Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Il film che si può dire salvò la vita a Kurosawa, il quale, a seguito del tremendo insuccesso di Dodes’ka-den, aveva tentato il suicidio, Dersu Uzala è prima di tutto uno straordinario, toccante, indimenticabile racconto di amicizia.
In realtà nelle idee del regista già dagli esordi (le memorie di viaggio del vero Arsen'ev colpirono da subito la sua fantasia, a tal punto che ne conservò vivido il ricordo e, appena gli venne offerta l’opportunità di portarle sullo schermo, non esitò ad accettare), il film rappresenta uno dei punti più alti della filmografia di un inimitabile autore, un artista capace di evocare emozioni profonde, costruire personaggi e situazioni memorabili, ed arrivare al cuore delle cose.
Perché Dersu Uzala non è solo, come detto, uno dei migliori film sull’amicizia che siano mai stati fatti ma anche uno dei migliori film sul rapporto tra l’uomo e la natura, un inno ad un mondo irrimediabilmente perduto (Dersu vive sostanzialmente in simbiosi con l’ambiente circostante e fa mostra di una sorta di animismo panteista, suscitando talvolta fin l’ilarità dei suoi accompagnatori, dai quali lo separa un abisso culturale.
Ma – come notato da molti – proprio qui risiede il punto del film: nonostante le diversità, nonostante le saltuarie incomprensioni, il capitano e il simpatico cacciatore della taiga riescono ad instaurare un rapporto di profonda e sincera comprensione, di scambio reciproco e reciproco aiuto, grazie anche allo spirito di fratellanza quasi universale che anima il “piccolo uomo”, capace di preoccuparsi persino di lasciare del cibo per chi verrà dopo nella capanna solo brevemente utilizzata e che probabilmente mai più rivedrà).
Allo stesso tempo, però, del mondo naturale non si nascondono le asperità e le minacce, andando a comporre un quadro per nulla banalmente nostalgico e in toto “edenico”, anzi (basti la terribile – ma grandiosa – sequenza della tempesta a confermarlo).
Si può argomentare «lo stile pittorico del regista trovi qui uno dei suoi vertici assoluti: ricorrendo per la prima volta al 70mm (fotografia di Fedor Dobronravov, Yuri Gantman e Asakazu Nakai), riesce contemporaneamente a esaltare la piena comunione tra l’Uomo e la Natura e a mettere a fuoco la solitudine degli esseri umani di fronte alla furia imprevedibile degli elementi» (Mereghetti). Il vero, forse irraggiungibile obiettivo, sarebbe dunque quello di pervenire ad una più bilanciata interrelazione con la natura, da rispettare ma al contempo per certi versi da temere.
Difficile da descrivere a parole, è un film da vedere e “gustare”, sperimentare anche ad un livello puramente sensoriale, tra meravigliosi paesaggi stupendamente fotografati e giustappunto immagini folgoranti (come nel dialogo tra Dersu e il capitano al tramonto dove la luna incontra il sole, il giorno incontra la notte, nella stessa inquadratura; o nella scena della camminata calata in un oceano di luce rossastra, rievocata nella locandina giapponese).
Siamo qui in presenza, ribadiamolo, di un film sensazionale, uno «splendido film d’avventura e di iniziazione, poema ecologico di un’originalità senza precedenti […] un inno travolgente alla solidarietà umana. Dersu Uzala è davvero il “testamento struggente di un gran vecchio, di un poeta del cinema” come ci dicevano i fratelli Taviani» [ 1 ].
«”La vera rivoluzione da fare oggi è quella ecologica” ci ha detto una volta Luis Bunuel. Con Dodes’ka-den (al negativo) e Dersu Uzala (al positivo) Kurosawa ha dato un suo brillante contributo alla rivoluzione vaticinata da Bunuel; non da ideologo o da moralista, ma da poeta.
“E’ eccezionale vedere un gran film su dei buoni sentimenti” rilevava acutamente Bory distinguendo tra “buoni” e “bei sentimenti”. “Disteso, sereno, controcorrente, Dersu Uzala è un bagno di rigenerazione, un canto del mondo come direbbe Giono, l’ampio poema di una natura formidabile che Kurosawa ha voluto formidabilmente presente. Con estrema naturalezza questo canto del mondo diventa qui il canto della fraternità umana”. Emulo di Flaherty e di Dovzenko, Kurosawa restituisce un’anima alla taiga, ce ne fa sentire il respiro, la magia, il canto e il grido» [ 2 ].
Al pari de I sette samurai, anche questo suo 22° film possiede indubbiamente «il fascino e la grandezza delle cose semplici e profonde»(Mereghetti), e in questa sua semplicità – che non è mai vana retorica o semplificazione – si dimostra capace di emozionare e coinvolgere oltre ogni dire nonché di lasciare un ricordo indelebile, com’è particolarità solo dei capolavori.
E alla fine non si potrà fare a meno di commuoversi al ricordo della scena dell’incontro tra Dersu e Arsen’ev dopo cinque anni di separazione (per non parlare della lancinante conclusione); o al semplice riecheggiare nella memoria delle parole “Dersu!”, “Kapitan!”.
[ 1 ] A. Tassone, Akira Kurosawa, il Castoro, 1995, p. 107.
[ 2 ] Ivi, p. 106.
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