GLI ANNIVERSARI, QUELLI BELLI
La città incantata
Vent'anni fa (precisamente il 20 luglio 2001) usciva in patria il più grande capolavoro animato della storia del cinema nipponico (e possibilmente mondiale).
La città incantata. Sen to Chihiro no kamikakushi (“La misteriosa sparizione di Sen e Chihiro”).1
Il “testamento artistico” d’una delle più eccezionali figure dell’animazione d’ogni tempo. Il più alto risultato conseguito dal Maestro. Il suo opus magnum. Ed è tutto dire.
In quanto, per riuscire a svettare in una simile folgorante filmografia è evidente un film debba possedere delle qualità che non ci si deve far remore a definire uniche. E infatti appunto di questo si tratta: di un unicum. Di un’opera sostanzialmente perfetta e irripetibile, di un vero – inarrivabile – vertice della cinematografia. Cali il sipario: si potrebbe quasi chiuderla qui.
La città incantata ingloba gran parte dei topoi più cari al regista e rappresenta con ogni probabilità la massima espressione dell’arte sua e degli altri animatori dello Studio. Un tripudio sconfinato di trovate magistrali e parentesi visionarie. Un inno all’amore, all’amicizia, alla natura, all’arte. Alla fantasia. Un’opera ispirante. Commovente. Per ciò stesso, “eminentemente” miyazakiana.2
Sulla quale vale la pena – in questo ventennale – di spendere qualche parola. E’ già stato detto e scritto tantissimo al riguardo, certamente, ma cerchiamo lo stesso di ripercorrere sinteticamente le ragioni per le quali si può dire il film costituisca una pietra miliare inscalfibile.
I. UN VIAGGIO IMMAGINIFICO (TRA CARTA E PIXEL)
C’è poco da fare. La città incantata è – prima d’ogni altra cosa – un grandissimo capolavoro sul piano visivo. Basterebbe questo semplice fatto a garantirne lo status, e di certo è più che sufficiente ad imprimere a fuoco nella memoria degli spettatori una serie di immagini d’una bellezza disarmante. Come dimenticare, dopotutto, la comparsa, nel folto del bosco, di quello strano edificio; la metamorfosi subita dai genitori di Chihiro; l’attracco quasi sospeso nel tempo e nello spazio del traghetto al calar della notte; l’incontro con lo spirito del lago inquinato; il silenzioso scivolare sul pelo dell’acqua del treno… Immagini indimenticabili, indelebili. Arte allo stato puro.
Per via del perfezionismo fin “maniacale” del regista, la qualità delle illustrazioni fatte a mano si mantiene su un livello costante, altissimo. Dando vita ad un trionfo di animazione tradizionale; integrata dalla CGI (come ad es. nella resa delle onde coi loro innumerevoli riflessi; o del vapore alle terme). CGI già impiegata con successo ne La principessa Mononoke (in scene come quella iniziale dell’attacco ai danni di Ashitaka; o più in generale per la colorazione).3
Nella visione dell’autore, tuttavia, la computer graphic non prende mai il sopravvento – fagocitando in toto il “procedimento d’una volta” – ma rimane anzi ancorata saldamente all’animazione appunto tradizionale (o cel animation), della quale si fa come ancella, nella prospettiva di aumentarne la portata e le capacità rappresentative (già, a ben vedere, pressoché sconfinate se poste in paragone con quelle del cinema live-action). Difatti, spesso e volentieri neppure se ne nota la presenza, di tali interventi digitali, e gli sfondi mantengono la consueta grana di artigianalità, rimangono i “soliti” meravigliosi dipinti acquarellati di sempre, colmi di dettagli, colori, preziosismi.
