oggettuali: aeroplano, nave, macchina, etc...) e quella fantastica, la Luna di cartone, il Polo Nord, il trovarobato surreale e d’avanguardia, l’ironia sull’uomo, sui miti, sulle cose.  
Non è indispensabile seguire una di queste strade. È preferibile seguirle tutte e due, inventandone una terza che sia la componente direttiva, che porti cioè a un altro risultato di meraviglia, lo stesso: quello dei sogni e dell’arte.»

Ennio Flaiano - “Appunti su Melampo” (dall’Appendice a “Melampus”), in “il Gioco e il Massacro” - 1970 (Adelphi, 2014)

 
MidSommar”, con le sue 2 ore e mezza (estese a quasi tre nella versione director's cut) che scorrono volentieri, costituisce un piccolo nella sostanza e discreto nella forma passo avanti per Ari Aster, regista e sceneggiatore che, rispetto all'esordio di “Hereditary”, qui, alla sua opera seconda, non si limita a marciare fermo sul posto marcando un territorio già suo, pur ri-percorrendo tracciati già ben delineati dal genere

- dal recente passato della SummerIsle di “the Wicker Man” di Robin Hardy (e Anthony Shaffer, David Pinner, Edward Woodward e Christopher Lee) al presente coevo del tramite tra i due mondi che porta in pegno un dono (“Get Out” di Jordan Peele) e del finale percussivamente desistente e arresosi al contagio e al disvelamento della propria essenza (“the Vvitch: a NewEngland FolkTale” di Robert Eggers e lo stesso - ma specularmente opposto e inversamente contrario - “Hereditary”: i due film, dialogando a distanza, creano un'antinomia "perfetta") e al riscatto femminile con tanto di automatismi reazionari e di presa di coscienza del proprio individuale, specifico e peculiare posto nel mondo e della personalmente caratteristica, precipua ed intrinseca condizione (“It Follows” di D.R.Mitchell e “the Nightingale” di Jennifer Kent) -,


ma, effettuando un similare lavoro sul corpo e soprattutto, più pudicamente e al contempo più “scandalosamente”, sul volto delle sue protagoniste [là Toni Collette, qui la giovane Florence Pugh, classe 1996 (“the Falling”, “Lady Macbeth”, “Marcella”, “the Little Drummer Girl” e il prossimo “Little Women” di Greta Gerwig), fra le migliori attrici anglofone della sua generazione (1989-'99: Elizabeth Olsen, Hannah Murray, Mia Wasikowska, Emma Watson, Kristen Stewart, Dakota ed Elle Fanning, Saoirse Ronan, Maisie Williams, Chloë Grace Moretz, Kiernan Shipka...) di tardi millennials echo boomers della generazione Y], pur raggiungendo facilmente e prematuramente quel ragguardevole livello di umorismo involontario che... non fa ridere bensì provare imbarazzo per interposta persona

- il film a 1/3 (“So... We're stopping in Waco before going to Pelle's village?”) smette di essere interessante, sostituendo la creazione della suspense con la manifestazione degli ingranaggi e dei dispositivi del modello e dello stampo del grande gioco in atto e in corso (che la campidogliesca rupe Tarpea o spartano dirupo Taigeto che dir si voglia debba assolvere a quella funzione lo si comprende dal primo frame in cui compare grazie a un'inquadratura dal basso; che la presenza di un grosso maglio imbracciato/impugnato in scena preannunci l'uso che ne verrà fatto calandolo s'un qual si voglia obbiettivo è una legge scritta e “la Pistola di Checov” è la sua denominazione giuridica; che un espirato rutto in sordina à la Stefano Chiodaroli possa essere la manifestazione secondaria di un complesso rituale auto-detreminatosi è una “meravigliosa” collateralità), mentre a 2/3 (“So... We're just gonna ignore the bear, then?”) inizia a stancare, avendo del tutto esaurito ogni tipo e genere di speranza relativamente alla possibilità che possa avvenire uno scarto di lato e uno scatto in avanti rispetto al contenuto espresso piuttosto che adagiarsi sulle minime e moderate invenzioni di messa in scena (qualche carrellata laterale, qualche campo-controcampo, qualche jump cut, qualche ellissi, qualche coreografia ripresa sia con camera/macchina a mano che con piani lunghi onnicomprensivi), anche se un certo grado di coinvolgimento inerziale riesce ad esprimerlo e a mantenerlo per tutta la durata (e da questo PdV Ari Aster ce la fa quasi del tutto ad attivare la sospensione dell'incredulità, facendola intervenire non certo nei confronti dei puri incastri di trama - ad esempio: per quale motivo iconiche rappresentazioni d'infibulazioni e squartamenti autoinflitti dovrebbero impressionare qualcuno cresciuto nella cultura cristiana del crocefisso? Meglio invece “Continuare ad ignorare l'orso”! -, bensì innescandola all'interno delle dinamiche comportamentali - che la trama muovono, sì, non costituendone però la componente precipua - e in particolar modo rispetto all'attrazione che il luogo esercita verso i protagonisti, non perché obnubilati dalle droghe quanto piuttosto dalle proprie “egoistiche” esigenze: e infatti i primi ad... “andarsene”, aka scomparire, sono proprio quei personaggi che lì si ritrovano a stare più per caso turistico ché per ragioni di studi etno-logici/grafici) -

riesce a rendersi - nonostante il costitutivo peccato originale di afferire, situarsi a ridosso e propalare più dalla zona Aronofsky che da quella Polanski: e questo è tutto - una gradevole esperienza: una lunga passeggiata/scampagnata di 9 giorni ogni 90 anni può definirsi accettabile ed “amabile” pur - e purtroppo in questo resta tanto simile ad “Hereditary” quanto dicotomico a “the Witch” - manifestandosi insignificante (elaborare il lutto, e parallelamente/conseguentemente rendersi indipendente ed autodeterminarsi... appoggiandosi ad un altro nucleo famigliare, espanso e/ma chiuso) a proposito di senso e significato: comunque un bel segno, va' che bella runa!

