In quanto giurato del concorso internazionale del RomaFictionFest, qual è il tuo rapporto con le serie tv?
Scrubs è stato un colpo di fulmine e un’illuminazione: ho capito che c’era qualcosa di diverso dal cinema, irriproducibile proprio per ragioni di formato, dopodiché ci sono stati Lost e le altre serie che hanno iniziato questa stagione d’oro. Quel che mi piace come spettatore è affezionarmi ai personaggi, vederli nei loro aspetti più umani. È una cosa che nel cinema succede solo fino a un certo punto, perché rimangono più iconici. Si sogna e si viaggia con i film, è bellissimo, ma con una serie la cosa fantastica è come si entra nel quotidiano di un personaggio e si ritrovano, per esempio, le stesse dinamiche per cui magari ci autoflagelliamo, come la pigrizia. Vale per Friends, che appartiene a un’altra epoca, come per House of Cards, dove Frank Underwood è un’icona ma con tutti i vizi e le debolezze di un persona vera. La tempistica di una serie dà a un attore (ancora più che a uno sceneggiatore secondo me) la possibilità di fare un lavoro a 360°, senza dover scegliere solo alcune sfaccettature perché si hanno solo pochi minuti. In Tv si può costruire un’umanità dalla A alla Z. Insomma la prima cosa che vedo in una serie Tv è l’attore, per esempio in Breaking Bad - che è quella che mi ha entusiasmato di più - Bryan Cranston era sconvolgente, tanto che Anthony Hopkins gli ha mandato una lettera congratulandosi per il grande lavoro teatrale sul personaggio. È questa la cosa che mi entusiasma in una serie e che difficilmente trovo in un film.
Come sei arrivato a Marco Polo?
C’era questo provino per la serie di cui si parlava da mesi, non pensavo nemmeno di volerlo fare non sapendo bene l’inglese, ma vedo che tanti colleghi ci provavano comunque. Allora chiamo il mio agente e gli chiedo perché non lo fanno fare anche a me, ma lui mi risponde che la casting director italiana non mi riteneva adatto, perché non cercavano una faccia come la mia, secondo lei poco italiana. Secondo me però gli americani non hanno questa concezione così tipizzata dell’italiano e, anzi, ho pensato che il mio un viso un po’ “a metà” potesse funzionare. Così ho girato il provino per i fatti miei con un mio amico regista, Enrico Maria Artale, con cui avevo già collaborato per Il terzo tempo, e poi l’abbiamo mandato a Londra, dalla casting director principale. Erano tre scene che abbiamo fatto io, la mia ragazza e lui, in casa, cercando di trovare qualcosa di italiano che potesse piacere agli americani. Perché quando si fanno si provini è la casting director che ti dirige, e quindi è la sua visione di te che arriva al regista, ma non sempre ti valorizza al meglio. Facendolo da noi ho potuto dare una versione mia, molto personale e specifica. Sembrava fosse il solito messaggio in una bottiglia, destinato a perdersi, invece dopo due mesi, due mesi di niente assoluto senza risposte, mi hanno chiamato e mi hanno detto: vieni in Malesia. Ci sono andato, ho incontrato tutto il gruppo, e lì si sono resi conto che non parlavo inglese. Gesticolavo come un peracottaro e loro sono rimasti un po’ scioccati. Torno a casa a Roma, dopo questi tre giorni di follia malesiani, e mi arriva una mail del produttore che mi dice “mi piaci molto, la tua energia è giusta, però non sai l’inglese, come faccio a convincere gli altri?”. Mi ha concesso due settimane con una dialogue coach: se in questo tempo fossi progredito velocemente mi ha promesso che mi avrebbero dato fiducia. Ho passate due settimane via Skype con questa insegnante, con le battute che erano diventate come un rosario, quindi sono andato a Londra, ho fatto il provino ed è andato bene.
Le arti marziali sono un elemento chiave della serie, che rapporto hai con questa cultura?
