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I get by with Joe Cocker
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Non dimenticare mai, cantava. Non dimenticare mai / ho sentito dire da mio padre / ogni generazione a modo suo / ha il bisogno di disobbedire / non dimenticare mai / è nel tuo destino / il bisogno di dissentire / quando le regole diventano un ostacolo / non dimenticare mai.

Era il 1997 e Joe Cocker usciva con Across From Midnight. Tra le tracce c’era anche N’Oubliez Jamais, una canzone molto europea, ma dall’animo americano. Il destino, la disobbedienza, le regole che vanno strette. Una canzone che ho nel cuore, come tutte le altre, e che insieme a My Father’s Son e Different Roads, dello stesso album, è un pilastro della mia crescita. Nel 1997 avevo diciannove anni.

È morto Joe Cocker, il bianco dalla voce da nero, il Leone di Sheffield, l’eroe di Woodstock. Uno degli uomini e degli artisti che hanno davvero segnato la mia esistenza, quasi simbioticamente.

Tutto era iniziato credo tra il 1987 e il 1991. Ero alle medie, in seconda precisamente, e ricordo che c’era una canzone che mi faceva impazzire, ma di cui non conoscevo né il titolo né il cantante né tantomeno il testo, visto che sbiascicavo qualche frase in inglese alla maniera di Celentano. Qualcosa come “she’s got be aind”. In realtà era Unchain My Heart, la title track, cover di Ray Charles, dell’album del 1987 che aveva riconfermato Joe Cocker leggenda vivente dopo l’Oscar per Up Where We Belong nel 1982 e il successo di You Can Leave Your Hat On nel 1986.

Volevo a tutti i costi quella canzone. Ricordo che la cantavo in bicicletta con il mio amico Luzi mentre andavamo all’oratorio estivo; ricordo che azzittivo tutti sul pullman in direzione Monaco di Baviera quando nel 1991 la trasmettevano per radio; ricordo che la ascoltavo a ripetizione dall’autoradio di un amico di mio padre mentre tornavamo da una gita al Gran Paradiso.

In quell’occasione avevo scoperto che il cantante era Joe Cocker e per il natale del 1991 avevo chiesto mi fosse regalato un suo cd. Volevo quella canzone. I miei genitori mi hanno così regalato Night Calls, un album tra i più belli in assoluto della sua carriera, ma a parte pezzi a me poi carissimi come Love is Alive, non c’era traccia della mia canzone. Ho dovuto però aspettare l’anno successivo quando mi hanno regalato The Best of Joe Cocker dove, tra i tanti successi e la nuova (All I Know) Feels Like Forever, c’era finalmente anche la tanto sospirata Unchain My Heart. Ma intanto, da quel natale 1991 in avanti Joe Cocker è stato la colonna sonora della mia vita. E lo sarà sempre.

Adolescenza, giovinezza e maturità. Tutte le fasi della mia vita sono state commentate da quella voce roca, nera, dura e virile che cantava l’amore, ma anche la sofferenza, il piacere e il divertimento della vita.

John Robert Cocker, nato a Sheffield nel 1944, di origine proletaria, esordiva nei pub inglesi con le cover dei Beatles e di Ray Charles. Il successo arrivò nel 1969 prima partecipando all'Ed Sullivan Show e poi con la sua trionfale esibizione a Woodstock. Da quella data, tra alti e bassi, tra un anno sulle scene e quello dopo a disintossicarsi, Joe Cocker diventava mito. Solido, vero, reale, senza conformismi o edulcorazioni. Spirito sessantottino per definizione, maledetto, drogato e alcolizzato per scelta, il grande cantante inglese aveva fatto della sua vita e della sua carriera un’opera d’arte.

