Sarà che comincia a farsi sentire la stanchezza. Sarà che iniziano a stufare i panini rimediati al volo in uno dei bar presenti al Lido. Sarà che le nuvole rendono funeree le giornate. Sarà che il numero dei film visti raggiunge ormai gli “anta”. Saranno tanti i motivi ma un po’ di stanchezza, a Venezia, aleggia su tutti quanti. Complici dei titoli che sulla carta avrebbero dovuto spaccare, oggi ci si deve accontentare di far buon viso a cattiva sorte. Che il giornalista, il critico o l’inviato, sia esigente è un dato di fatto ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che a un festival si debbano mostrare titoli che nel 90% dei casi siano all’altezza delle aspettative. Il bilancio, al momento, parla chiaro: se consideriamo il concorso, potremmo dire che tutto cambia affinché nulla cambi. Abbiamo visto poeti, Paesi in guerra, cani da combattimento e drammi familiari, ma rientrano tutti nel mondo del classico: ad eccezione di Tsukamoto, di Konchalovskij e per certi versi di Iñarritu, è come se i registi avessero paura di osare.
Prova concreta ne è oggi il titolo da molti più adocchiato alla vigilia: il Pasolini di Abel Ferrara. Nonostante le interpretazioni e il tema trattato, l’opera ci è parsa inconsistente, come se Ferrara fosse frenato dal timore dell’ennesimo passo falso, come se sulle sue spalle pesassero i destini dell’intera umanità. Ci aspettavamo qualcosa che si prendesse la responsabilità di “interpretare” la fine di Pasolini: abbiamo trovato solo la didascalia di una morte annunciata, il cui protagonista poteva benissimo chiamarsi Mario Rossi. Resta un’immensa interpretazione del protagonista Willem Dafoe: «Per affrontare il ruolo di Pasolini non dovevo avvertire la pressione di rappresentare una figura molto amata, quasi sacra. Come accaduto qualche tempo fa con il ruolo di Gesù in L’ultima tentazione di Cristo, quando non incarnavo il Gesù ma un Gesù qualsiasi, ho tentato di fare con Pasolini. Naturalmente, non metto a paragone la preparazione utile a incarnare i due personaggi, sia chiaro. Semmai, sottolineo come per entrambi abbia dovuto “purificare” me stesso da aspettative, pensieri, opinioni o immagini, che avevo delle figure in questione e partire da zero per il mio lavoro di attore. Io non interpreto Pasolini: ho solo cercato di dargli corpo, voce e presenza, negli ultimi giorni di vita», ribadisce l’attore. Queste le nostre recensioni: recensione di Spaggy, recensione di Alan Smithee.
Una boccata d’ossigeno arriva fortunatamente dalle sezioni collaterali, dove per il fuori concorso si è potuto assistere a Burying the Ex di Joe Dante, un’opera capace di divertire con il suo essere citazionista e folle al tempo stesso. Quando La sposa cadavere sposa Edgar Allan Poe, è difficile non rimanere estasiati. Allo stesso modo, è impossibile non godere quando, citando e reinterpretando liberamente i grandi classici o i b-movies (chiamando in causa con un cammeo il mitico Dick Miller), si ottengono pastiche che si tramutano in capolavori. A Dante, a cui gli studios hanno per troppo tempo chiuso le porte, va il merito di non prendersi e di non prenderci troppo sul serio, di risvegliarci dal torpore e di chiamarci in causa durante il lungometraggio, rendendoci partecipi di qualcosa che risponde all’unico diktat dell’omaggio allo stato puro a un genere, l’horror, negli ultimi anni troppo stuprato dal mockumentary e dagli effetti speciali, ottimi per i popcorn delle multisale ma devastanti sul piano dell’evoluzione della scrittura del genere stesso. Qui, la recensione.
Pochi i film da recuperare in giornata, ad eccezioni per le sezioni collaterali di Court e di Theeb, le proiezioni “nuove” si fanno sempre più rade e il Lido inizia a svuotarsi. Gli americani sono partiti per Toronto, dove la festa del cinema con annesso mercato senza rivali sta per prendere il via. A noi non resta che consolarci in serata con Konchalovskij e il suo The Postman’s White Nights. Finalmente si ha la consapevolezza di avere di fronte un autore che tanto ha da dire quando può lavorare in piena libertà e lontano dallo strapotere dei soldi e delle logiche dell’incasso. «Volevo fare un’analisi dettagliata della vita dell’uomo, e allora ho cominciato a pensare: il corso della vita di quale persona vorrei seguire? E così è venuta l’idea del postino, un mestiere magnifico sia in città che in campagna. Perché il portalettere vede tanta gente diversa e con lui si può osservare un intero strato di qualsiasi società. Poi pensai: il postino certamente va bene, ma quando lavora in campagna, è ancor meglio», spiega il regista a proposito della genesi del suo lungometraggio. Ecco cosa ne pensiamo del film, seriamente candidato al Leone d’Oro, con la sua recensione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta