Il giovane favoloso: Mario Martone e Elio Germano
Nonostante la pioggia, alla Mostra di Venezia oggi splende il sole. La giornata si è aperta nel migliore dei modi con il tripudio della stampa per Il giovane favoloso di Mario Martone. Il racconto degli anni giovanili di Giacomo Leopardi, il poeta del pessimismo cosmico, ha lasciato soddisfatti i giornalisti sia italiani sia stranieri presenti al Lido, infrangendo una regola non scritta che ormai andava avanti fin da troppo tempo. Fino all’anno scorso è capitato infatti che i tre film italiani in concorso venissero accolti in maniera schematica: per uno si applaudiva, un altro lasciava indifferenti e il terzo si fischiava. Quest’anno, invece, abbiamo assistito a continui e ripetuti applausi per tutti e tre i titoli nostrani, segno che quando vuole il nostro cinema sa farsi valere e risultare competitivo. Munzi e le sue anime nere, Costanzo con i suoi cuori affamati e Martone con il gobbo poetico più famoso della storia tengono alte le aspettative per i premi maggiori: qualora non dovesse arrivare il Leone, potremmo sperare nella Coppa Volpi per Alba Rohrwacher e per Elio Germano e nella Osella all’emergente Giuseppe Fumo, oltre che a riconoscimenti per colonne sonore, scenografie e musiche. Sabato sera constateremo come andranno veramente le cose e come si comporterà la giuria dopo il verdetto tricolore del 2013, quando il Leone d’oro è andato a Sacro Gra di Giannfranco Rosi. Qui, le recensioni di Il giovane favoloso, opera che dovrebbe d'ora in poi essere mostrata in tutte le scuole: EightAndHalf e Alan Smithee.
Placati gli entusiasmi per Martone, la Sala Darsena ha accolto la proiezione stampa di Tsili, il nuovo lungometraggio del genialmente folle Amos Gitai. Riprendendo il romanzo Paesaggio con bambina, Gitai ne destruttura il racconto e firma un’opera che gioca con il significato della parola arte, perdendosi piacevolmente tra cinema e teatro e chiamando alla sua tesi anche la danza e la musica, perfetti corollari di 90 minuti di mise en scene innovativa e destabilizzante per chi non è abituato a lavorare di fantasia e immaginazione. Prodotto tra gli altri dall’italianissima Citrullo International, il film uscirà per la Giornata della Memoria 2015 distribuito da Microcinema. Qui, la recensione.
Un ritratto insieme all'attrice Meshi Olinski, protagonista di Tsili
Mentre assistevo a Tsili di Gitai, EightAndHalf (al suo penultimo giorno di permanenza, ci dispiace dirlo) si cimentava nell’impresa più ardua dell’intera rassegna: seguire il director’s cut di Nymphomaniac di Lars Von Trier, ovvero sei ore di film non censurato e atteso da chiunque abbia messo piede a Venezia. Ve ne parla in un apposito post: Nymph()maniac - Long Version - Director's Cut. Altri toni sono invece quelli scelti da Alan Smithee, che ha optato per il debolissimo Jackie & Ryan di Ami Canaan Mann, un’opera in cui la musica country serve da sfondo a una storia d’amore in cui i cliché vanno a nozze con lo scarso appeal visivo: qui la recensione. Eight e Alan, inoltre, sfidando intemperie e sonno hanno anche assistito alla proiezione di Near Death Experience di Benoit Delépine e Gustave Kervern. Nei prossimi giorni arriveranno anche le recensioni.
La serata parla giapponese: Shinya Tsukamoto mi offre la visione disturbante e disturbata di Fires on the Plane, rilettura aggiornata e riveduta di La guerra del soldato Tamura, romanzo di Shohei Ooka già filmato nel 1959 da Kon Ichigawa in Fuochi nella pianura e ambientato nelle Filippine della Seconda guerra mondiale, territorio in cui i giapponesi vissero gli ultimi giorni di una disastrata guerra. Qui, la recensione.
Per non farsi mancare nulla, in una giornata caratterizzata da un tempo uggioso che non ha permesso a nessuno di godersi il Lido, vi lascio oggi con una breve ma interessante intervista a Shinya Tsukamoto.
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Breve intervista a Shinya Tsukamoto
Qual è il tema o il messaggio del suo film?
La guerra è terrificante. Sento che il nostro senso di vivere si è affievolito di recente, e questo rende la nostra immagine della morte piuttosto oscura. Per contro, significa che ci stiamo avviando in una direzione che ci condurrà alla guerra senza comprenderla del tutto, e questo fa paura. Il tema è la paura della guerra. Ho sempre utilizzato il tema della “città” e della lotta per vivere all’interno di un ambiente costruito in cemento. Questa volta invece del cemento c’è la natura, e al suo interno noi esseri umani siamo delle entità così piccole e insignificanti.
Come ha scelto la storia originale di Shohei Ooka?