Dopotutto ci si può affratellare intorno a Mr. Joe Cocker solo se si ha il suo stesso spirito. Anche se con la fine degli anni ’80 e con il successo planetario delle due canzoni cinematografiche ancora oggi immortali e la pseudo deriva pop dei ’90, il suo sound s’era fatto più commerciale e pluriadattabile, inserendosi nel mainstream più classico alla voce “adult rock”, Joe Cocker non era un cantante per tutti. Restava sempre in disparte. Portava avanti il suo grande pubblico senza fare troppi versi. Era solito ripetere “Ho fatto Woodstock, non devo dimostrare nulla” e non si curava del merchandising, della pubblicità, dei video musicali e tanti altri corredi commerciali all’opera discografica. Non si curava delle mode e delle nuove leve, anche se un occhio di riguardo per il mercato l’ha sempre avuto così come aveva speso buone parole per Joss Stone e pochi altri. Non si riascoltava mai, preferiva un’emittente radiofonica dedicata al blues e guardava vecchi film western a notte fonda, laggiù a Crawford in Colorado dove s’era trasferito al Mad Dog Ranch con la donna della sua seconda vita, Pam.

Artista perfetto anche se non completo, Joe Cocker non sapendo suonare nessuno strumento trasmigrava sul suo corpo i ritmi e gli spasmi dell’energia musicale e del trasporto emotivo di testo e musica. Era, e lo è tutt’ora, un piacere per l’udito e per lo sguardo. Voce e corpo erano e sono i segni di un’ispirazione artistica enorme e insuperabile. Uno dei rari casi in cui la mancanza di autorialità delle proprie canzoni e di uno strumento musicale simbolico non sono più un handicap, ma un valore aggiunto.

Con Joe Cocker ho cantato davvero sotto la doccia, macinato chilometri on the road a finestrino abbassato, sonnecchiato in spiaggia, fatto sesso – l’ultima volta, senza saperlo, proprio il giorno della sua morte con Unchain My Heart. Ho sopportato estenuanti viaggi in treno nella bassa, camminato per prati lungo il naviglio, ballato, cenato, bevuto, sbronzato e tanto altro. Joe Cocker è stato per me un alter ego, una mano che mi scavava dentro soprattutto quando si versavano fiumi di Bonarda.

Ho fatto anch’io il mio pianto con le sue canzoni e i vapori dell’alcol in corpo. La sua voce mi ha accompagnato nei miei viaggi in macchina, scapigliati e primitivi tanto da rispecchiarsi in quel sound duro e virile, come la terra arsa dal sole che calpestavo in sua compagnia. Ho educato manciate di adolescenti con le sue canzoni, le ho usate nei miei spettacoli teatrali e sono anche arrivato ad imitarlo dal vivo in videoplayback.

Come spesso accade con gli animi indomiti per natura, l’emulazione dei modelli di riferimento diventa stile di vita, postura verso il mondo, atteggiamento e approccio sociale. La sovrimpressione delle due figure ne genera una terza che diventa in seguito l’unica percezione della figura originale che ha il mondo. È stato il mio destino. Un meticciato dove Joe Cocker, Eastwood, Hackman, Jannacci, Celentano e Pantani si sono accompagnati all’eredità genetica lasciatami da mio nonno e mio padre.

Non credevo che questo giorno sarebbe arrivato così presto. Avevo già organizzato con amici ed ex alunni delle medie di andare al prossimo concerto. Già pensavo a quale sarebbe stata la canzone da inserire nella playlist dell’estate e nel prossimo on the road. Già me lo immaginavo in concerto qui, dietro casa, io, lui e i miei amici, come ad una festa. Sognavo duetti con Mick Jagger, Aretha Franklin, Tina Turner, Kris Kristofferson. Mi rimangono quelli con BB King, Ray Charles, Patty Labelle, Jennifer Warners, Pavarotti e con Celentano nel 1999 a Francamente me ne infischio. E questo può bastarmi.

Poi è arrivato il 1999. Sono andato a Modena al Parco Novi Sad per il Pavarotti & Friends di quell’anno. Le ragazzine sbavavano per Ricky Martin. Io no. Io ero lì per Joe Cocker, anche se visto da lontano, anche se per sole due canzoni, You Can Leave Your Hat On e poi You Are So Beautiful in duetto col Maestro e Alex Britti alla chitarra acustica. Poi, finalmente, sono arrivati i live: Lucca 2000 in solitaria, Roma 2002 in solitaria, Locarno 2005 con il mio amico Fresco, Mantova 2007 con mio padre, Milano 2010 con un pugno di amici: Fresco, Marcio, Alé e Mex. Sempre in prima fila, sempre il primo ad entrare l’ultimo ad uscire. Colgo l’occasione per ringraziare quei delinquenti incapaci della Sony Italia che non sono stati in grado di gestire l’ultimo album di Joe Cocker, Fire It Up (2012). Non accompagnato da pubblicità, articoli, interventi televisivi decenti non è stato possibile poi far approdare il tour in Italia, l’ultimo tour, un successo mondiale. Grazie di cuore. Un giorno avrò i vostri nomi.