 
Fotografia: Pawel Pogorzelski (“Hereditary” e il prossimo film di Ana Lily Armipour, “Mona Lisa and the Blood Moon”). Montaggio: Lucian Johnston (“Hereditary” e il prossimo progetto di Lila Neugebauer). Scenografie: Henrik Svensson. Costumi: Andrea Flesch. Musiche: Bobby Krlic alias the Haxan Cloak (dall'inizio, sul doppio pannello / pala d'altare in legno schiudentesi a sipario che esplicativamente già tutto racchiude e dispiega, e infatti il titolo è... “Prophesy”, alla catartica benedizione finale di, per l'appunto, “the Blessing”). Più la chiosa di Frankie Valli con “the Sun Ain't Gonna Shine (Anymore)”. Fra i comprimari spicca un poco sugli altri Will Poulter ("Black Mirror - BanderSnatch"). Sfracellato/maciullato cameo di non poco conto per l'ex ragazzo più bello del mondo, Björn Andrésen, il Tadzio manniano di Visconti. L'architettura della comunità di Hårgas è stata concepita da Martin Karlqvist e Patrik Andersson. La piena bella stagione ungherese interpreta la fine della primavera / inizio dell'estate svedese.

 

Ha poco più di vent'anni, Dani, e la sua mezz'estate è ancor ben lontana. Ha rimpiazzato la sua famiglia d'origine (non è una questione di emancipazione, ma di cose che avvenendo accadono, e capitando succedono) abortendo per tempo la nascita di una famiglia di ripiego. Certo è che non prende più pillole per sognare.

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Beau ha paura

  • Horror
  • Canada, USA
  • durata 179'

Titolo originale Beau Is Afraid

Regia di Ari Aster

Con Parker Posey, Joaquin Phoenix, Amy Ryan, Nathan Lane, Michael Gandolfini

Beau ha paura

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x x x x x  

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Scappa - Get Out

  • Thriller
  • USA
  • durata 103'

Titolo originale Get Out

Regia di Jordan Peele

Con Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford, Catherine Keener, Caleb Landry Jones

Scappa - Get Out

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- - - JORDAN PEELE - - -

 

La "minoranza" wasp mantenendo la posizione in attesa dell'estinzione supposta s'innesta con paternalismo schiavista nell'orda nera in minacciata espansione: loro sono più adatti e migliori di noi: sfruttiamoli. L'atto paradossale è esplicito. La realtà extra-diegetica del “momento” storico-politico pretende e necessita di un lieto fine possibile.

 

White Car/Dog, Black Deer/Man.

Tralasciando la sacra triade Romero-Carpenter-Cronenberg, si pensi al “Society” (1989) di Bryan Yuzna, in combutta con “Guess Who's Coming to Dinner” (Stanley Kramer e William Rose, 1967) che s'innesta e collassa in un doppio Ira Levin: “the Stepford Wives” (Bryan Forbes, 1975) e “RoseMary's Baby” (Roman Polanski, 1968). 

 
Prologo. 
“Run Rabbit Run” di Noel Gay e Ralph Butler per Flanagan and Allen.
Bang! Bang! Bang! Bang!
Goes the farmer's gun.
Run, rabbit, run!
Run! Run!
Don't give the farmer his fun!

Titoli di Testa. (E poi presente lungo tutto il film.) 
“Sikiliza Kwa Wahenga” (para/semi-"traditional") di Michael Abels
Brother,
To save yourself,
Listen to the ancestors:
Run! Run!
(In swahili.)

Prima Scena. 
“RedBone” di Childish Gambino (Donald Glover: “Atlanta”)
They gon' find you
Gon' catch you sleepin'
Now stay woke
Niggas creepin'
Now don't you close your eyes
But stay woke


Artisti attori.
Sul e del corpo/volto di Daniel Kaaluya (“Skins”, “PsychoVille”, “Black Mirror: 15 Million Merits”, “Sicario”, “Black Panther”, “Widows”) vive il film, nel bene, molto, e nel meno bene (qualche passaggio a vuoto perché di troppo o fuori posto).
Iperrealisticamente impressionante sul versante mise-en-scène romantica, Allison Williams (“Girls”) conserva anche nel finale un diverso tipo di tensione, più esplicita, e per questo meno conturbante; si muove, come sempre in bilico sul crinale tra perfezione e naturalezza, Catherine Keener (“Being John Malkovich”, “Full Frontal”, “S1m0ne”, “the Interpreter”, “Capote”, “InTo the Wild”, “Synecdoche, New York”, “Show Me a Hero”, “Kidding”) danzando “impassibile” sul filo dell'underacting stroppiato e sospeso s'un abisso prossemico di corpi, oggetti, movimenti, azioni e spazi; Caleb Landry Jones (“Crazy Dirty Cops”, “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri”, “Twin Peaks 3 - the Return”, e il prossimo "the Dead Don't Die" jarmuschiano) è capace di ridere mostrando solo gli occhi, mentre tutto il resto del corpo è impegnato a fare qualcosa di molto brutto; convincente Bradley Whitford (“West Wing”, “Studio 60 in the SunSet Strip”, “the HandMaid's Tale”), uno spasso mentre fa da anfitrione; Stephen Root (gran caratterista per i fratelli Coen, e: “the Men Who Stare at Goats”, “Pushing Daisies”, “True Blood”, “Red State”, “BoardWalk Empire”, “the NewsRoom”, “Fargo - 1”, “Justified”, “the Man in the High Castle”, “Barry”) giganteggia in una parte secondaria e terrificante, ed è capace di rendere lo spiegone che è destinato a interpretare alienante (“Sembra che la comprensione reciproca della procedura (ad opera di Coagula: dalle parti della Lacuna kaufman-gondryana e della Dharma jjabramsiana) abbia un effetto positivo sul successo del trattamento...” - “Perché noi, perché i neri?” - “Eh-eh! E chi lo sa? Il nero è di tendenza! Ma a me non me ne frega un cazzo di che colore sei...” - “This is crazy!” - “Ok, I'm done--”).
Chiudono il cast, in due ruoli secondari ma fondamentali, gli ottimi Betty Gabriel, Lil Rel Howery ("Bird Box"), Lakeith Stanfeild ("Atlanta"), Marcus Henderson ed Erika Alexander.  

