Per lungo tempo, ho smesso di scrivere sul sito. O, meglio, di creare post originali, perché la mia attività – commenti, consigli e di natura polemica, soprattutto – non si è mai veramente fermata. Il sito ha avuto numerose svolte, in questi anni: da una realtà “trina” ad una voce unica, ma sempre supportato dagli affetti e dai numerosi iscritti, che hanno aumentato il volume di recensioni e playlist.In fondo, filmtv.it ha saputo creare una voce polifonica e va dato merito ai soci fondatori ed agli iscritti di averlo reso un luogo democratico. Questo preambolo non è la giustificazione della mia assenza. Tuttavia, la nuova copertina, che di fatto propone contenuti della rivista, con articoli tratti dalla stessa, ha parzialmente nascosto – o, se si preferisce, posto in secondo piano – i contenuti degli utenti, spesso più ricchi di significato perché in fondo contributi di appassionati, a volte poco dentro la realtà produttiva e, certamente, poco disponibili a compromessi, quando si tratta di valutare un film.
Proprio quest’ultima osservazione spinge a riflettere, ancora una volta, sul ruolo della critica. E l’occasione è ghiotta, perché al centro possiamo porre l’ultimo film di Luca Guadagnino: Challengers. Le voci della critica italiana, non tutte in verità, hanno salutato in maniera piuttosto buona l’ultima opera del regista siciliano, che, non va dimenticato, è un film su commissione. A ben guardare, però, si tratta di un film modesto, con pochissimi sprazzi di luce propria, e molti rimandi filmici – ma non scomodiamo Jules e Jim, per carità – talvolta scontati e svolte narrative, se così si può dire, prevedibili. Ciascuno potrà obiettare, con le proprie osservazioni che, alla lunga, potranno soddisfare chi le asserisce, certo di aver visto in sala un capolavoro, e di non aver speso male i soldi del biglietto. Ma il punto è tutto qui: una lettura semplicistica, che definisce il film “bello” ha un senso? Se la critica, pur senza orientare o prendendo un abbaglio colossale sostenendo il contrario (che è in effetti ciò che può anche succedere a chi fa davvero questo mestiere) abdica al proprio ruolo e si adegua ai commenti di massa, magari scritti in fretta e furia sui social, non è più critica.
Un esempio è dato da quest’articolo, firmato, apparso su “Il Sole 24 Ore”, in cui, senza spiegare perché, si titola “ottima regia”.
https://www.ilsole24ore.com/art/il-grande-slam-guadagnino-AF7v3FtD
Già, ma quali sono le basi per cui una regia dovrebbe essere ottima ed un’altra pessima? Non c’è risposta, ovviamente. Ma chi scrive di cinema per professione deve in ogni caso sforzarsi per darne una definizione.
Ad un’analisi più approfondita, invece, le pecche dell’operazione vengono fuori tutte. È ancora un’osservazione americana ad essere puntuale:
Secondo il critico Aldo Fittante – uno che non le manda mai a dire – l’argomento va visto sia sotto l’aspetto “Censura” ( e su questa rivista è ben noto il caso di un redattore che alcuni fa fu invitato dal regista futuro premio Oscar a togliere certe foto dal sito, onde evitare di comprometterne l’ascesa) sia dall’aspetto “Autocensura”. Ed è questo il capo d’accusa più grave. I critici di mestiere, quelli cioè che per vivere esercitano con la penna la propria osservazione e, valendosi dei propri studi, delle proprie capacità, dell’analisi e del confronto tra opere viste, hanno un grande peso sulle spalle: stimolare, anche attraverso giudizi negativi, la crescita dello spettatore. Educare alla visione, quando non “educare all’Immagine” (oggi il motto scolastico per eccellenza) significa vivisezionare il prodotto, se possibile cercarne la verosimiglianza, andare oltre il contenuto stesso, fino a chiedersi il perché di quella determinata scena. Era utile? L’opera sta nella vita? La giostra – il termine è ormai diffuso – con cui tutti i nostri maggiori scrittori si ritrovano fianco a fianco con gli autori alle anteprime, ai festival, passando da Cannes a Venezia e poi, via Roma, a San Sebastian, a Torino, a Berlino, per qualcuno al Sundance, e giù giù fino ai David e poi ai Nastri, crea una sorta di “collusione” tra chi il cinema lo fa e chi il cinema lo osserva. Non basta che ci sia un contenuto importante – e d’altra parte, ogni film contiene un messaggio – ma occorre che tutto sia funzionale a quello stesso contenuto.
Il risultato di questo assecondare il gusto del pubblico è la scomparsa di recensori obiettivi e, chiaramente, la futura scomparsa di una letteratura cinematografica solida.
Se dobbiamo soffermarci all’anno trascorso e ai primi mesi del 2024 non possiamo non notare che ci sono stati massicci esordi di attori: sono, checché se ne dica, tutti da bocciare. Un tempo, sarebbe stato quasi impossibile passare dietro la MdP dopo aver trascorso la vita davanti (lo si poteva domandare, finché era in vita a Nino Manfredi, che dopo l’esordio con premio a Cannes di Per grazia ricevuta, 1971 – film peraltro da annoverare tra quelli di cui nessuno parla più - ribadiva come gli fu impossibile girare ancora, e dovette aspettare dieci anni per il deludente Nudo di donna del 1981), oggi avviene sistematicamente e con facilità. Perché, più semplicemente, i produttori possono attingere ai fondi dell’opera prima, le strutture preposte – 01 Distribution e c. – alla diffusione promuovono il volto noto e in tv è più facile mostrarsi. Va qui ribadito che l’agguerrita pattuglia di amanti ed iscritti su questo sito è meno accomodante e non è un caso che l’ultima opera di Paola Cortellesi (C’è ancora domani, 2023), il cui plauso unanime non ha prodotto premi unanimi , con conseguente livore mal celato di chi li aspettava, è ben oggettivato dai voti delle cosiddette firme (le scene del confronto tra il marito della protagonista e il padre o la passeggiata della figlia con i futuri generi avvengono senza la presenza di Delia, il personaggio principale presente sempre in tutte le altre scene e questo è un errore fondamentale in un film che reclama la lezione realista per sé e il conseguente pedinamento, quelle classiche scene che andrebbero tagliate e magari riproposte come extra ma tant’è: fanno più rumore di tutto il resto del film…)
Sul lungo periodo, tutto questo nuoce terribilmente al cinema stesso.