È morto Joe Cocker. Un signore. Il signore del rock, del blues bianco, del soul e del funky. Gentile e umile. Dimesso e marginale. Modesto e semplice. Autoironico e di grande umanità. Nessuna rockstar dei suoi stessi livelli ha vissuto, dopo i bagordi dei ’70, una vita umile come la sua. Benché avesse un faraonico ranch in Wyoming dove allevava mucche africane, era un uomo tranquillo, un quiet american che amava la terra e le cose semplici: the simple things / that come without a price / the simple things / like happines, joy and love in my life (The Simple Things, Have a Little Faith, 1994).

In anni turbolenti, quelli dell’adolescenza di un ragazzo ribelle a norme e menzogne del quieto vivere quale ero e in buona parte sono tutt’ora, Joe Cocker ha descritto perfettamente il mio dissenso e la mia disobbedienza etica, civile ed estetica. Ha cantato la sofferenza di un uomo solo ed incompreso. Ha cantato la rabbia dell’impossibilità pessoana ad essere possibili. Ha cantato l’angoscia, la tristezza e la malinconia di chi vorrebbe sempre vivere un’età dell’oro fatta di libertà, amore incondizionato e felicità istintiva. Ha cantato infine, la disperazione dell’adolescenza, condizione esistenziale di ogni artista genuino e sincero. Ma lo ha fatto cantando con grinta e durezza virile, con ottimismo sviscerato dall’irruenza dell’interpretazione che da sola lottava contro l’immobilismo dell’impossibilità. Aveva un gran sorriso e un grande spirito combattivo. Le sue urla, infatti, erano il grido di dolore e insieme di riscossa di un uomo in perenne lotta con se stesso.

Non ci credo ancora che non lo rivedrò mai più. Che quelle mani, quel corpo spasmico, quella faccia scolpita, quegli occhi glaciali e buoni come il pane, non ci credo ancora che non li rivedrò mai più. Mi resterà solo la sua generosa voce nera, profonda, dura come una lastra di pietra, ad accompagnarmi in ogni momento della mia vita futura. Non voglio sembrare drastico e tragico, la vita va avanti, certo, ma Joe Cocker era qualcosa di diverso per me. Era la concrezione umana di un’emozione intima. Era, ed è e sarà sempre la manifestazione viva e palpitante di una parte intima di me stesso. Anch'io sono stato Joe Cocker.

Uno degli ultimi duri. Stanno (stiamo) sparendo poco alla volta tutti quanti. E quando resteremo soli…

So long Mr. Joe Cocker, stapperò sempre un Bonarda per te brutto cane pazzo di un inglese.

 

A questi link le 3 precedenti playlist nelle quali avevo in un modo o nell'altro parlato di Joe Cocker:

//www.filmtv.it/playlist/49368/joe-cocker-il-nuovo-album-fire-it-up-tra-cinema-e-song-sugge

//www.filmtv.it/playlist/50618/on-the-road-with-joe-cocker

//www.filmtv.it/playlist/678619/runaway-train-i-fim-con-i-treni-dentro

 

UN ALBUM, UNA CANZONE.

 #1.With a Little Help from My Friends (1969). Voto: 10.

Scelgo Feelin’ Allright a tutt’oggi road song per definizione. Sound tribale come epoca voleva. Percussioni, fiati, cori, aria circense e saltimbanco. Canzone numero uno dell’album numero uno che all’indomani de “l’inno del nuovo sentire”, così titolarono i giornali il giorno dopo la performance a Woodstock di A Little Help, definisce un intero decennio.

 

#2.Joe Cocker! (1969). Voto: 8.

Leon Russel è l’autore di Delta Lady, uno dei primi classici di Joe Cocker. Il ritmo e l’allegria della canzone della signora del delta saranno emblematici nell’arco della sua carriera.

 

#3.Joe Cocker (1972). Voto: 10.

