Regia di Hayao Miyazaki vedi scheda film
Forse il risultato più alto raggiunto dal grande maestro dell’animazione insieme a La città incantata (ma son sfide ardue), Principessa Mononoke (lett. “spettro”) è uno stupendo affresco a metà tra Storia e Mito.
Progetto che viene da lontano, a lungo meditato dal regista (sin dalla fine degli anni Settanta), è formalmente calato in una cornice storica ben definita (il periodo Muromachi, che va dal 1336 al 1573 ca.) e tuttavia vi mescola abilmente mitologia e storia antecedente (si veda il caso della popolazione cui appartiene Ashitaka, gli Emishi, un antico popolo effettivamente esistito del Nord di Honshu [la maggior isola giapponese], i cui superstiti che non si fecero inglobare dai giapponesi dopo l’8° secolo si spostarono più a nord [sino all’Hokkaido] e sembra fossero imparentati cogli Ainu).
La parte fantastica, appunto mitologica, è preponderante, sin dalla didascalia iniziale e vuole porsi ad allegoria del momento in cui gli uomini iniziarono ad intaccare irrimediabilmente la Natura, illudendosi di poterne scansare i contraccolpi e soprattutto ritenendo di non esserne più soggetti.
Ma ciò che colpisce prima d’ogni altra cosa è l’ineguagliata meraviglia delle immagini. Il computer – per la prima volta nella storia dello Studio Ghibli, che allo scopo crea anche la divisione CGI – viene utilizzato anche per alcuni minuti di animazione complessi, diversi particolari (ad es. per le particelle atmosferiche o per rendere trasparenti i “tentacoli” del dio della foresta) oltreché per il 10% dell’opera di colorazione.
Tutto il resto è, come da tradizione, rigorosamente realizzato a mano, con la solita cura e perizia, e si concreta in un numero elevatissimo di 144.000 fogli di celluloide, dei quali pare oltre 80.000 disegnati o ritoccati personalmente da Miyazaki [ 1 ].
Il risultante film è, giustappunto, di una potenza impressionante e di una ricchezza espressiva abbacinante. Principessa Mononoke è, innanzitutto, un monumento elevato all’arte dell’animazione al pari de La città incantata, uno stupendo concentrato delle abilità del regista e di tutti gli animatori dello studio, che regala perle ad ogni altro minuto, sequenze al cardiopalma e viste indimenticabili (dalla straordinaria bellezza della foresta ancestrale – per la quale ci si è ispirati alla natura dell’isola di Yakushima – al villaggio di Eboshi, sino al più piccolo dettaglio delle architetture, del vestiario, dei simil-vermetti che si contorcono sul braccio di Ashitaka, dei piccoli kodama, gli spiriti della foresta che ruotano la testa a scatti come fossero mossi da una molla).
La resa cromatica, plastica e figurativa degli ambienti e dei personaggi lascia a bocca aperta, le animazioni sono spesso niente meno che sbalorditive, alcuni momenti talmente avvincenti da riportare alla memoria il miglior cinema d’avventura, altri sì meditativi e capaci di condurre a riflessioni profonde senza calcare la mano da ricordare il miglior Kurosawa [ 2 ].
Come in gran parte della filmografia miyazakiana, difatti, ad animare, per così dire, a livello concettuale il film è in particolare la costatazione di una quasi irrimediabile frattura tra il mondo naturale e quello umano, artificiale, che porta ad una rappresentazione che – pur non abbandonandosi al pessimismo assoluto e alla totale rassegnazione– si fa spesso malinconica e appunto meditabonda, non risolvendosi neppure nel finale in un lieto fine tout court.
La conclusione vuole porsi più che altro a sollecitazione a riconsiderare in profondità, prima che sia troppo tardi, il nostro sistema economico-culturale plurisecolare, predatorio e incurante delle ricadute ambientali (trattate alla stregua di mere “esternalità” senza gran peso), derivato dall’illusione di poter imbrigliare la Natura e depredarla a piacimento senza doverne mai fronteggiare le conseguenze. Ma rimane aperta la questione: si sarà in grado di farlo, di cambiare rotta?