Infatti, tempo addietro, il compianto Morandini osservava con dispiacere che “non c’è più posto per i critici, ed è un vero peccato, perché essi restano gli interlocutori privilegiati tra i fruitori e produttori di opere” e oggi gli fa eco lo stesso Aldo Fittante, osservando che “(…) i critici non li vuole più nessuno”. Il riferimento è, s’intende, alla composizione delle giurie nelle manifestazioni principali. Nel 1977, ad esempio, al Festival di Cannes, la composizione dei giurati era la seguente: Pauline Kael, giornalista (e critica cinematografica), Jacques Demy, regista, Anatole Dauman, produttore, Carlos Fuentes, scrittore (ma anche drammaturgo e saggista), Benoite Groult, scrittrice (e attivista),N’Sougan Agblemagnon, scrittore (e sociologo e critico), Marthe Keller, attrice, Yuri Ozerov, regista. Come noto, presidente di quella giuria, che assegnò la Palma ai Fratelli Taviani (Padre padrone) fu Roberto Rossellini.
Questa, invece, la composizione della giuria di Cannes 2024: Greta Gerwig, regista, presidente, Juan Antonio Bayona, regista, Hirokazu Kor-eda, regista, Nadine Labaki, attrice e regista, Lily Gladstone, attrice, Eva Green, attrice, Omar Sy, attore, Pierfrancesco Favino, attore, Ebru Ceylan, sceneggiatrice (che fu attrice due volte per ristrettezze di budget, nei film del marito, Nuri Bilge Ceylan).
Come a dire: il cinema lo facciamo e ce lo premiamo. Da soli. Ma questo sistema è davvero credibile? No, sicuramente e, nonostante le affermazioni contrarie, produrrà comunque opere di cui resteranno poche tracce. Tuttavia, racconta l’inversione di tendenza: da un cinema democratico ad un cinema, di fatto, prigioniero dei suoi stessi autori, allergici ad una critica esatta. Tanto che, per non rischiare mai, proprio il maggior festival occidentale chiama in rappresentanza dei relativi Paesi, sempre gli stessi registi, anzi, più spesso, li progetta un paio di anni prima insieme alle case di produzioni per stabilire una scaletta senza particolari scossoni.
E il pubblico? Nel 1958, un’inchiesta di Giacomo Gambetti interrogava i maggiori critici dell’epoca: Guido Aristarco, Umberto Barbaro, Giuseppe Berto, Pietro Bianchi, Giulio Cesare Castello, Luigi Chiarini, Fernaldo Di Giammatteo, Giuseppe Marotta, Domenico Meccoli, Morando Morandini, Renzo Renzi, Mario Verdone, Dario Zanelli per cercare di stabilire “se ci fossero rapporti tra la critica cinematografica e lo spettatore”, non solo a titolo provocatorio. E se il napoletano milanese Marotta sostenne che “il critico critica e lo spettatore legge (..)”, Tullio Kezich, sullo stesso argomento – ma tutti esposero in maniera necessaria il peso di un’esigenza: il pubblico è “meno bovino di quello sembra ma, pur rispettandolo, occorre che il critico ne indirizzi il gusto (Castello)” - ebbe a concludere: “Il critico può imparare dal pubblico, e viceversa. Guai però se il critico si fa confondere dalle ragioni del pubblico o se lo spettatore comune accetta senza riflettere le indicazioni della critica”.
Questo pone una certa distanza, necessaria, tra l’uno e l’altro: nell’ultimo film di Riccardo Milani, Un mondo a parte (2024), nelle prime scene c’è un maestro (interpretato dall’attore Antonio Albanese) che, chiamato dal preside, si alza dalla cattedra e si reca nella stanza del dirigente. Basterebbe questo ad abbandonare la sala, ben sapendo che nessun insegnante può lasciare la classe incustodita e sarebbe stato obbligatorio andare al colloquio dopo l’ora di apprendimento (al suono della campanella). D’ora in avanti, il pubblico può anche apprezzare il film, il critico sicuramente no. D’altra parte, nelle interviste televisive e negli incontri degli attori (con Albanese c’è Virginia Raffaele, coprotagonista) si sottolinea molto la necessità di permettere a piccoli centri di sopravvivere ed Opi ( dove è stata girata la pellicola), in Abruzzo, è ad alto rischio di abbandono e bassa natalità. Ma questo è un tour di promozione paesaggistica, che ben poco ha a che vedere con il cinema, la cui funzione principale è narrativa, non descrittiva!
Il mondo del cinema ha ancora – e tanto – bisogno della critica, quello del cinema italiano ne ha doppiamente bisogno. E, lo si voglia o meno, le registe e i registi devono cominciare ad accettare le osservazioni dei professionisti. Altrimenti si finisce con il diventare ciò che invece non si vuole ammettere : dei cattivi maestri.
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