Contiene alcune tra le canzoni più belle e significative di quel periodo. Tra le tante spicca High Time We Went scritta dallo stesso Cocker con il sodale di un tempo, Chris Stainton. Un sound trascinante e pieno di ritmo inarrestabile. L’ultima esecuzione della canzone dal vivo risale al tour del 2000: strepitosa. Ad ogni strofa seguiva l’assolo di uno strumento musicale alla volta: tastiera, basso, chitarra elettrica, sax e batteria.

 

#4.I Can Stand a Little Rain (1974). Voto: 7.

È l’album della celebre e immortale You Are So Beautiful e c’è un cambio di rotta nella linea artistica di Cocker. La tracklist è nel suo complesso più soft e tranquilla del “circo” musicale degli album precedenti. Se ne distingue comunque I Get Mad straordinario soulaccio rock in cui la voce dell’eroe di Woodstock, impastata di bagordi seventies, fa la differenza.

 

#5.Jamaica Say You Will (1975). Voto: 10.

Ritorna l'anima nera, il soul e il blues e il ritmo del funky. Tra le tante canzoni pienamente riuscite si distingue per performance e pathos Oh Mama che darà poi il là a Zucchero Fornaciari per la sua Madre Dolcissima (Oro, incenso e birra, 1989) – come da Sandpaper Cadillac avrebbe poi ricavato Menta e Rosmarino (1997), da You Can Leave Your Hat On la celebre Con le mani (Blue’s, 1987) e da Hello Little Friend la misconosciuta Nuovo meraviglioso amico (Rispetto, 1986) dedicata proprio a Joe Cocker che nei primi anni ’80 era ritornato sulla cresta dell’onda dopo il travaglio della dipendenza alcolica e drogatica degli anni ’70.

 

#6.Stingray (1976). Voto: 6.

L’operazione è molto fiacca, ma tutte le tracce, tra cui due brani di Bob Dylan, vecchio vizio del Leone, e uno ancora dell’amico Leon Russell, sono interpretate con grande trasporto e sensibilità. Su tutte ricordo con piacere Catfish, versione reggaeggiante di una hit del menestrello di Duluth.

 

#7.Luxury You Can Afford (1978). Voto: 10.

Uno degli album migliori. Ritorna il grande funky spensierato e di gran professionalità. Il sound funky accattivante e le firme che lo accompagnano ne fanno uno dei lavori simbolo della carriera di Joe Cocker. Mentre nascevo nel 1978, nelle radio passava la versione cockeriana di A Whiter Shade of Pale, ricordata anche nelle fasi finali de I cento passi (2000) anche se erroneamente nella versione di Michael Bolton. Album ballabile. Non si riesce a stare fermi. Tra le tracce spicca I Know (You Don’t Want Me No More).

 

#8.Sheffield Steel (1982). Voto: 10.

Joe Cocker non è ancora tornato il cantante degli esordi, nonostante ogni suo album sia la prova inconfutabile di un talento inimitabile. Anche quest’ultimo lavoro, il più influenzato dalla sonorità reggae del mito del momento, Bob Marley, è un piccolo

gioiello di sound e performazione. Irresistibile la canzone apripista Look What You’ve Done. L'album è come una pregiata bottiglia di vino: più passa il tempo e più colpisce, ammalia, strega.

 

#9.Civilized Man (1984). Voto: 6.

Lavoro modesto dove s’impone su tutte la title track. Ricordo con affetto Long Drag Off A Cigarette, ideale per fumarsene una sotto il sole, o al tramonto, o in piena notte.

 

#10.Cocker (1986). Voto: 9.

È l’album di You Can Leave Your Hat On e il successo arriva a diversi anni dopo l’Oscar e il Grammy per Up Where We Belong (1982), contenuta solo nella colonna sonora del film Ufficiale e gentiluomo (1982) e successivamente in raccolte come il live Joe Cocker Live (1991) e The Best of Joe Cocker (1992). Particolare nel sound, profondamente anni ottanta per tutto l’album, A To Z.

 

#11.Unchain My Heart (1987). Voto: 8.

Non il miglior album, ma sicuramente il lavoro che sancisce il rilancio definitivo del Leone di Sheffield grazie alla trascinante cover di Ray Charles diventata subito un classico. Nell’album trova un posto d’onore The River’s Rising un rock potente, segno del cambio di epoca tra gli ’80 e i ’90.