 

Artisti tecnici.
Regìa e sceneggiatura di Jordan Peele, classe 1979, proveniente da Mad TV, creatore, con Keegan-Michael Key, di “Key & Peele”, attore in “Fargo -1”, produttore con Spike Lee e Jason Blum di “BlaKkKlansman” e autore del successivo “Us” e del prossimo - in corso di trasmissione - reboot (il 3°, senza contare il film) di “the Twilight Zone”.
Fotografia di Toby Oliver e montaggio di Gregory Plotkin, entrambi di Casa Blum.
Musiche principali di Michael Abels (“Detroit”, “Us”) e addizionali di Timothy Williams.
Produce BlumHouse (con un rapporto d'investimento netto / guadagno lordo di 1 a 55) e distribuisce Universal.  


“Mi conforta il concentrarmi sulle cose sbagliate.”

L'unico errore (attendo gradite confutazioni smententi e/o conferme avvaloranti) del film (tralasciando la sospensione dell’incredulità sul contesto scientifico, senza quindi cadere nel ridicolo criticando l’uso di candele in sala operatoria durante un intervento di… trapianto del cervello, ad esempio) potrebbe essere questo (e dipende dal fatto che nella stanza sia presente o meno, oltre che un microfono, anche una videocamera di sorveglianza nascosta, nell’occhio del cervo impagliato, o nel vecchio televisore anni ‘70, ad esempio), ovvero:
- se c’è, lo hanno visto infilarsi l'imbottitura (anche se sintetica... sembra comunque, più che ovatta, cotone: e via metaforando di schiavismo, come gli splendidi schizzi di sangue sulle bianche infiorescenze in “Django UnChained”)
- se non c’è, perché fingere, oltre che acusticamente (il microfono), anche visivamente di cadere in trance? (Vedi a tal proposito una scena dialetticamente speculare: la ragazza del protagonista, Allison Williams, che, mentre è al telefono con l'amico di lui, Lil Rel Howery, parla in un modo, concitato, e reagisce con le espressioni del viso in un altro, del tutto apatico.) Sospetta la presenza di un sistema di controllo video?
La sottile differenza tra il tentativo d’ingannare lo spettatore (gli strani atteggiamenti dei due domestici non sempre sono "giustificati", ma tutto si "risolve" con la reminiscenza e il riaffiorare delle personalità sommerse) e il volerlo sorprendere.  

 
"Sex slave! Oooh... shit, man! Chris, you've got to get the fuck up out of there, man! You are in some “Eyes Wide Shut” situation. Leeeave motherfuck…"

Un punto / mezza stella in più per:
- l'originale e sorprendente (plongèe e mise en abyme) rappresentazione del Sunken Place (la gabbia psichica - mondo/luogo sommerso / tunnel sprofondo), tra il “Vampyr” di Carl Theodor Dreyer (e il “Murder, My Sweet” di Edward Dmytryk) e l’Under the Skin di Jonathan Glazer (e lo “Stranger Things” dei fratelli Duffer.)
- l'ottimo jump-cut comico in campo-controcampo (l’amico del protagonista, Lil Rel Howery + la detective, Erika Alexander), attraverso il quale si palesa l’eredità di un “passato” performativo da stand-up comedian da parte del regista-sceneggiatore.
- la corsa d'allenamento (alla “It Follows” in accelerando) di colui che adesso può correre più veloce di Jesse Owens (e quindi no, non gli è passata, non l'ha digerita quella multipla stangata ricevuta nei primi giorni dell'agosto del 1936 a Berlino...). 

 

(Vampyr - Murder, My Sweet - Under the Skin)

 
La "minoranza" wasp, mantenendo la posizione in attesa dell'estinzione supposta, "attesta" la propria superiorità con malcelato paternalismo schiavista arretrando, r/aggirando, innestandosi nel "fronte opposto" dell'orda nera in minacciata espansione: loro sono più adatti e migliori di noi: sfruttiamoli.
L'atto paradossale è esplicito.
La realtà extra-diegetica del “momento” storico-politico (semplificando all'eccesso: nel pieno della prima era Trump dopo due mandati Obama) pretende e necessita di un lieto fine possibile.

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Noi

  • Thriller
  • USA
  • durata 120'

Titolo originale Us

Regia di Jordan Peele

Con Lupita Nyong'o, Winston Duke, Elisabeth Moss, Tim Heidecker, Shahadi Wright Joseph

Noi

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Find YourSelf.

 

Prospettive dal Sottosuolo, da Hands Across America a Black Lives Matter, non è una questione di pelle, quella messa in scena da queste “↓ombre↓” (cassavetesiane) bianche e nere, ma di filigrana.         

 
«Siamo africani in America. Qualcosa di nuovo nella storia del mondo, senza modelli per ciò che diventeremo. Il colore ci deve bastare.» - C.Whitehead, “the Underground Railroad”

Dagli abissi e dalle fogne, dai sotterranei (niente che già nella Old New York di “Futurama”...) e dalle catacombe, dagli scantinati e dai rifugi, ecco che i Morloch risalgono per spodestare gli Eloi, disponendosi mano nella mano costituendo una catena, un recinto rettilineo, “Una specie di performance artistica del cazzo” che digrada nell'oceano Pacifico (e Atlantico) imitando quel che da tempo fa il “muro” (Cal-Ari-New)Tex-Mex clinton-trumpiano.      


«Esisteva solo il buio del tunnel e, da qualche parte avanti a lei, un’uscita. O un vicolo cieco, se era questo che aveva decretato il destino: solo una parete vuota e spietata.» - C.Whitehead, “the Underground Railroad”

Il perno, il nucleo, l’asse, la sorgente, l’orizzonte degli eventi del film si trova nel prologo, nel quale avviene una scissione (il doppelgänger per sua natura non è né copia né originale, ma una parte del tutto: tutto dipende da qual è il punto di vista del narratore...) crematistica in cui una parte gode del plusvalore sottratto all'altra e l'altra si consuma con le rigaglie, i lacerti e i cascami scartati dall'una.        