Oggigiorno ci avviciniamo sempre più ad una catastrofe senza precedenti, che in prospettiva minaccia la persistenza stessa di ciò che usiamo definire civiltà, ergo il messaggio al centro del film non può che continuare a risuonare con forza.
Tuttavia, non si deve pensare all’opera come manichea, in quanto alla fine si può notare come moltissimi umani non cerchino altro che di sopravvivere, non perseguendo scientemente la distruzione degli ecosistemi per il gusto di farlo, ma per la necessità di non soccombere ed evitare di rimanere nella miseria più nera.
Dunque – similmente ad un altro capolavoro quale Dersu Uzala(tanto per rimandare di nuovo a Kurosawa) – l’opera di Miyazaki vuol dirci che si dovrebbe cercare in tutti i modi di pervenire ad un più bilanciato rapporto con il mondo naturale, garantendone la rigenerazione di modo di assicurare anche la sopravvivenza nel lungo periodo dell’umanità. Cosa c’è di più attuale? Appunto.
Principessa Mononoke rimane pur sempre un capolavoro assoluto dell’arte animata, graziato dalle stupende illustrazioni dei suoi autori, specie da quei fantastici sfondi acquarellati.
Corre l’obbligo, in chiusura, di spendere qualche parola per elogiare la magistrale colonna sonora ad opera del “solito” Hisaishi, qui particolarmente ispirato. Il tema dedicato ad Ashitaka e San riesce – grazie a quelle delicate note al pianoforte – a catturare l’essenza del tenero sentimento che s’instaura pian piano tra i due; mentre il pezzo forte, l’architrave portante della musica, La leggenda di Ashitaka, riporta immediatamente alla memoria il meglio del film, evoca l’immagine di foreste arcane e senza tempo dietro i cui veli s’agitano forze misteriose e passioni portentose, e quell’irrequieto incedere, quell’incessante brulicare, talvolta quel violento erompere di questa cosa affascinante e a un tempo terribile che chiamiamo vita.
[ 1 ] Cfr. Princess Mononoke: The Art and Making of Japan’s Most Popular Film of All Time, New York, Hyperion, 1999, pp. 6; 175-83.
[ 2 ] Il quale Kurosawa incontrò Miyazaki nel 1993, dunque prima della produzione di Mononoke, rivelandogli di apprezzare molto i suoi film e specialmente il “gattobus” di Totoro. Inoltre, quando Miyazaki gli disse di aver voluto fare un “jidaigeki” da molto tempo, Kurosawa gli suggerì l’epoca Sengoku (1467-1567) come particolarmente interessante in quanto a dispetto di quel che si potrebbe credere, dato il clima di generale incertezza e tensione, paradossalmente diverse persone allora potevano godere di maggior autonomia che non nelle successive epoche, quando ritornò l’ordine, e potevano ad esempio decidere di rivoltarsi contro il loro padrone o, nel caso delle donne, contro il proprio marito (ciò fa pensare almeno in parte alla figura di Eboshi e delle donne salvate da una vita di prostituzione e che nella città svolgono addirittura mansioni primarie, e inoltre alla simpatica figura di Toki e delle sue sarcastiche reprimende nei riguardi del marito). Poi, dopo aver aggiunto che in quell’epoca si possono rivenire tante figure à la Macbeth, gli chiese: perché non realizzi un jidaigeki di stampo shakesperiano? Ovviamente, Miyazaki non prese alla lettera questi suggerimenti, tuttavia si può immaginare lo sprone fornito da uno dei massimi cineasti giapponesi l’abbia convinto, pur nei momenti di blocco creativo, a portare finalmente a termine il suo proposito più che decennale di realizzare Mononoke. [Cfr. la traduzione inglese dell’incontro tra i due, rinvenibile qui come trascrizione]
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