 

#12.One Night of Sin (1989). Voto: 10.

Album potentissimo dove grandi pezzi vivaci e inarrestabili in ritmo ed energia lasciano spazio a dolci ballate senza oscurarle. Non c’è solo la When the Night Comes scritta da Bryan Adams e Diane Warren, ma anche Bad Bad Sign potente e dall’esecuzione impeccabile.

 

#13.Night Calls (1991). Voto: 9.

Registrato nel 1990, distribuito in Europa nel 1991 e in USA nel 1992, l’album che apre il nuovo decennio è anche l’album di una svolta musicale. Il rock si fa meno scanzonato e diventa “adult” a tutti gli effetti, riservandosi sempre degli sprazzi circensi che a Cocker son sempre piaciuti. È anche l’album con cui l’ho conosciuto e amato. La canzone con cui si aprono le danze, Love is Alive è diventata nel tempo una canzone con cui stordirmi.

 

#14.Have a Little Faith (1994). Voto: 7.

Lavoro meno carismatico dei precedenti, ma molto intimo. Una canzone, Let the Healing Begin, è accompagnata da un video musicale in cui sono montate immagini di Joe Cocker negli anni della dipendenza alcolica e drogatica. Lo si vede anche in uno scatto d’epoca mentre viene arrestato. Alcune tracce sono oggi dei nuovi classici e su tutte ricordo Summer in the City inno estivo immancabile nelle playlist a tema.

 

#15.Organic (1996). Voto: 9.

È un album di cover e vecchi successi rifatti in versione acustica con la partecipazione di nomi quali Dean Parks, Tony Joe White, Randy Newman, Billy Preston e il ritrovato Chris Stainton. Il risultato è uno spettacolare album dove l’artigianato musicale dei grandi vecchi conferma la propria immortalità. Su tutte le tracce è particolarmente azzeccata la versione reggae della vecchia hit Don’t Let Me Misunderstood.

 

#16.Across From Midnight (1997). Voto: 8.

Qualcuno parla di svolta pop. Sbagliato. Il sound è ancora unico e incasellabile. Come ci sono tracce di sonorità più facile e orecchiabile, sulla via del pop d’autore, così ci sono altrettanti brani che nessuno avrebbe saputo rendere meglio. Oltre la trascinante cover di Bob Marley, Could You Be Loved, spicca per sound e mood la bellissima e nera The Last One To Know.

 

#17.No Ordinary World (1999). Voto: 8.

Forse l’album meno amato da Joe Cocker che non nasconde di averlo registrato senza la libertà a cui era abituato. Artefice del progetto il produttore di Robbie Williams. Personalmente, pur individuando la natura pop dell’album, è uno dei miei preferiti e sono intimamente affezionato a Different Roads. Per la cronaca, le canzoni dal vivo - Tour del 2000 -  sono ancora più belle che nella loro versione in studio, segnale che c’era stato fin da subito un ottimo arrangiamento.

 

#18.Respect Yourself (2002). Voto: 10.

Uno degli album più belli in assoluto. Con il produttore John Shanks, anche autore di quasi tutte le canzoni, Joe Cocker torna a fare musica a modo suo. Strumenti veri, poca postproduzione, la “vecchia scuola” scandisce il lavoro di un album altamente gratificante dove It’s Only Love, modellata sul brit sound rilanciato dagli Oasis, è un personale classico del cuore.

 

#19.Heart & Soul (2004). Voto: 8.

Il primo di un dittico di sole cover, grandi classici del passato e del presente rivisitati secondo il Cocker touch. Da Marvin Gaye ad Aretha Franklin, da Paul McCartney a John Lennon, dagli U2 ai REM. Particolarmente riuscita è la versione reggaeggiante di Jealous Guy che quando l’ascolti ti sembra di essere a palle al vento su un’isola deserta.

 

#20.Hymn for My Soul (2007). Voto: 7.