«A un capo della linea c’è la persona che eri prima di scendere sottoterra, all’altro capo viene alla luce una persona nuova.» - C.Whitehead, “the Underground Railroad”

Così come ad un certo punto (un punto che si comporta come un'onda elastica che si dirama attraverso il tempo) della storia d'America e “quindi” del Mondo è avvenuto uno scambio che non è uno scambio, perché «Lo scambio è per sua natura un contratto d'eguaglianza, che si compie fra un valore ed un valore eguale. Non è dunque un mezzo di arricchirsi, poiché si dà tanto quanto si riceve» (da “De l'Intéret Social”, 1777, del fisiocratico, dispotista, antidemocratico, assolutista, autarchico Guillaume Le Trosne, scientemente citato da Karl Marx ne “il Capitale”, Libro I, Sezione II, Capitolo 4, “la Trasformazione del Denaro in Capitale”), mentre qui vi è da una parte un arricchimento (per quanto possibile inconsapevole: nessun patto faustiano all'orizzonte, ma le conseguenze sono le stesse: la legge morale non ammette ignoranza, in questa porzione di universo) e dall'altra un impoverimento.      


Il suo prezzo fluttuava. Quando uno viene venduto così tante volte, il mondo gli sta insegnando a fare attenzione. [...]
Sapeva che gli scienziati dell’uomo bianco sbirciavano sotto le cose per capire come funzionavano. Il movimento delle stelle durante la notte, l’azione combinata degli umori nel sangue. La temperatura necessaria per un buon raccolto di cotone. Ajarry fece del suo corpo nero una scienza e accumulò osservazioni. Ogni oggetto aveva un valore e man mano che il valore cambiava, cambiava anche tutto il resto. Una zucca a fiasco rotta valeva meno di una che poteva contenere l’acqua, un uncino che tratteneva i pesci gatto era più prezioso di uno che lasciava sfuggire la preda. In America la cosa curiosa era che anche le persone erano oggetti. Meglio non spendere troppo per un vecchio che non sopravviverà alla traversata dell’oceano. Un giovane maschio proveniente da un buon ceppo tribale, invece, faceva venire la bava alla bocca agli acquirenti. Una schiava che sfornava mocciosi era l’equivalente di una zecca, denaro che generava denaro. Se eri una cosa – un carro o un cavallo o uno schiavo – il tuo valore determinava le tue possibilità. Ajarry stava al suo posto.

Brano tratto, come i precedenti, da: “the UnderGround RailRoad” di Colson Whithead del 2016 (ediz. ital. BigSur, “la Ferrovia Sotterranea”, 2017, traduz. di Martina Testa).

Scritto, diretto e prodotto (con la BlumHouse di Jason Blum) da Jordan Peele.
Fotografia di Mike Gioulakis (“It Follows” e “Under the Silver Lake” di David Robert Mitchell e “Split” e “Glass” - la cui locandina ricorda molto l'artwork creato per quella di "Get Out" - di M. Night Shyamalan). Montaggio di Nicholas Monsour. Musiche originali, molto belle, di Michael Abels.             

Doppelgänger: "Parasite/Gisaengchung" di Bong Joon-ho.            


Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi
a far promesse senza mantenerle mai, se non per calcolo.
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile,
la posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere.
E non far partecipare nessun altro.
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro.
Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili,
perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili.
Sono tanti, arroganti coi più deboli,
zerbini coi potenti. Sono replicanti,
sono tutti identici, guardali:
stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.
Come lucertole s'arrampicano,
e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno;
spendono, spandono e sono quel che hanno.
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio.
E come le supposte abitano in blisters full-optional,
con cani oltre i 120 decibel e nani manco fosse Disneyland.
Vivono col timore di poter sembrare poveri.
Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano.
In costante escalation col vicino costruiscono,
parton dal pratino e vanno fino in cielo,
han più parabole sul tetto che San Marco nel Vangelo.
Sono quelli che di sabato lavano automobili,
che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e i pargoli.
Medi come i ceti cui appartengono,
terra-terra come i missili cui assomigliano.
Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano
e poi s'impastano su un albero.
Nasi bianchi come Fruit of the Loom
che diventano più rossi d'un livello di Doom.
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica,
mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano,
altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano.
Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,
mani lisce come olio di ricino,
mani che brandisco manganelli, che farciscono gioielli,
che si alzano alle spalle dei Fratelli.
Quelli che la notte non si può girare più,
quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan la TV.
Che fanno i boss, che compran Class,
che son sofisticati da chiamare i NAS. Incubi di plastica
che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara,
ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,
quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera.
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio.

“Quelli Che BenPensano” di Frankie Hi-NRG MC da “la Morte dei Miracoli” del 1997

 

Interpretato con assoluta magnificenza svergognata da Lupita Nyong'o (12 Years a Slave, Star Wars VII-VIII-IX, Black Panther) alla quale tiene testa la sempr'eccelsa Elisabeth Moss (West Wing, Mad Men, Listen Up Philip, Queen of Earth, MeadowLand, High-Rise, the Free World, the Square, Her Smell, Shirley). E a loro si affiancano Winston Duke, Tim Heideker e i giovani Shahadi Wright Joseph ed Evan Alex.     

     
Musiche non originali: “Good Vibration” dei Beach Boys, con, a seguire, grazie ad Alexa/Siri, “Fuck tha Police” degli N.(iggaz) W.(ith) A.(ttitude), “I Got 5 On It” dei Luniz e, per finire, la bellissima “les Fleurs” di Minnie Riperton

 

Conosco le abitudini / so i prezzi
e non voglio comperare / né essere comprato.
Attratto, fortemente attratto. / Civilizzato, sì: civilizzato.
Comodo, ma come dire... poca soddisfazione,
comodo, ma come dire... poca soddisfazione,
soddisfazione, Signore.
Conosco le abitudini / so i prezzi
e non voglio comperare né essere comprato.
Attratto, fortemente attratto. / Civilizzato, sì: civilizzato.
Uno sguardo più puro sul mondo, ché la civiltà è ora, pagando.
Decidi: cosa, come, quando.
Comodo, ma come dire... poca soddisfazione,
comodo, ma come dire... poca soddisfazione,
soddisfazione, Signore.
Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché "mio", m'aspetta.
Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché "mio", m'aspetta.
Ventiquattromila pensieri al secondo fluiscono inarrestabili alimentando voglie e necessità.
Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché "mio", m'aspetta.
Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché "mio", m'aspetta.