Vecchia scuola, diciamo, e la differenza la si percepisce eccome. Nulla di più distante dagli sfondi e pupazzetti computerizzati, dall’aspetto spesso “plasticoso”, sintetico e “bambolottico”, completamente egemonizzanti l’animazione americana. De gustibus, naturalmente. Ma per chi scrive la semplice consistenza pittorica ormai d’altri tempi di queste immagini risulta impareggiabile. E costituisce – ribadiamolo – di per se stessa una ragione più che sufficiente a porre La città incantata nell’olimpo della cinematografia, nella categoria delle opere più visivamente clamorose della storia.
II. (E POI) UN CALEIDOSCOPIO DI SIGNIFICATI
Ciò non bastasse, interviene comunque di buon grado l’aspetto narrativo ad elevare in misura definitiva la statura del film, trasportandolo istantaneamente nella schiera dei capolavori tout court. Dei capolavori assoluti.
E’ impossibile non vedere, d’altra parte, come il film rappresenti una critica piuttosto serrata sì al Giappone ma per esteso anche al mondo contemporanei. Il tutto è trattato ovviamente metaforicamente – talvolta con un simbolismo più evidente, talaltra con uno più sottile –, riuscendo ad evitare ogni didascalismo e bacchettoneria, ogni lungaggine e smanceria, ma il fronte se vogliamo filosofico-pedagogico è lampante, da tenere sempre ben presente e costituisce l’ulteriore motivo d’interesse di un’opera che ad ogni nuova visione pare in grado di regalare una nuova suggestione, un nuovo messaggio, una nuova stratificazione concettuale.
Preminenti si dimostrano senza dubbio la critica al consumismo (e dunque per esteso al sistema economico moderno), all’individualismo estremo e all’indifferenza nei confronti dell’ambiente (questi ultimi due inevitabili portati del sistema stesso).
Per quanto concerne il primo, sin dall’incipit c’accorgiamo di come i genitori di Chihiro paiano non avere freni. Il padre – si evince dalla risposta sbrigativa che dà alla figlia preoccupata – è uno convinto che tutto si possa risolvere con una carta di credito: non guarda in faccia nessuno e intende unicamente soddisfare la propria ingordigia, esattamente come la madre.
Chiarissima l’allegoria d’un mondo schiavo del denaro, rapito da un’illusione di benessere che oltre ad essere solo materiale e vorace, risulta altresì fragile e momentaneo (“scoppia la bolla e tutto collassa”, per così dire: il Giappone – irretito dalla promesse del capitalismo predatorio – dopo il periodo di fugace prosperità vede lentamente peggiorare i pronostici dell’economia e svanire l’ottimismo dei decenni del boom [echi simili si possono riscontrare nell’animazione del Paese del sol levante almeno dai tempi di Akira]).
Il sistema sembra essersi inceppato (o non ha mai funzionato), l’ambiente è quasi irrimediabilmente compromesso, la vita è ridotta ad un mero interscambio economico. Si pensa esclusivamente a soddisfare le proprie voglie, illudendosi di poter acquistare la felicità e che ogni cosa sia appunto in (s)vendita. Ciononostante – o forse proprio per questo (ovvero, per placare un malessere comunque alla lunga ineludibile, visto che quella pretesa “felicità” è in realtà effimera e il desiderio della stessa inesauribile) – si è continuamente incoraggiati a consumare, consumare, consumare. L’appagamento è ad una sola banconota di distanza. E la rovina – visto lo stato delle cose – è dietro l’angolo, e difatti gli stessi genitori della protagonista finiscono per esser tramutati in maiali.
Ad ogni modo, il problema sostanziale è appunto che ognuno pensa solo per sé e nessuno si dimostra capace di interagire davvero cogli altri (guarda caso, i genitori di Chihiro non sono per nulla in grado di capire e comunicare con la figlia, ma neppure l’uno con l’altra). Questa incapacità di interfacciarsi ad un livello profondo con le persone e per esteso anche con l’ambiente circostante, produce una situazione per la quale si smarriscono (senza neppure accorgersene) le ragioni del vivere.
Non ci si rende conto del fatto che ciò che rende la vita degna d’esser vissuta è proprio il rapportarsi cogli altri, l’amare, il condividere, il soffrire e pure il rialzarsi, ma sempre insieme; non di certo l’acquistare la nuova spaziosa casupola o il nuovo scintillante gadget tecnologico. E se la società “umana” è allo sfacelo, persino il “mondo degli spiriti” si mostra avviluppato da identiche meschinità, da avidità ed egoismo.
La stessa protagonista, all’inizio, viene raffigurata come una ragazzina un po’ viziata ed egocentrica (un sintetico attacco alla percepita vacuità della “shojo”, il prototipo della “nuova ragazza” del Giappone contemporaneo che – libera, indipendente ed emancipata come mai prima nella storia [e ci mancherebbe] – è stata però contagiata dallo stesso morbo consumistico-individualista della sua controparte maschile).4 Di qui la necessità d’intraprendere un percorso di crescita che la porterà nel finale a diventare uno dei pochi personaggi interamente positivi.
Nonostante poi la nota conclusiva appaia all’insegna della speranza (nelle nuove generazioni, prima di tutto), non bisogna dimenticare che un danno in parte irreparabile è già stato fatto. L’ambiente naturale – sottoposto a shock continui, trattato alla stregua di un’inanimata ed illimitata fonte di “capitale” e poi d’una comoda discarica – è ormai radicalmente stravolto e in certi punti devastato. Pure per la stazione termale “d’altro-mondo” diventa difficilissimo risanare la ferita (vedi, evidentemente, la questione dei due laghi all’interno del film: il primo senza nome e ridotto dall’inquinamento quasi ad una distesa di liquame; l’altro scomparso del tutto per far spazio ad un complesso residenziale…). E’ ancora possibile porre un freno al disfacimento?
Sì, sembra voler dire (seppur a denti stretti) il capolavoro miyazakiano. Ma solo a patto che l’umanità intera decida di cambiare rotta. Ecco, dunque, che il viaggio di formazione d’una ragazza si erge a metafora del percorso di maturazione (soprattutto intellettuale) che dovrebbe intraprendere la società tutta, prima che sia troppo tardi.
Quindi, tornando alle “origini”: sì. Sì, c’è un prima e un dopo questo film. Sì, La città incantata – per quelle che abbiamo discusso ed altre mille ragioni – si conferma a vent’anni di distanza un’opera capitale, imprescindibile, finora ineguagliata. Un monumento filmico all’arte dell’animazione.
Non sono più un bambinetto, eppure… eppure quando in vena mi scendono ancora le proverbiali lacrimucce. Accade puntualmente, anche se l’ho visto decine di volte, anche se ne conosco a memoria interi passaggi: al momento in cui si palesa la menzionata sequenza del viaggio in treno sul ciglio dell’acqua scatta la commozione.
E vince Miyazaki.
E vince Hisaishi, con la sua stupenda colonna sonora (un più perfetto commento alle immagini si fa fatica ad immaginarlo).
E vincono tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa perla intramontabile.
Vince lo Studio Ghibli.
Vince, in due parole, il grande cinema.
P.S. “caciarone” [della serie “le cose strane”]:
8,6 SU FILMTV; 8,6 SU IMDB; 8,6 SU RT…
Che qualche strana entità algoritmica intenda dirci qualcosa?
1 Nel titolo originale si parla – giustappunto – d’una “kamikakushi”, ovverosia di un’inspiegabile scomparsa ricondotta nel folklore all’operato di spiriti (kami) contrariati.
2 Con buona pace di Shinkai, Hosoda e proseliti vari…
3 Vedi H. MIYAZAKI, The Art of Spirited Away, Londra, Viz, 2003, pp. 182 e sgg.; e MIYAZAKI, The Art of Princess Mononoke, Londra, Viz, 2004, pp. 167 e sgg.
4 Per un approfondimento al riguardo, si veda S. J. NAPIER, Anime from Akira to Howl’s Moving Castle, New York, Palgrave MacMillan, 2005, pp. 183-86.
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