Seconda puntata del dittico. Lavoro meno incisivo del precedente, ma che permette a Joe Cocker di divertirsi e farci divertire con la musica sana e circense che più gli e ci piace. Dai Creedence Clearwater Revival a Stevie Wonder, da George Harrison a Bob Dylan. Mette la pelle d’oca la rivisitazione totalmente di segno opposto di Long as I Can See the Light dei Creedence, ma questa è una specialità tutta cockeriana: rendere la cover più speciale dell’originale.

 

#21.Hard Knocks (2010). Voto: 9.

Primo degli ultimi due album legati tra loro da una dichiarata continuità: il produttore Matt Serletic e la Sony Prd. Grazie al primo, Joe Cocker tornerà a fare inediti con la stessa passione e creatività degli anni migliori. Il risultato è un album a metà strada tra pop orecchiabile e di facile ascolto e brani di una personalità incredibile. Runaway Train, la canzone più strana che Mr. Joe abbia mai fatto, è per me oggi il suo brano più emblematico.

 

#22.Fire It Up (2012). Voto: 8.

L’ultimo generosissimo album – conta infatti di ben 14 brani, la tracklist più lunga di sempre per un suo album di inediti – è ancora più marcatamente diviso tra brani pop e brani personali, il cui sound resta fedele allo spirito verace dell’eroe di Woodstock. Porto e porterò sempre nel cuore e in ogni mia playlist una bellissima road song che ha nel suo tema il ritmo di una corsa irrefrenabile verso il sole: I Come in Peace.

 

LYRICS.

 

Oh, I get by with a little help from my friends

Mm, I get high with a little help from my friends

Mm, gonna try with a little help from my friends

(With a Little Help From My Friends, id. 1969).

 

Well, it's five o'clock in the morning

feel just like the end of a mule

Somebody's been yawning trying to break out the rules.

Yes, it's high time we went.

(High Time We Went, Joe Cocker, 1972).

 

Oh mama I don't want to feel this way

Oh, no not another day, please

Oh mama

Take me home

I don't want to be alone no more mama

(Oh Mama, Jamaica Say You Will, 1975).

 

Unchain my heart, baby let me go

Unchain my heart, cause you don't love me no more

(Unchain My Heart, id., 1987).

 

My heart is on fire

My soul's like a wheel that's turnin'

My love is alive, my love is alive

Yeah, yeah, yeah

(Love is Alive, Night Calls, 1991).

 

There's a storm coming

I can see it in her eyes

I can hear it in the way she says "everything's all right"

I can feel it in the air between us

And I think I know the reason why

There's a storm coming

Tonight

(There’s a Storm Coming, Night Calls, 1991).

 

The night gang started working

With a mile of southern road

As I watched I got to thinking

You ain't never coming home

(Night Calls, id., 1994).

 

The People Stay Behind Their Locks And Chains

It'S A Shame

When So Many Are Trying Their Best To Live

As One And The Smoke

Form The Fires Covers The Sun

(Let the Healing Begin, Have a Little Faith, 1994)

 

I Don't Back Down

When I've Got My Feet On The Ground

I'm A Peace Loving Man

But I'll Take The Blows

As Long As You Want Me

That's All I Need To Know

(That’s All I Need to Know, Across From Midnight, 1997).

 

N'oubliez jamais, I heard my father say

Every generation has its way

A need to disobey

N'oubliez jamais, it's in your destiny

A need to disagree

When rules get in the way

N'oubliez jamais

(N’Oubliez Jamais, Across From Midnight, 1997).

 

Time has been my only friend

The truth is like a knife

It cuts right through you

I didn't want to loose you

We have taken different roads

We have gone our separate ways

Though there maybe many miles between us

In my heart the love remains

It will not change

Across a thousand days

Down a different road

(Different Roads, No Ordinary World, 1999).

 

But you have touched my soul

And I have bent your rules

Only love could save us

Show us what we're made of

Come on, come on, come on

I know we can make it

I'll hold you in my arms

It's only love that keeps us strong

(It’s Only Love, Respect Yourself, 2002).

 

We got that boom, boom, bumping like a downtown quake

Wake it up, shake it down

We got the girls, all jumping at the Tucson Lake

Feel the love moving 'round

The party's getting hotter, we got the fire, water

Turn up some Joe Cocker

(Get On, Hard Knocks, 2010).

 

Like a runaway train

Never in my mind remains the same

I’m now telling you

There’s nothing left to show

But silent songs and photographs

And way beyond the road

For you my heart is beating fast

(Runaway Train, Hard Knocks, 2010).

