Dieci sono i titoli in concorso quest’anno al Festival della Fiction di Roma e saranno valutati da una giuria presieduta da Richard Dreyfuss e composta da Umberto Contarello, Annabel Scholey, Paola Turci e Lorenzo Richelmy (che abbiamo intervistato qui). Ieri sono stati presentati Baron Noir, Berlin Station (di cui abbiamo parlato qui e su cui torneremo a stagione conclusa), Midnight Sun e Di padre in figlia. Fuori concorso è iniziata la programmazione dell’ottima Fleabag (ne abbiamo scritto qui), che sarà spalmata sui tre giorni di festival in appuntamenti da due episodi, e si è visto anche Roots, il remake di Radici, che andrà in onda in Italia dal 16/12 su History Channel.
Baron Noir
Serie in otto episodi di Canal + è stata definita, con tutte le semplificazioni del caso, l’House of Cards francese, una definizione famigliare agli sfortunati spettatori che si sono imbattuti in Marseille su Netflix. Baron Noir, scritto da Eric Benzekri e Jean-Baptiste Delafon e interamente diretto da Ziad Doueiri, è però serie di tutt’altra fattura. Innanzitutto la sceneggiatura parte in quarta, presentandoci i personaggi in medias res immediatamente avvisati di un’indagine di polizia che punta a screditare la loro campagna elettorale. Il sindaco Rickawaert (Ked Merad), ossia il barone nero del titolo, corre da una cassaforte all’altra per coprire i soldi spesi presumibilmente in tangenti, mentre il candidato socialista Laugier (Niels Arestrup), che punta alla presidenza, è costretto a fidarsi di lui. Il suo braccio destro, la bella Dorendeu (Anna Mouglalis) non condivide per niente però la strategia di Rickawaert e cerca di dividere i due, anche per proteggere il candidato, ma Rickawaert, scopriremo strada facendo, è estremamente astuto nel manipolare tanto i potenti quanto il popolo e sa reggere la tensione persino delle minacce dei servizi segreti. Non si tratta però di un personaggio mostruoso, anzi già in questo pilot lo vediamo in lacrime per una tragedia. La regia sta attaccata ai personaggi con uso massiccio di camera a mano, ama le scene notturne dal tono giallastro delle luci artificiali e alterna le camere di palazzo e gli studi televisivi a scenari industriali decisamente poco frequentati in Tv. Baron Noir parte quindi in modo davvero promettente, anche se lascia perplessi un dettaglio inattuale: dov’è la destra popolare francese in questo scenario politico che cerca di presentarci i socialisti come candidati forti alle elezioni?
Midnight Sun
Ambiziosa produzione franco-svedese, Midnight Sun è un nuovo “scandinoir” ambientato nel Nord più estremo, non tanto da essere completamente ghiacciato come le Svalbard di Fortitude, ma a sufficienza da avere un lungo periodo in cui il sole non tramonta mai, come in Insomnia. La serie è già un successo internazionale ed è firmata dagli showrunner e registi Måns Mårlind e Björn Stein, ossia da due tra gli autori principali di Bron/Broen, la versione originale di The Bridge. Nella cittadina mineraria di Kiruna, viene inviata una poliziotta francese, di Parigi, dopo che un suo connazionale è stato ritrovato orribilmente ucciso legato alla pala di un elicottero, che roteando ha finito per staccargli la testa dal corpo. La donna lascia volentieri la capitale francese, in fuga dal figlio che ha avuto da adolescente e che ha appena scoperto di non essere suo fratello minore. A Kiruna incontra due agenti locali, uno svedese, interpretato da Peter Stormare, e l’altro di etnia Sami (o lappone), una cultura che si scoprirà legata ai barbari omicidi. La peculiarità antopologica di questi delitti dovrebbe rendere più tollerabile i loro eccessi sopra le righe, da puntata estrema di CSI, e soprattutto fornire alla serie una connotazione politica come già gli autori avevano fatto con Bron/Broen. Più che le interpretazioni o la scrittura, non proprio irresistibile in questo pilot, funziona splendidamente l’ambientazione, anche grazie a una fotografia che si ferma su alcuni dettagli in ralenti ad altissima definizione dall’effetto iper-reale e disturbante. Questa stilizzazione innesca un’atmosfera originale e per il primo episodio può anche bastare: gli stessi produttori (che abbiamo intervistato qui) non nascondono che la serie dà il meglio di sé negli episodi successivi, quando ci si addentra nella cultura Sami.
Di padre in figlia
Scritta da Cristina Comencini per la regia di Riccardo Milani, Di padre in figlia è una fiction nel senso tutto italiano e deteriore del termine. Ambientata in Veneto, per il primo episodio tra gli anni 50 e 60, racconta la saga di una famiglia di Bassano del Grappa. Il padre (Alessio Boni) diventa un imprenditore nel campo dei superalcolici, spietato anche con il suo socio e amico è inoltre profondamente maschilista e ha occhi solo per il figlio Antonio. Ne soffrono le altre tre figlie e la moglie (Stefania Rocca), che sviluppa un’amicizia o forse qualcosa di più per una ex-prostituta – frequentata proprio dal marito – poi divenuta la sarta del paese. Delle due figlie maggiori una (Matilde Gioli) è sessualmente disinibita e vuole fare la ballerina, mentre l’altra (Cristiana Capotondi) è più timida e studiosa, con l’ambizione incompresa dal padre di diventare una chimica. Quando finalmente si iscrive in università il clima degli anni 60 viene improvvisamente, incongruamente e inopinatamente introdotto dalla Canzone del Maggio di De André, con filmati di repertorio delle proteste studentesche. Un azzardo sfacciato ulteriormente squalificato dal dialogo subito successivo, dove lo stereotipo macchiettistico di uno studente militante, che consegna volantini, subito ci prova con la ragazza. A quel punto, sorry, ma si è gettata la spugna, d’altra si era già goduto della scena scult: un infarto in bicicletta.
Roots
Remake della miniserie di enorme successo del 1977, rinarra le tragiche disavventure di Kunta Kinte, guerriero africano catturato e resto schiavo destinato a lunghi tormenti. La miniserie ha un primo episodio diretto da Philip Noyce, cui seguono Bruce Beresford, Mario Van Peebles e Thomas Carter, e ha una narrazione più compatta, una fotografia ovviamente più moderna e interpretazioni meno ingenue nei ruoli secondari. La sintesi però non è del tutto positiva, per esempio la parte africana è liquidata in mezz’ora (quasi dimezzata rispetto all’originale), quando invece ai tempi di film come 12 anni schiavo è oggi la sezione più interessante e ancora originale. La nuova versione è poi graficamente più violenta in senso grafico, ma paradossalmente meno coraggiosa: gli autori per esempio non hanno nemmeno tentato di riprodurre l’intensità quasi insostenibile della cattura di Kunta Kinte nella versione del 1977, quando i ralenti si sovrapponevano in balletto con catene e il grido di dolore era prolungato per un minuto intero.
Naturalmente la storia di Kunta Kinte è sempre molto forte, disperata e a suo modo attuale, ma la chiave naturalistica scelta per raccontarla appare piuttosto scontata.
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