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REGISTI CHE CONTANO (2) - SPECIALE ALEXANDR SOKUROV: LA LUCE DELL’ANIMA, UNA LEZIONE DI CINEMA DEL GRANDE MAESTRO RUSSO ALLA CINEMATHEQUE DE NICE - UN VIAGGIO NEL CINEMA DI UN CINEASTA STRAORDINARIO CHE OMAGGIA L’UOMO, NEL BENE E NEL MALE CH
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Che città cinefila è Nizza! non riesco a stancarmi di farlo notare, avendone gli elementi per dimostrarlo. Ovvero, a pochi giorni uno dall’altro, se non addirittura contemporaneamente:

-1° Festival du cinema Tcheque, attualmente in corso;

- Ze Festival (a tematica GLBT), che inizia tra qualche giorno;

- 3° Festival du cinema Russe de Nice, attualmente nel vivo del suo programma.

Insomma, mica si scherza in questa vitale ed aperta città cosmopolita della Costa Azzurra!

 

Nell’ambito di questo ultimo festival appena citato, la notte scorsa a Nizza, è avvenuto l’incontro tanto atteso: quello con il maestro del cinema russo contemporaneo Aleksandr Sokurov: il cineasta studioso dell’anima umana e del peccato che la corrompe, e pure il sottile indagatore del male che è in noi, ma anche il celebratore quasi spudorato dell’affetto che unisce e rende complice un rapporto parentale stretto ed indissolubile. Egli, a pochi giorni dalla presentazione della sua ultima opera, Francofonia al Festival di Venezia – ed atto d’amore verso l’arte e la tradizione francese, sulle orme dell’incredibile e sfarzoso Arca Russa - ha accettato di partecipare ad un incontro con il pubblico dei tesserati ed appassionati cinefili della Cinématheque de Nice, nella saletta confortevole e per l’occasione affollata situata nei pressi dell’avveniristico “ammasso di cemento” chiamato Acropolis: un agglomerato multiculturale che sovrasta con una certa irruenza il torrente che divide la città, prima del meraviglioso parco biologico di recente creazione, che accompagna turisti e passanti verso il mare e la Promenade des Anglais.

Una occasione preziosa, unica, considerata la portata dell’ospite, e circostanza che ha visto il celebre regista aprirsi poco per volta, incalzato con garbo dalle domande più o meno dirette dei due giornalisti che stimolavano il dibattito, Jean-Jacques Bernard e Xavier Leherpeur, arrivando a confidarci pensieri e stati d’animo che lo assillano oggi come ieri, svelandoci le figure e ruoli chiave che hanno condizionato il suo stile cinematografico, ma anche le argomentazioni che lo hanno visto intervenire, con un’impronta unica, nel panorama cinematografico internazionale dell’ultimo trentennio.

Un regista per caso, si può dire, il medico mancato che i suoi genitori speravano di poter vedere avviato ad una carriera brillante. “Ho deluso i miei genitori, ma non potevo accontentarli, innanzi tutto perché ho sempre pensato che anche chi muore continua a vivere nelle vite degli altri, circostanza questa che mi ostacolava, almeno teoricamente, dai principi di massima che assistono ed illuminano i dottori ispirati e realizzati”.

Alexandr Sokurov appena salito sul palco della Cinematheque

 

Se di lezione di cinema si parla in questa serata francese - in una Nizza pertinente e - sia pure indirettamente - familiare al mondo e alla cultura russa, (proprio il regista ricorda come la città più grande e celebre della Costa Azzurra sia sempre stata tradizionalmente legata alla Russia, anche per essere stata la meta prescelta e preferita per le vacanze da parte della famiglia reale al tempo degli zar) Sokurov ci fa sapere che ha insegnato diversi anni in una scuola di cinema e che a molti dei suoi allievi, alcuni dei quali si sono diplomati recentemente con film-tesi davvero interessanti e maturi, egli ha sempre cercato di far capire che fare cinema significa innanzi tutto comprendere gli altri, addentrarsi nei caratteri e nelle personalità che ci rendono ognuno un patrimonio ed un’esperienza differente dall’altra, condizionati, spesso per fortuna, dalla civilizzazione, ma anche doverosamente impegnati a conservare ognuno almeno una parvenza della propria identità più intima e fuori da ogni schema prestabilito.