 

You see me comin’

You feel like runnin’

A wicked look is in your eyes

I don't come to harm you

I come to warn you

It's now or never, do or die

I had a vision

A head on collision

A revelation yeah

That sent me on a mission

(I Come in Peace, Fire It Up, 2012).

 

So come on bring on all your rain

It's only water it won't stay

You turn to ashes on the ground

My sun burns through your black cloud

You won't haunt me anymore

I'll stand proud and I'll stand tall

There will come a day my friend

I'll walk in sunshine again

(I’ll Walk in Sunshine Again, Fire It Up, 2012).

 

© JOE COCKER.

Canzoni scritte da Joe Cocker:

  • Change in Louise (1969) – con Chris Stainton;
  • Sandpaper Cadillac (1969) – con Chris Stainton;
  • That’s Your Businness Now (1969) – con Chris Stainton;
  • High Time We Went (1972) – con Chris Stainton;
  • I Get Mad (1974) – con Jim Price;
  • Born Thru Indifference (1976) – con Richard Tee;
  • Another Mind Gone (1989) – con Jeff Levine e Chris Stainton.

 

QUOTES.

“Ai miei tempi non eravamo così tanti, noi artisti ci conoscevamo tutti: oggi qualunque band può prodursi un disco con 1.000 dollari. Senza parlare poi dei vari talent show. In questo mare, forse riesco a cavarmela, qualche buona canzone l’ ho fatta”.

“Praticamente mi nutrivo di soli liquidi. Iniziavo a bere alle undici del mattino e, arrivato a sera, ero totalmente andato. C'è chi dice che negli anni Settanta ho fatto dei concerti ottimi, ma sinceramente saranno stati uno ogni tre. Avevo problemi anche con la cocaina, e poi con l'eroina. Non mi bucavo di ero, la sniffavo e basta, ma è sorprendente quanto in fretta si possa diventare dipendente dall'eroina. Quando alla fine ho capito cosa mi stava succedendo, sono stato in grado di darmi una svolta. Ma sono arrivato molto vicino al baratro”.

“E' che non mi offrono grandi canzoni. Forse perché ormai ho compiuto 60 anni, e gli autori non pensano a darmi brani forti, interessanti. Poi in giro di musica buona non ce ne è. Mi piace Joss Stone, anche Alicia Keys. I rappers? Meglio di no...”.

“Quando ero giovane lavoravo in un club dove suonava gente come John Lee Hooker. C'era un preciso percorso musicale. Lo vedevi, c'era una strada da seguire che ti avrebbe portato a risultati. Oggi non vedo nulla di interessante. Quando sono in macchina ascolto solo un canale radiofonico di blues”.

“Sono rimasto dispiaciuto anche di Ray Charles. In quei momenti ti accorgi che sei vulnerabile, che la vita va vissuta ogni giorno. E' la mia filosofia. Io sono vivo con il blues, forse il blues fa vivere a lungo. Guardate B. B. King!”.

“Adesso cammino ogni giorno. Passeggio ogni giorno per almeno 9 chilometri insieme ai miei cani. Ora vivo in Colorado, dove allevo mucche africane. Ormai a Sheffield non mi ritrovo più: e poi entro nei ristoranti e non riesco più a trovare il cibo inglese di una volta”.

“Il tour anti-Bush voluto da Bruce Springsteen non è una brutta cosa, ma non potevo certo andare. Il fatto è che io non voto negli Stati Uniti non potevo partecipare ad una iniziativa dicendo: Hey, non votate!”.

“Beh, avrei potuto fare un duetto con Janis Joplin, avevamo lo stesso manager, me lo aveva proposto ma io dissi di no. Che peccato. Invece ho un ricordo divertente, quando andai da Jimi Hendrix. Aveva una casa nel centro di Hollywood, era piena di ragazze, poi all'improvviso mi compare davanti, attacca la spina dell'amplificatore e si mette a suonare per ore. Roba da pazzi!”. “Sono un vecchio dinosauro e ne vado orgoglioso! Sono pochi quelli come noi capaci di tenere ancora la scena”.

 

Abbiategrasso, 22 dicembre 2014.

 

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