“Forma e Sostanza” dei C.S.I. da “Tabula Rasa Elettrificata” del 1997        

 

Us” - un tassello nuovo nel sottogenere dell'Home Invasion (“the Desperate Hours” di William Wyler, “the Incident” di Larry Peerce, “Straw Dogs” di Sam Peckinpah, “A ClockWork Orange” di Stanley Kubrick, “Desperate Hours” di Michael Cimino, “Funny Games” e “Funny Games... US” di Michael Haneke, senza citare poi i vari modesti epigoni quali “Ils” di David Moreau e Xavier Palud e “the Strangers” di Bryan Bertino) innestato in quello del World Invasion (con, ancora come in "Get Out", rimandi all'UpSide Down di "Stranger Things") - può considerarsi un piccolo passo avanti compiuto da Jordan Peele (il cui cinema trovo molto più divertente, interessante e profondo rispetto a quello di Darren Aronofsky, Steve McQueen, Nicholas Winding Refn e Rob Zombie) rispetto a “Get Out” (anche per via del fatto che Lupita Nyong’o è un poco più convincente di quella, pur ottima, di Daniel Kaluuya), mentre per ora, giunti al 6° ep., la “sua” versione di “the Twilight Zone” si attesta su risultati ben più modesti, rispettando(ne) troppo, forse, lo spirito... di quel tempo, senza un adeguato aggiornamento (di argomentazione, più che di stilemi).

La metafora è, in un eterno ritorno seventies, appiccicata/intrecciata all'impalcatura tecnologica del genere horror. Il plot-twist finale (nulla che “the Simpsons” non avessero già fatto: “the Thing and I” in “TreeHouse of Horror VII” del 1996) è un ulteriore e significativo ribaltamento/cortocircuito/bilanciamento morale.                

 

Parafrasando una linea di dialogo estratta da “Guava Island” di Hiro Murai e Donald Glover (e Childish Gambino è quasi un co-autore morale di “Get Out”), “L'America è un concetto. Ogni paese in cui ti trovi, se per arricchirti devi rendere più [ricco-] povero qualcun altro, è America.”

Dai Gilets Jaunes ai pigiamini/tutine amaranto, la forbice sociale, al “massimo” grado di apertura, sta per richiudersi: non più bianchi contro neri, ma poveri contro ricchi, e, dal punto di vista della middle class, poveri contro poveri.       

 

In un gioco (nel quale Identità è anche Alterità, senza dimenticare il Maestro) in cui i borghesi, i ContoCorrentisti, vincono sempre, contro ogni Re, contro ogni poveraccio: i borghesi sono Borghesi, e voi siete un cazzo di nient'e nulla.

- Voi chi siete?
- Siamo americani: Torre Maura, Casal Bruciato, Goro Haram.

 

[Bugìa. Gli ammeregani don't eat coniglietti pucciosi. Tra allegoria, trasfigurazione e addestramento/plagio: “When the girl ate, her food was given to her warm and tasty. But when the shadow was hungry, she had to eat rabbit raw and bloody. On Christmas, the girl received wonderful toys. Soft and cushy. But the shadow's toys were so sharp and cold. They'd slice through her fingers when she tried to play with them.”]

Io davvero non capisco perché qui da NOI, al Nord che Lavora e che Produce, si è passati dal prendersela con i terroni al prendersela coi negri e con gli zingari: che cos'hanno i terroni che non va (anche loro, del resto, se la sanno prendere benissimo con gli zingari e i negri) da non poterli più discriminare a dovere? È proprio vero che i migranti stanziatisi sono più razzisti degli stanziali autoctoni. Il povero un po' meno povero del povero più povero... Svegliatevi, dormienti.  


Us”, costato 20 milioni di $, ne ha incassati 250, come il precedente “Get Out”, che ne era costati 5.

Find YourSelf.   

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Nope

  • Horror
  • USA
  • durata 131'

Titolo originale Nope

Regia di Jordan Peele

Con Barbie Ferreira, Keke Palmer, Michael Wincott, Daniel Kaluuya, Steven Yeun, Donna Mills

Nope

In streaming su Amazon Video

vedi tutti

 

Un film Debord(ante). Don't Look Up!

 

1. Bad Miracle.

Jordan Peele, il più marxista degli statunitensi dislocati nei dintorni di HollyWood, al suo terzo film dopo “Get Out” e Us, gira il suo fottuto film tarantiniano (c’è un Death Proof che inganna e semina la MdP, lassù), e lo becca in pieno: postmoderno massimalista avant-pop oltre ogni dire, nel pieno solco di Kurt Vonnegut, Thomas Pynchon, Simon Winchester, Steve Erickson, William Langewiesche, Richard Powers, Neal Stephenson, William T. Vollmann, David Foster Wallace, Frank Westerman, Jonathan Lethem e Benjamín Labatut.

Vanno
Vengono
Ogni tanto si fermano
E quando si fermano
Sono nere come il corvo
Sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
E corrono
E prendono la forma dell'airone
O della pecora
O di qualche altra bestia
Ma questo lo vedono meglio i bambini
Che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con un rumore
Prima di arrivare
E la terra si trema
E gli animali si stanno zitti
Certe volte ti avvisano con rumore

Vengono
Vanno
Ritornano
E magari si fermano tanti giorni
Che non vedi più il sole e le stelle
E ti sembra di non conoscere più
Il posto dove stai

Vanno
Vengono
Per una vera
Mille sono finte e si mettono lì
Tra noi e il cielo
Per lasciarci soltanto una voglia di pioggia

 

2. Gordy. Telefono. Casa.

Under the Skin” (Glazer/Faber) + "Signs" (Shyamalan) + Jaws, GhostBusters & Tremors (il titolo del capitoletto sta ad indicare che le due dicotomiche ali spielberghiane sono entrambe rappresentate: “più” E.T. che Close Encounters, "Nope" è un film eminentemente Made in Amblin Entertainment, senza esserlo). Più "il pupazzo gonfiabile che saluta come uno scemo", direttamente da "Family Guy" e "Better Call Saul". E un certo allure kubrickiano ad ammantare il tutto, toh.

Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l'invasore
e tu madre perché non sei morta
e tu padre perché vivi ancora

Per vedermi torturato
per vedermi condannato
Oh partigiano portami via
che mi sento di morire

E ricordo la guerra di Etiopia
la conquista di Addis Abeba
l'Albania, la guerra di Grecia

Ho memoria di leggi razziali
italiani mandati al macello
sangue del nostro sangue
nervi dei nostri nervi

Oh partigiano portami via
che mi sento di morire
Oh partigiano portami via

Il bersagliere ha cento penne
E l'alpino ne ha una sola
Il partigiano ne ha nessuna
E sta sui monti a guerreggiare

Lassù sui monti vien giù la neve
La tormenta dell'inverno
Ma se venisse anche l'inferno
Il partigiano rimane là

Quando poi ferito cade
Non piangetelo dentro al cuore
Perché se libero un uomo muore
Non gli importa di morire

 

3. De Visu, o: Guardami, Così Posso Vederti (masticarti/divorarti/ingerirti/digerirti/espellerti e/o comprenderti).

 

A New Kind of Day-for-Night (Effetto Notte) Cinematography.

Ed ecco Antlers Host (Michael Wincott) che, con un IMAX 1:1.375 a manovella in spalla, interpreta Hoyte van Hoytema (o Néstor Almendros & Haskell Wexler, Emmanuel Lubezki, Edward Lachman & Werner Herzog) gettandosi nel sombrero dell’aprocto predatore celenterato/ctenoforo dei cieli (e quel che non poté il filo spinato lo fece l’elio), un tendone da circo Barnum che pretende un biglietto di sangue, un aerostatico cefalopode sifonatore, un’ipertrofica vagina mestruata, un diaframma/otturatore di fotocamera/cinepresa, e via così a colpi di metafore...   

Il costante understatement messo in atto da Daniel Kaluuya (Sicario, Get Out, Black Panther, Widows, Queen & Slim, Judas and the Black Messiah) per Otis “OJ” (che no, non è proprio come chiamarsi Adolf o Benito) Haywood Jr. è adorabile, tanto quanto il suo contraltare ginoide che Keke Palmer ("Alice" di Krystin Ver Linden) mette in scena per Emerald “Em” Haywood. Chiudono il cast le interpretazioni di Keith David (the Thing, Platoon, Bird, They Live, Cloud Atlas), Brandon Perea (“the OA”), Steven Yeun (“Okja”) e di una sgargiante Wrenn Schmidt (“For All ManKind”). E in un cameo Donna Mills (Play Misty for Me). 

Montaggio (forse l’unico elemento tecnico-artistico nella norma, con qualche sprazzo didascalico a tenere insieme, senza farli debordare troppo – e chissà mai poi perché - lo stile di ripresa e di regia) di Nicholas Monsour, scenografie di Ruth De Jong, musiche (belle e soprattutto molto funzionali) di Michael Abels e, tra le canzoni preesistenti, questa:

I came down on a lightning bolt
Nine months in my Mama's belly
When I was born the midwife screamed and shout
I had fire and brimstone coming out of my mouth
I'm Exuma, I'm the Obeah man

Exuma was my name when I lived in the stars
Exuma was a planet that once lit Mars
I've got the voices of many in my throat
The teeth of a frog and the tail of a goat
I'm Exuma, I'm the Obeah man

I've sailed with Charon, day and night
I've walked with Houngaman, Hector Hyppolite
Tony McKay was my given name
Given on Cat island when my mama felt the pain
Creatures of the earth, space, sea, and land
I can make the sun fall from the sky
I'm the Obeah man, I'm the Obeah man…

 

4. Un Biancore Terribile, ovvero: Oida! (Quando Abbiamo Smesso di Capire il Mondo).

Il “messaggio” sulla critica alla società dello spettacolo lo lascerei ai postini della critica (o alle citazioni bibliche in esergo).

Poi, bisogna comunque dar da mangiare alle bestie (ché poi, difatti, la Terra, è già piena zeppa di alieni, altri-da-noi).

“Lucky! Stch-stch!”

 

Perché "Nope", in fondo, è un neo-western dell'aria.

PS.
Per un pelo, ma ce l’ho fatta a non citare Eadweard Muybridge e Annie G. [sì, perché della serie di 18 zoopraxiscopiche fotografie consequenziali (Animal Locomotion: an Electro-PhotoGraphic Investigation of Consecutive Phases of Animal Movements - ColloType Plate n° 626: Gallop - ThoroughBred Bay Mare Annie G.”) scattate dal fotografo inglese della seconda metà dell’ottocento Jordan Peele si scorda di dirci che non solo non si conosce il nome del fantino nero (circa 137.5 anni dopo qui ri-battezzato per l’occasione finzionale Alistair E. Haywood, bahamense), ma per contro si conosce quello del cavallo: per l’appunto, una purosangue baio di nome Anne G., e prima di lei ci fu “Sallie Gardner al Galoppo”].

PPS.
Le isole Exuma, un arcipelago delle Bahamas, sono famose anche per un’attrazione locale, i maiali nuotatori. In “Nope” c’è un maiale finito sul tetto, parente stretto dell'odisseica mucca del coeniano "O Brother, Where Art Thou?".

PPPS.
“I will cast abominable filth upon at you, Make you vile, And make you a spectacle.” - Nahum, 3:6
E Ninive vive, così come Palmira, nonostante lo Stato Islamico.

 

"...e non s'arrende, mai / e non s'attendere..."

 

Un film Debord(ante).Don't Look Up!

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

The Tell-Tale Heart

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 20'

Titolo originale The Tell-Tale Heart

Regia di Robert Eggers

Con Carrington Vilmont, Richard Easton, Dan Charlton, Nathan Allison, Dan Murphy

The Tell-Tale Heart

 

- - - ROBERT EGGERS - - -

 

- - i Cortometraggi Maggiori - -

 

Ring the bells that still can ring.

 

Il corpo umano è una macchina ad argine della morte. Il sotto-insieme del sistema nervoso centrale, a volte, rema contro.