Sokurov ci accenna alle sue origini semplici, al padre militare che ha sempre dovuto viaggiare portando con sé la famiglia, circostanza che non gli ha reso facile l’approccio verso un tipo di cultura che in qualche modo risulta fondamentale per formare un cineasta modello ed ispirato (quale peraltro egli ha dimostrato di essere già dagli esordi e dalle "Elegie"); ci parla della radio, come mezzo di informazione unico e fonte di ispirazione e di approccio alla cultura: le opere liriche, i romanzi ascoltati via filo: Madame Bovary, il romanzo che lo ha sconvolto e che ha avuto il merito, con la potenza crudele dell’avvicendamento della sua storia, di condurlo sulla strada della rappresentazione cinematografica. Il suicidio della protagonista che lo ha sconvolto, fatto pensare a come sua madre, simbolo sacro di perfezione e purezza, avrebbe potuto rovinarsi in simili labirinti senza uscita per lui impensabili fino a quel momento. Uno dei suoi film della giovinezza (Sauve et protège) è incentrato proprio su un adattamento del grande romanzo di Flaubert, e sarà in programma ad ottobre proprio alla Cinématheque.

I due giornalisti responsabili del dibattito, un po’ più sciolti dopo un inizio un po’ trattenuto in cui le parti sembravano quasi studiarsi reciprocamente, hanno poco dopo iniziato a ripercorrere l’ultimo ventennio di carriera del cineasta, quello che più di ogni altro ha contribuito a renderlo uno dei più forti talenti visivi e rappresentativi, oltre che colti, del panorama cinematografico contemporaneo: si è iniziato con qualche minuto dedicato al lungo documentario LE VOCI DELLO SPIRITO (1995), quasi sei ore dedicate a raccontarci la vita e la quotidianità sul fronte da parte delle truppe russe, impegnate al confine tra Afghanistan e Tagikistan, tra momenti di riposo e routine, alternati a momenti d’azione durante le varie situazioni d’emergenza in cui è richiesto l’intervento delle truppe.

Il cinema di Sokurov è costellato di ruoli militari, di giovani che adempiono al loro dovere, di soldati ripresi nel momento del loro fulgore, speso tuttavia a celebrare il trionfo dell’odio e della prevaricazione. Pur spendendo parole affettuose ed uniche sulle donne, sul ruolo salvifico e di mediazione che esse si prendono nell’equilibrio umano e nell’ambito dei percorsi cruciali di popoli e civiltà verso lo sviluppo, morale oltre che materiale, il cineasta rivendica anche il diritto di parlare, nelle sue opere, di soldati, del sacrificio a cui si prestano, della totale indifferenza in cui il sacrificio di un uomo viene in qualche modo percepito in rapporto ad una speculare situazione o vicissitudine che possa essere accaduta ad una donna.

E quindi, procedendo in tal senso, il regista si chiede? "Perché la morte di un padre non è (quasi) mai tragica e devastante come quella di una madre?" Il ricordo della morte di Madame Bovary affiora qui tra gli incubi del Sokurov ragazzino, che quasi per una regola del contrappasso si dedica a celebrare il sacrificio di migliaia di ragazzi mandati a morire dalle decisioni spesso criminali dei pochi potenti che provocano i conflitti.

Ecco perché la scelta di seguire quei soldati, quelle truppe lungo i confini: era il periodo, vent'anni orsono, in cui Eltsin si muoveva duro contro la piaga della tossicodipendenza, cercando di bloccare il traffico di stupefacenti sui confini.

Per questo suo atteggiamento, a suo modo provocatorio contro una istituzione che manda allo sbaraglio giovani soldati senza che nessuno dei responsabili possa in alcun modo mai rispondere di tali iniziative, il regista confida, ed è cosa nota, di essere stato indagato dal KGB e di essere stato sottoposto a controlli che ne hanno in qualche modo compromesso per anni la libertà di espressione.

“Provo compassione per il mondo, per le persone costrette a sacrificarsi: di qui la mia venerazione per i soldati, e la necessità di documentare con questo lungo lavoro, il loro costante sacrificio, svelandone e descrivendone le giornate che li occupano al fronte.”

Mettendo da parte (ed è un vero peccato perché a mio avviso si tratta di una delle opere migliori del regista) MADRE E FIGLIO (1997), primo, rivoluzionario ed indimenticabile, straziante capitolo sulla celebrazione di un amore filiale, o comunque familiare, artefice di una trilogia ancora da completarsi con un FRATELLO E SORELLA ancora in via di concepimento, un breve filmato introduce una riflessione su MOLOCH (1999), altro primo capitolo, questa volta di una tetralogia (con Taurus, Il Sole e Faust) dedicata ai potenti più efferati della nostra storia (recente), con una conclusione (Faust appunto) che si concentra con la figura del male assoluto e innato che ispira la natura umana.

Di fatto Moloch, che descrive i giorni di oziosa vacanza di un dittatore capriccioso ed infantile soprannominato “Adi” dalla sua vitale e capricciosa amante Eva, mentre si apprestano a ricevere ospiti su in cima alla roccaforte grigia e rigorosa che li ospita sulle pendici di una rocca in bilico sull’abisso, è la prima acuta riflessione sulle conseguenze terribili che vengono a crearsi quando il potere si catapulta in mano a folli rancorosi in grado di condizionare e compromettere intere generazioni al solo scopo di soddisfare i capricci del proprio ego malato.