Non avevo una chiara percezione della guerra, ma da ragazzo ho letto molti libri. Fra questi c’era La pioggia nera di Masuji Ibuse. La prima volta che ho letto La guerra del soldato Tamura è stato in quel periodo e mi è rimasto impresso. Ricordo che mi ha dato un senso molto vivido di cosa sia la guerra, di quanto sia terrificante. Mi sembrava molto reale. Sentivo che la guerra era ritratta come un qualcosa di molto immediato. Il romanzo La guerra del soldato Tamura ha questo senso molto originale di realismo, grazie al quale ho provato la sensazione di trovarmi negli abiti del protagonista mentre leggevo. I libri sulla guerra che ho letto in quel periodo erano generalmente scritti dal punto di vista delle vittime. Ma non La guerra del soldato Tamura; quest’opera spiega che dal momento in cui andiamo in guerra, siamo noi gli esecutori. Potremmo uccidere qualcuno. Il che diventa una fonte di paura, oltre che di frustrazione. Inoltre, sopravviene la paura che possa terminare l’unica vita di cui disponiamo in questo mondo. Ho cominciato a girare film quand’ero alle scuole superiori, e già allora sapevo che avrei voluto adattare il romanzo in un momento di un distante futuro. Quando sono diventato trentenne, ho cominciato a pensarci più concretamente e ho iniziato a scriverne il soggetto. Ma era un grosso progetto e una storia molto profonda, quindi ho continuato a rimandarne la realizzazione. Di recente ho capito che se non l’avessi fatto ora non sarei più stato in grado di girarlo.
Un altro adattamento, Fuochi nella pianura, è stato realizzato da Kon Ichikawa negli anni ’50. Quanto ha tenuto conto di quella precedente trasposizione?
Quando ho letto il romanzo, l’immagine che ne ho avuto è stata molto differente da quella che mi aveva comunicato il film di Ichikawa. La sua versione considera più gli aspetti oscuri della natura umana, piuttosto che la natura e i paesaggi. In qualche modo il senso della natura è limitato. Al contrario, nel mio film ho cercato di coglierne la grandezza. Nel romanzo, nel pieno delle battaglie ci sono delle descrizioni molto visive dell’ambiente naturale, per esempio dei cieli blu e dei fiori rossi. C’è anche un bellissimo fiume, proprio nel mezzo dello squallore della guerra. Questo aspetto mi aveva colpito moltissimo. Il film di Kon Ichikawa è stato girato in bianco e nero, mentre io volevo riprenderlo all’interno di questo ambiente naturale. Può essere difficile comprendere come possa l’essere umano commettere atti così orrendi all’interno del setting di una bellissima natura; è una cosa piuttosto assurda, ed è questo che intendevo descrivere.
Il romanzo originale è noto anche per aver indicato il tema del cannibalismo. La sua interpretazione non sembra volersi focalizzare troppo su questo. Può spiegarci il perché?
Per me non era quello l’importante, anche se è il principale tema del romanzo. Per me è la guerra che determina queste situazioni aberranti, piuttosto che il cannibalismo. All’inizio si tratta di esseri umani, ma dopo diventano come scimmie. Non comprendono neanche più cosa sia giusto e cosa non lo è.
Le sue scene contengono molta oscurità. Come mai ha scelto questo tipo di riprese?
Era un aspetto contenuto nel romanzo originale, con molta oscurità nelle sue scene descrittive, specialmente quelle ambientate al fronte. Potremmo percepire il rumore di un attrito metallico provocato da soldati intorno a noi, senza sapere se sono amici o nemici… Poi appare un carro armato. Volevo rendere questa sensazione senza mostrarla. Subito dopo la carne esplode e si frammenta intorno a noi, e anche se non riusciamo a vedere il nemico siamo consapevoli di ciò che è avvenuto. Volevo che potessimo domandarci “Cosa ha provocato tutto questo?”.
Lei vuole distribuire il film in Giappone il prossimo anno in occasione dell’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Pensa che l’argomento della sua pellicola darà luogo a dei dibattiti?
Come semplice regista, non sono troppo al corrente dell’esatta situazione politica, ma dal punto di vista di un normale cittadino, negli ultimi 70 anni si è cercato di trovare le migliori soluzioni per tenersi fuori da qualsiasi conflitto armato. Penso ancora che si dovrebbe evitare qualsiasi soluzione militare, ma abbiamo visto sempre più persone in Giappone che hanno tentato di cancellare la nostra sconfitta in guerra e di reclamare il nostro essere un paese forte. Queste persone cercano ogni scusa per farlo. Tutto ciò fa paura e sono sicuro che molti altri la pensano come me. Adesso il governo giapponese pensa di eliminare la clausola della Costituzione che esclude la partecipazione bellica del paese, forse questo film può offrire una opinione contraria affinché questo non si verifichi. Il clima culturale del mio paese comincia a diventare più di destra, quindi sarà sempre più difficile produrre e distribuire film come questo. Anche per questo ho pensato che fosse il momento giusto per girarlo e farlo conoscere alla gente attraverso festival importanti come quello di Venezia, soprattutto perché è in concorso. Volevo che le persone dopo averlo visto in un ambito internazionale così importante ne venissero a conoscenza e potessero discuterne.
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