Ho fatto Judo quando ero piccolino, penso dai 7 ai 10 anni, quelle cose che si fanno da bambini. Poi più niente ed è stato folle, perché io fumo, mi piace bere… e ormai mi avevano preso. Sono andato agli studi in Malesia per i due mesi di preparazione prima delle riprese e quando lo stunt coordinator di questo grande gruppo di cinesi che facevano kung fu mi ha visto, con la mia pancetta, si è messo le mani nei capelli. Mi ha subito detto che dovevo smettere di fumare e di bere, ma gli ho risposto che in due settimane avrei dato di matto, così ho ottenuto di fare a modo mio, con moderazione, e ho affrontato un allenamento incredibile. Quei due mesi sono stati come Hogwarts per Harry Potter, intensivi come un college, dalla mattina alla sera tra inglese, arti marziali, cavallo eccetera, senza distrazioni perché appunto ero in Malesia, lontano da tutto. Ci sono due cose che ho esaudito nella mia lista di quello che volevo fare nella vita, una era recitare a cavallo e l’altra era una scena di kung fu, soprattutto considerato che ho partecipato a un combattimento contro Michelle Yeoh, che è come Jackie Chan al femminile! Da spettatore il mio rapporto con le arti marziali è molto legato agli anni 80 e sono contentissimo che Marco Polo abbia rinverdito un tipo di personaggio che ricorda quello di Karate Kid. Conosco chi dice “ebbasta con questi cinesi filosofici!”, io invece sono entusiasta, è questa la magia che ci deve essere: che palle il neorealismo! Certo senza esagerare… Sono lieto che abbiano fatto lo special dell’anno scorso su Cento Occhi e che tutta quella parte sul kung fu sia stata recepita benissimo, anche perché è realizzata con uno sguardo più orientale che americano, meno spaccone e più educato, elegante, ed è una cosa fondamentale e molto forte della serie.
Durante quei due mesi di addestramento già ti allenavi con Tom Wu, che interpreta Cento Occhi?
Certo, mi sono allenato tantissimo con lui, che è vero un artista marziale, ha vinto una medaglia d’oro al Torneo internazionale di Wu-shu, nella categoria forme. Ed è uno spettacolo perché si muove davvero in quel modo, è una cosa che ha dentro di sé.
Bendict Wong invece l’avrai incrociato successivamente immagino.
Sì, perché lui faceva l’allenamento opposto, visto che di costituzione è magro in realtà. È dovuto ingrassare di qualcosa come 35 chili, una enormità. È di gran lunga l’attore di maggior talento che abbiamo avuto nella serie, è di quelli che si è fatto una gavetta teatrale di vent’anni. Solo adesso come volto asiatico sta venendo fuori, ma quindici anni fa chi lo faceva lavorare? Faceva ruoli da immigrato e cose del genere, anche perché è di Manchester. Lui, come il presidente di giuria Richard Dreyfuss, conferma che più bravi sono, più grandi sono e più umani sono: ti immagini chissà che cosa prima di incontrarli e invece puoi parlarci come fossero Gianni, il barista sotto casa tua. Più sei una pippa, invece, e più sei stronzo. Questa è una legge che vale ovunque, anche in America.
Marco Polo è una enorme produzione internazionale, qual è stato il tuo impatto con le location e i set?
Nella prima stagione abbiamo girato due settimane a Venezia, cinque in Kazakistan e cinque mesi in Malesia, dove c’erano gli studi, per cui per lo più in interni. La seconda stagione l’abbiamo girata per due mesi e mezzo a Budapest, in Ungheria, un mese in Slovacchia e il resto in Malesia, inclusa la battaglia finale della seconda stagione che è stata un vero delirio: tutto il fuoco che si vede è vero. Non so quanti litri di gasolio siano stati consumati al giorno, una volta me l’hanno detto e ho pensato che dovevamo fermarci perché stavamo abbattendo l’ozono! Probabilmente le esperienze personali più belle sono state due, a partire dal primo set a Venezia, perché arrivavo solo dalla preparazione e non avevo ancora toccato con mano come sarebbe stata la produzione. Mi sono trovato in mezzo a due strade, due canali e due ponti interamente occupati da noi e ritoccati in stile medievale. La seconda è stata in Kazakistan, dove è stato molto faticoso perché non eravamo in città, ma nel deserto dei Gobi in mezzo al nulla, e stavamo in un resort a due-tre ore dalla location. Quindi ogni mattina facevamo questi lunghi viaggi e un giorno, all’alba, ancora mezzo rincoglionito, vedo sei-sette cavalli selvaggi che corrono nella steppa. Ho toccato con mano che quelle cose esistono ancora, mentre noi siamo tutti persi nel nostro consumismo occidentale basta andare in Russia, in Kazakistan, a poche ore di volo, e ci si trova a scoprire il mondo davvero come Marco Polo. Non avevo neppure ipotizzato che potesse essere una grande avventura anche per me.
Ci sarà una terza stagione?
Non lo so ancora, si dovrebbe sapere entro fine anno. Marco Polo è la seconda serie Tv più costosa al mondo e quindi, per quanto abbia avuto successo e siano tutti contenti, è un impegno gigantesco che stanno ancora valutando.
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