...e badate bene con qual senno, con quale calma son io in grado di narrarvi questa storia.
Non è possibile dire in qual maniera l’idea mi entrasse primieramente in capo… 

Murnau incontra Svankmajer (“Darkness/Light/Darkness”, “Qualcosa da/di/su Alice”) in questo edificante sudicio gioiello gotico-poesco (pieno di compassione, empatia, violenza e sana lotta di classe) di Robert Eggers, la sua opera seconda (che sancisce la nascita della ininterrotta collaborazione col direttore della fotografia Jarin Blaschke e con la montatrice Louise Ford, e, a parte “the Witch”, col sound designer Damian Volpe) dopo “Hansel and Gretel” e prima di “Brothers”, in attesa del succitato “the VVitch: a New England Folk-Tale”, di “the LightHouse”, di “the NorthMan” e… forse… a proposito dello Stoker espressionisticizzato… del “Nosferatu”, ora fruibile su Indie Wire, interpretata con una performance rimarcabile da Carrington Vilmont [che successivamente parteciperà ad un ep. di “Breaking Bad” (5x2, “Madrigale”, 2012) e ad un paio di “Vinyl”] nei panni del servo maggiordomo (mentre la fioca voce del vecchio padrone di casa è del grande caratterista Richard Easton, 1933-2019), nella quale viene messo in scena per 20’ a colori e in 4:3 (musicati con J.S.Bach suonato al violoncello da Thomas Ulrich) un falso passo uno (stop motion, frame by frame) con attori in carne ed ossa e un pupazzo-marionetta antropomorficamente iperrealista a grandezza umana naturale in scala 1:1 (creato da Chelsea Carter e manovrato da Anita Rundles, con echi animatronici dal meraviglioso “Marquis” di Topor e Xhonneux).

 

 

In questa ennesima variazione sul tema e adattamento di “the Tell-Tal Heart” è presente un solo atto didascalico, moralmente evenemenziale, eticamente cronachistico, uno zoom in avanti sul volto dell’assassino potenziale, la cui vittima, costretta a inconsapevole (in assenza di omeostasi, data la senilità) digiuno forzato da un lustro di giorni, s’ostina a non morire, atto a rivelare ed esplicitare le umane intenzioni, mentre l’opera di macellazione (a tal riguardo è da notare - impossibile non farlo - un pacchettino come gli altri, ma per l’appunto dotato del suffisso diminutivo, contenente una rigaglia, un lacerto, un cascame che non può certo essere un cuore, quanto piuttosto un altro tipo di frattaglia muscolare, diciamo un corpo cavernoso, avvolto anch’esso, come detto, in carta oleata e spago, e anch’esso come gli altri, assieme e accanto agli altri, tumulato sotto alle assi in legno del pavimento: "Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastuni e tira fora li denti!") viene risparmiata allo spettatore, posto di fronte al fatto compiuto dopo averglielo fatto presagire con un affilar di lame coltellari.


Ring the bells that still can ring
Forget your perfect offering
There is a crack, a crack, in everything
That's how the dark gets in

(L.Cohen feat. E.A.P.)

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Brothers

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 10'

Titolo originale Brothers

Regia di Robert Eggers

Con Ethan Sailor, Griffin Fox Smith, Beth Brown

Brothers

 

Brothers in Arms.

 

Robert Eggers, classe 1983 del New England, nel 2013, a trent'anni, giunto all’opera terza dopo due corto(medio)metraggi (nel 2006, l’espressionista grimmiano, in 16:9, B/N artificialmente graffiato e muto, ma con musiche a commento, “Hansel & Gretel”, di 25’, e, nel 2008, il gotico poesco, a colori e in 4:3, con attori in carne ed ossa e marionette/pupazzi antropomorfe a grandezza umana naturale in scala 1:1, “The Tell-Tale Heart”, di 20’), dirige, come prova generale di stilemi formali ritrovabili nel successivo primo lavoro nel lungometraggio, “the Witch”, il suo film più breve, questo “Brothers”, 10’ a colori e in 4:3 che, senza dire nulla più di ciò che mostrano, gravitano nel territorio dell’infanzia e/o fratellanza immersa nella wilderness e/o suburbia: lo pseudopodo parallelo/ortogonale che promana dal coevo esordio nel lungometraggio di Daniel Patrick Carbone, “Hide Your Smiling Faces”, per l'appunto del 2013, lo specchiopposto, cainoabelico, di un'altra opera prima sulla breve distanza, quella di Bas Devos, del 2006, “Taurus” (che poi dirigerà, nel 2014, aggirandosi per gli stessi territori, ma ribaltati, e quindi più combacianti col film in questione, “Violet”), la versione infantile del “Two Gates of Sleep” di Alistair Banks Griffin, del 2010, e, per continuare ad orbitare lungo le traiettorie del cinema contemporaneo “occidentale” relativamente all’ultimo ventennio o poco più, coetaneo e - per dirla con un francessmo dell’Italia (centro)settentrionale - coscritto di Robert Eggers: “George Washington” (David Gordon Green, 2000), “Paranoid Park” (Gus Van Sant, 2007), “Kid” (Fien Troch, 2012), “Take Me To the River” (Matt Sobel, 2015), “King Jack” (Felix Thompson, 2015), “i Cormorani” (Fabio Bobbio, 2016), “American Fable” (Anne Hamilton, 2016), “Super Dark Times” (Kevin Phillips, 2017), “Mid90s” (Jonah Hill, 2018), “Favolacce” (D. & F. D’Innocenzo, 2018), e i più mainstream di tutti, “the King of Summer” (Jordan Vogt-Roberts, 2013) e “the Book of Henry” (Colin Trevorrow, 2017). 

 

 

Scritto e diretto da Robert Eggers. Interpretato da Ethan Sailor (il fratello minore), Griffin Fox Smith (il fratello maggiore), Beth Brown (la nonna). Fotografia di Jarin Blaschke. Montaggio di Louise Ford. Partecipazione speciale: due frisone scosse.

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: 1. Per te? No

Beau

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 7'

Titolo originale Beau

Regia di Ari Aster

Con Billy Mayo, Logan Atkinson, Will Emery, Ari Aster

Beau

 

Beau cannot. Beau will not. Beau should not.

 

Beau non sta proprio benissimo: dorme con la lucetta accesa, ha una libreria piena di flaconcini di pillole (non un armadietto dei medicinali in bagno, proprio una scaffalatura a più ripiani in camera da letto) e il filo interdentale sarà la sua nemesi.

Beau, nevrotico e paranoico, e con qualche fondata ragione d’esserlo, sta per lasciare il suo appartamento per prendere un volo e andare a trovare sua madre (o forse per scappare ancor più da lontano da lei), ma Beau non può, non vuole, non deve.

