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The passenger, Cormac McCarthy
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È con grande emozione che ci accorgiamo, pagina dopo pagina, di come Cormac McCarthy ci stia facendo entrare in una dimensione narrativa simile a quella di Suttree, il romanzo forse più bello e meno conosciuto dello scrittore americano. Una dimensione che riconosciamo non tanto dai contenuti del libro (che variano in maniera sorprendente dalla fisica alle corse automobilistiche, dalla bomba nucleare alla musica, dalle immersioni subacquee alla matematica) quanto dalla forma frammentata e piena di ellissi (più fra i capitoli che tra i paragrafi, come succedeva invece in The Road) da colmare con la propria immaginazione o sensibilità; un luogo deputato mentale, lo spazio del racconto, in cui dare vita ad una bizzarra e stravagante galleria di personaggi, reali nella finzione quanto manifestazioni allucinatorie della psiche di una ragazza, capaci di discutere dei più svariati argomenti, passando da un linguaggio tecnico, filosofico e ricco di dettagli ad uno più volgare, sboccato e incredibilmente divertente. I dialoghi hanno sempre la magia di non farci sapere in quale direzione andranno.

Per il suo ultimo romanzo (la cui coda si intitola Stella Maris, da poco pubblicato in italiano), Cormac McCarthy sembra voler tornare a qualcosa che gli è caro, un mondo di parole finemente cesellato, che sembra diramare le sue radici non solo nella conoscenza scientifica e accademica ma anche (e soprattutto) in quello che è l’animo umano, nelle sue contraddizioni, nella sua ombre e nella sua luci. E l’amore, con le sue brevi e struggenti descrizioni, pare essere il motore segreto delle azioni, l’amore e la sua perdita, il lutto e la sua lunga e forse impossibile elaborazione. McCarthy costruisce situazioni, scene quasi filmiche nella loro intima matrice visiva, per poi tornare sempre alle parole, al linguaggio verbale, maneggiato dall’abilità di un esperto e meraviglioso scrittore, che ti si aggrappa al cuore, sollecitando emozioni e pensieri, perché l’intelletto non rimanga inerme, ma possa collegare, quando possibile, la speculazione cerebrale ai palpiti dei sentimenti.

The passenger è anche la storia di una misteriosa fuga, da nemici tanto invisibili quanto presenti, un viaggio indietro nella memoria, nei ricordi, in ciò che di personale è nascosto tra le pagine, con alcune frasi e periodi che appaiono come se fuoriuscissero dalla antica saggezza di qualche sperduto eremita, un anacoreta che, anche se ormai lontano dal mondo, ne ricorda l’immagine, la visione oltre il velo delle illusioni ammantata da una arcaica spiritualità, sapendocela raccontare e sentire, perché la vita e il suo doppio letterario siano ancora più intrisi di qualcosa di essenziale, umano, autentico e poetico.

E così seguiamo il protagonista, Bobby Western, nel suo tentativo di liberarsi dai fantasmi del passato e del presente, in un plot quasi noir per le sue tinte di mistero e possibile violenza, ambiguità e inquietudine, attraverso una temporalità infranta e malleabile, dove affiorano le immagini della sorella morta (Alicia) e le pagine, scritte in corsivo, dei suoi strambi incontri con creature forse immaginarie, saltimbanchi e parodie di guitti medievali.

Rimane l’idea, la parvenza di un mondo ostile, indifferente alla nostra presenza, in cui passiamo e da cui siamo attraversati, a volte senza meta, altre con la speranza di averne una. Rimane la bellezza remota e vertiginosa di alcune pagine, di echi di altre opere e quasi la sensazione, per chi ha amato McCarthy, che lui ci stia salutando, non direttamente, ma attraverso l’arte della scrittura, che lui ci prenda un'ultima volta per mano because that’s what people do when they are waiting for the end of something.

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