Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Dimenticate il romanzo Paesaggio con bambina di Aharon Appelfeld. Amos Gitai lo usa come pretesto per divertirsi a lanciare una sfida allo spettatore: può ancora esistere oggi ingenuità nel mondo dell’arte? Può questa generare stupore e meraviglia, limitandosi all’essenziale? Deprivando il testo di orpelli narrativi, di dialoghi e di situazioni, Gitai in Tsili racconta la storia dell’adolescente Tsili, che a metà degli anni Quaranta e in piena seconda guerra mondiale si rifugia nei boschi a cercar salvezza. Con il rumore di boati e spari provenienti da un agglomerato urbano vicino, Tsili come un uccellino caduto dal proprio nido si costruisce un rifugio di foglie e sterpaglie, si nutre dei frutti che la natura offre (radici e rami secchi, in primis) e vive allo stato selvaggio, senza che nessuno riesca a individuarla. Nella sua solitudine irrompe un giorno Marek, un ebreo in fuga da un anno. Insieme condividono un rigido inverno e un talamo che diventa presto nuziale. Superate le difficoltà della stagione fredda, la guerra termina e Marek va via senza dar alcuna spiegazione. Tsili, così come tanti altri ebrei, arriva in un ospedale e da lì attende di partire per la Palestina, una terra in cui quasi nessuno sembra voler andare.
Nettamente suddiviso in due parti, Tsili è puro gioco metacinematografico. Aggrappandosi a una struttura teatrale e al tempo stesso sperimentale, l’azione si muove dapprima in mezzo alla natura, in una postazione fissa e immutata, e poi in un capannone adibito ad ospedale e/o centro di accoglienza per rifugiati e feriti. Con i dialoghi ridotti al minimo nella prima parte e con un lungo monologo affidato a una voce fuori campo nella seconda parte, Tsili vive dunque di una rappresentazione molto semplice, in cui le location potrebbero per la loro semplicità essere sostituite da quinte disegnate su un palcoscenico teatrale. A spezzare il ritmo del (non) racconto interviene, separando le due parti, l’’entrata in scena di un violinista: estraneo alla narrazione, esegue il suo pezzo come farebbe qualsiasi orchestrale chiamato in scena, lasciando il pubblico estasiato e attonito.
Nel rimarcare la non complessità della messa in scena, interviene poi la scelta di affidare a due differenti giovani attrici (Sara Adler e Meshi Olinski) il ruolo della protagonista, intercambiandole a piacimento e arrivando anche a farle interagire. Poggiando sulla fisicità delle interpreti, che Gitai segue sena mai staccar la cinepresa (come in un ipotetico e lungo piano sequenza), Tsili non necessita altro che della loro presenza, non sentendo l’esigenza della recitazione verbale, annullando i dialoghi e puntando sui volti. Prova ne è la seconda parte, quella in cui la voce fuoricampo ci racconta come Tsili sia arrivata nella foresta: la camera segue la protagonista muoversi all’interno del campo per terminare regalandole un lungo primo piano al volto in lacrime.
Con la suggestione di alcune immagini di repertorio in bianco e nero che mostrano bambini ebrei che ritornano alle loro vite dopo l’esperienza della guerra e dei campi di concentramento, Tsili stordisce e affascina al tempo stesso, destando nello spettatore quella curiosità delle prime volte di fronte a qualcosa di così inedito nella sua struttura.
TSILI (2014) Excerpt from Richard Lormand on Vimeo.
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