Beau si distrae un attimo ed ecco che gli rubano le chiavi di casa dalla toppa della porta principale, lasciata aperta e abbandonata per un minuto, assieme alla valigia, contenente il biglietto aereo e i farmaci indispensabili, posata incustodita sulla soglia, e così gli tocca dormire con la porta chiusa, ma non serrata, tra vicini violentemente litigiosi e sguaiatamente maleducati, opossum degli angoli bui e delle intercapedini, scassinatori maldestri che non sanno maneggiare un coltellino svizzero, tentativi d’irruzione, addetti al call center dei servizio clienti e operatori telefonici del 911 che lo vogliono morto.

 
Pare proprio allora che debba/dovrà essere la stessa madre (o antagonista nemesi piloso-folivora/phyllophaga) ad andarlo a trovare/prendere/recuperare…

Beau” – scritto dal regista stesso come praticamente tutte le sue opere, prodotto da Alejandro De Leon, fotografato (bel movimento di macchina a seguire la chiusura della cerniera della valigia) da Will Emery (con l’aiuto di Pawel Pogorzelski, il quale diverrà sodale collaboratore del regista), musicato dai Prison for Kids e avente come protagonista il caratterista Billy Mayo (1957-2019), uno degli interpreti principali di “the Strange Thing About the Johnsons”, la tesi di laurea magistrale/specialistica che Ari Aster portò/presentò all’AFI (American Film Institute) Conservatory (“una specie/sorta di scuola industriale/commerciale”) lo stesso anno, il 2011 – in un certo qual senso è tanto dicotomico quanto sovrapposto rispetto al successivo “Munchausen” (2013), poi entrambi in varia misura assimilati [ovviamente più il primo, ripreso pari pari e costituentene il nucleo, che il secondo, da cui viene estrapolata la (im←)presenza soverchiante della figura materna] da “Beau Is Afraid” (già "Disappointment Blvd."), oggi/adesso (2023), un decennio & una dozzina d’anni dopo, globalmente distribuito nelle sale cinematografiche da A24 che, per l’occasione, ha fatto più o meno sparire dall’Internet i 6' abbondanti del cortometraggio (ch’è comunque possibile recuperare, ad esempio, attraverso Reddit).

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Munchausen

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 17'

Titolo originale Munchausen

Regia di Ari Aster

Con Bonnie Bedelia, Liam Aiken, Rachel Brosnahan, Richard Riehle, David Purdham

Munchausen

 

Versione alternativa della vita di Ari Aster: se non fosse andato al College di Santa Fe e al Conservatorio dell’American Film Institute (AFI)...

 

Munchausen” (2013), film timburtoniano, muto e senza didascalie (e dal titolo con la "ü" senza dieresi, ché all’uncinetto/tombolo vien difficile, mentre, american-inglesizzazione a parte, è più difficile trovare giustificazioni per la mancanza della seconda "h"), suddiviso in due parti da 8' l’una, un pixariano what-if à la “Up” (e “Toy Story”) che si rovescia (“Psycho” al contrario) e trasforma nella parafrasi stephenkinghiana dell’Oedipus Wrecks woodylleniano, è, oltre all’opera sesta di Ari Aster, il racconto – prodotto (anche attraverso KickStarter) da Alejandro De Leon, fotografato (un momento da annuario scolastico molto “the Master / Licorice Pizza” e un paio di gran belle carrellanti panoramiche a schiaffo su dolly dotate di zoom) da Pawel Pogorzelski, montato da Arndt-Wulf Peemöller, musicato (molto bene) da Daniel Walter e interpretato da Bonnie Bedelia, la madre, Liam Aiken, il figlio, David Purdham, il padre con la passione dell’orologeria micromeccanica, Rachel Brosnahan (che lavorerà con Ari Aster nel successivo one-woman-show di “Basically”), la schrödingeriana compagna del figlio e Richard Riehle (che lavorerà da protagonista con Ari Aster nel successivo “the Turtle’s Head”), il medico di famiglia – del disturbo psicologico da cui prende il titolo (e il cui nome a sua volta ha origine dal barone Freiherr Karl Friedrich Hieronymus von M., reso famoso nel 1785 dal suo contemporaneo Rudolf Erich Raspe immortalandolo in “Baron M.’s Narrative of his Marvellous Travels and Campaigns in Russia”), descritto per la prima volta a metà del XX secolo da Richard Asher, e qui però proiettato (causato/indotto) fisicamente da una persona ad un’altra (la simulazione in questo caso è consapevole e da parte dell’umana origine senziente dei sintomi reali e concreti arrecati e cagionati al paziente, e non del paziente stesso, del tutto inconsapevole) e metaforicamente situato, attraverso un adattamento emotivo/psicologico per procura, in un baricentrico punto di Lagrange gravitico tra le due: la madre che avvelena il figlio (col Feel Bad che ricorda tanto l’Herman’s Cure-All Tonic di un lustro prima, e a nient’e nulla servirà il Feel Good) per impedirne la partenza per il college e il dottore che non riesce dai sintomi a dedurne la malattia. L’idillio immaginato/sognato finirà in tragedia.

 

 

R. Asher (1951) propose di riunire sotto la dizione sindrome di Münchhausen tutti quei casi che presentavano le seguenti caratteristiche: simulazione più o meno consapevole di malattia, pseudologia fantastica (menzogne patologiche), peregrinazioni da un ospedale all'altro. [...] Il riferimento all'eroe del romanzo di R.S. Raspe (Il barone di Münchhausen, 1785) deriva dall'irriducibile tendenza alla fantasticheria di questo personaggio, alla teatralità dell'esposizione narrativa, alle solitarie peregrinazioni, anche se i pazienti si presentano non come eroi, ma come sventurati sconfitti.

https://www.treccani.it/enciclopedia/simulazione-(Universo-del-Corpo)

 

La Sindrome di Münchhausen per Procura, o MSP (Münchhausen Syndrome by Proxy), è conosciuta anche come Sindrome di Polle, dal nome del figlio del barone. (Sempre dalla Treccani: Una variante di questa sindrome è la sindrome di Münchhausen by proxy, o Polle syndrome, di osservazione pediatrica, in cui i sintomi artefatti sono provocati nei figli piccoli dalle madri.)

 

Recensione (completa di fotogrammi e altre immagini/illustrazioni).

 

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