“I quattro film della tetralogia sono come quattro alberi della stessa specie, che tuttavia si sviluppano ognuno secondo le proprie possibilità, secondo il percorso delle proprie radici, seguendo evoluzioni e stadi di crescita differenti ognuno assecondando la propria situazione e secondo i condizionamenti geografico-ambientali che le circostanze fanno intervenire”.

Si passa poi all’emozione del più famoso e lungo piano sequenza della storia del cinema con l’ora e ventotto minuti di ARCA RUSSA (2002), viaggio bizzarro e fastoso all’interno delle splendide stanze che compongono il celebre museo dell’Hermitage, grandiosa celebrazione dell’arte nel suo complesso promossa e assemblata per merito della dinastia degli zar, ed ora baluardo tra i più ricchi e frequentati della cultura umana di tutti i tempi. Un misterioso visitatore dalle sembianze a dir poco vampiresche, ci si ritrova catapultato, accompagnato da un io narrante impersonato dalla telecamera che tutto vede e tutto inquadra senza sosta, coadiuvandolo nella contemplazione di molte tra le opere che arricchiscono questo concentrato di genialità umana che rasenta la perfezione. In un viaggio senza tempo tra i costumi di epoche sfarzose ormai lontane e la quotidianità di visitatori contemporanei, il film celebra la morte del montaggio a favore di un cinema più libero e leggero, puro e cristallino che, come in questo caso, si completa in un solo giorno, seppur in seguito a prove estenuanti che nel caso specifico hanno richiesto oltre 2 mila persone tra attori e comparse, una troupe di trenta aiuto-registi e uno sforzo fisico e psicologico che, in quel periodo, ha messo a dura prova la salute del pur vitale ed energico regista. Il risultato finale del film, che ha necessitato di mesi di prove, e che esiste in tre versioni, girate nello stesso giorno per l’impossibilità di tenere chiuso per oltre un giorno un museo di tale portata e notorietà, è stato soddisfacente a parte qualche perplessità relativamente alla fotografia, perfezionata nello stile pastoso e anticato tanto caro al regista, grazie all’intervento di una equipe di maestri della fotografia tedeschi.

Un critico domanda al regista chi sia quel folle produttore che ha finanziato il film. Lo Stato Russo, è la risposta puntuale ed ironica di Sokurov.

Si passa poi a PADRE E FIGLIO (2003), film meraviglioso e tenero a tal punto da destare sospetti al Festival di Cannes in cui fu presentato in concorso. Un film in cui il montaggio torna, al contrario di Arca Russa, a significare molto, ad essere l’elemento indispensabile a raccordo di una storia che si estrinseca nella rappresentazione gioiosa e sfrenata di una passione affettiva tra consanguinei diretti come lo sono un padre e suo figlio. “Un film in cui spesso procedo a raccontare grazie all’intervento della musica, fondamentale in questo film almeno come la necessità di un montaggio quasi frenetico”. Un film sulla complicità, sull’apertura totale e reciproca di due individui che si sorreggono l’un l’altro diventando come un'unica entità. “Ma non ho mai inteso fare un film a tematica omosessuale: se avessi inteso fare ciò lo avrei dichiarato apertamente. Non ho problemi a confrontarmi con tali tematiche, ma la mia intenzione, nell’ambito della trilogia ancora da completare, è un’altra. Qui l’amore è quello paterno e filiale che si fondono, e nel racconto la tenerezza e la cordialità si impadroniscono della scena. Sono credente e per me l’amore è un valore oggettivo, che va al di là della volontà. L’uomo è l’unico essere vivente che ha bisogno di un suo simile per sopravvivere e in questo film ho cercato di far trasparire, di rappresentare questa necessità”. Non mancano immagini dai colori sgargianti e pastello, immagini deformate e distorte che resero unico e magico Madre e figlio,: qui ricordiamo la bocca deformata, quella del figlio in una smorfia sognante, in apertura della pellicola.

Nel 2005 la trilogia sul potere e sul male che lo corrompe si conclude (prima di arricchirsi di un capitolo aggiuntivo col Faust), con IL SOLE, pellicola incentrata sulla figura contraddittoria e bizzarra dell’imperatore Hirohito, colui che collabora con le forze americane, arrendendosi e rinunciando al proprio status di capo di stato e di culto, retrocedendo dallo stato di dio a uomo pressoché comune, o almeno mortale. Sullo schermo ci vengono mostrati inquietanti immagini dei pesci volanti che portano bombardamenti come aerei da guerra, secondo la visionarietà affascinante ed inquietante del maestro russo. Una pellicola girata in digitale ma trasferita su pellicola per arricchirla di questi allegorici effetti speciali. Un film che vive, molto più di altri, dello spessore interpretativo e della mimica facciale del protagonista, una vera e propria star giapponese, specializzata in film comici, Issey Ogata, di cui il regista conserva un gran ricordo.

Sokurov dichiara che questo non è un film storico, ma una pellicola che, come le due precedenti, vuole incentrarsi su un personaggio singolo per farci riflettere su come ogni sua singola decisione possa avere effetti di portata globale, nel bene come più spesso nel male.

Nel 2007 è la volta di ALEXANDRA, e in quella occasione Sokurov non nasconde per nulla una sua innata ostilità nei confronti del popolo (maschile) Ceceno, colpevole di atti e crimini contro l’umanità che lo spingono (a mio avviso un po’ troppo imprudentemente) a generalizzare su concetti e conclusioni che riguardano una massa troppo eterogenea di persone come può essere una intera nazione. Alexandra è un film magnifico e delicato con cui Sokurov torna a concentrarsi sul sentimento che tiene unita la gente, sull’importanza e la forza dei rapporti di parentela. Un film girato sul confine ceceno, tra mille difficoltò, con un’attrice molto famosa come Galina Vishhnevskaya, anziana ma tenace, nei confronti della quale il regista si sentiva responsabile, preoccupato dai mille problemi logistici e dalle minacce di rapimento nei confronti della troupe, che resero teso il clima dietro le quinte. “Un film che amo molto”, ci confessa il regista.

A conclusione della tetralogia sul male e sugli uomini che meglio di ogni altro potevano assurgerne a sinistro emblema, Sokurov disegna col suo FAUST, premiato a Venezia 2011 con il Leone d’oro, la quintessenza del male e della corruzione: il diavolo, o meglio colui che, a causa sua, viene tentato e portato alla perdizione. Dopo Hitler, Lenin e Hirohito, il dottor Faust cede alle lusinghe che promettono onnipotenza nel sapere: il diavolo tenta e poi tradisce l’uomo, allo stesso modo come costui ha tradito Cristo. La trilogia, divenuta poi tetralogia, è in realtà per Sokurov un’opera unica, o come tale andrebbe concepita, suddivisa in quattro capitoli in ragione delle necessità economiche legate alla distribuzione e alle modalità di ogni singolo concepimento dei vari capitoli.

Un film che si ispira all’opera di Goethe, e che per questo il regista ha voluto a tutti i costi che fosse girato in lingua tedesca: il diavolo che finisce per mettere in ginocchio gli uomini con le sue false promesse di prosperità, in un mondo in cui il denaro finisce per essere il vero tallone d’Achille dell’umanità, la causa principale di tutte le sue sciagure.

“Proprio perché il diavolo rappresenta il male assoluto, ho deciso di completare la trilogia con un quarto film che accogliesse al suo interno il suo elemento più rappresentativo.

Senza anticipare nulla di FRANCOFONIA, che in Francia uscirà il 21 ottobre ma che il giorno seguente questa lezione verrà proposto in sala a Nizza in anteprima nazionale (film che ho avuto modo di visionare al festival di Venezia 2015) l’ultima domanda, come è tradizione in queste circostanze, riguarda l’anticipazione di eventuali progetti in cantiere in capo al regista.

Sokurov confessa di essere interessato a mandare avanti tre progetti, anzi quattro, se si conta quel Fratello e Sorella accennato sopra, ideale conclusione di una tetralogia sull’amore “familiale”, per dirla con un francesismo.

-Un progetto grandioso su San Pietroburgo, ma i finanziamenti necessari risultano ingenti ed il progetto, con già una stesura pronta, dovrà attendere ancora.

-un documentario su un soggetto a cui il regista pensa da tempo: un argomento che sta molto a cuore al cineasta, ma che proprio per questo egli preferisce mantenere in serbo in attesa di sviluppi concreti;

-un film a soggetto incentrato sulla cultura e religione musulmana: un film scottante che potrà creare dissidi e atteggiamenti ostili: “un film scottante che ho in mente ma che ho paura anche solo a progettare”. 

E lasciando il suo pubblico che lo saluta in un lungo applauso, il regista si commiata con un opportuno e scaramantico “Chi vivrà vedrà”.

 

P.S.: questo post è una sintesi di un incontro prezioso e per me imperdibile con uno degli uomini di cinema più ispirati e creativi delle ultime generazioni; le pagine qui sopra riportano nel loro complesso il filo conduttore di una lunga intervista durata oltre tre ore. Le frasi riportate tra virgolette, tentano di riferire le parole pronunciate dal regista in determinate situazioni o in risposta a qualche domanda: essendo frutto di una traduzione simultanea dal russo al francese ascoltata per cuffia, in condizioni a volte poco favorevoli che mettevano in difficoltà gli stessi due traduttori, esse non riportano alla lettera le risposte del maestro, ma la sintesi del loro significato…o almeno spero.

 

 

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