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Esiste un posto in mezzo al mare dove tira sempre il vento. È l’isola di Gotland, territorio svedese al centro del Baltico. È grande più o meno come l’isola di Mallorca, nelle Baleari. Ma a Mallorca vivono quasi 1 milione di persone, su Gotland 58 mila: c’è tanto spazio e tanta solitudine, se la cercate. E vaste piane spoglie che degradano verso il mare freddo. L’isola vive di agricoltura, produce energia eolica e ci si va per turismo, anche cinematografico. A nord dell’isola, separata da un braccio di mare largo 500 metri, c’è infatti Fårö, un’altra isoletta. Chi ama il cinema la conosce bene: è l’isola di Bergman. Di recente le hanno dedicato anche un film.

Andrej Tarkosvky (o Tarkovskij, dipende da che traslitterazione scegliete) non poté andarci su Fårö. Era russo, anche se profugo e dissidente, e Fårö era una riserva militare. Eravamo nel pieno della Guerra Fredda e quel posto in mezzo al mare è importante: ci si controlla il Mar Baltico da lì.

Così quando Bergman lo invitò a girare lì il suo film dovette fermarsi sull’isola maggiore: Gotland, appunto. Tarkosvky aveva lasciato nel 1982 la Russia (allora era l’URSS), ma ci viveva faticosamente da anni. In fondo già il suo primo film, L’infanzia di Ivan (che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1962), fu visto male. Un film sulla insensatezza della guerra, con protagonista un ragazzino soldato dodicenne. “Decadente, calligrafico”. Anche la sinistra italiana gli diede addosso. A vedere il piccolo Ivan oggi vengono in mente i volti bambini dei soldati russi che muoiono - o uccidono - in Ucraina.

Ma torniamo a Gotland. Quando Tarkosvky vi si recò nel 1985 a girare il suo film non sapeva che sarebbe stato l’ultimo. Il regista sarebbe morto nel novembre dell’anno dopo, a Parigi, di tumore. Eppure quel film, il cui titolo italiano è Sacrificio (Offret in svedese, la lingua in cui il film è stato girato), passerà come il suo testamento. Era destinale. Pensate alla circolarità del caso: nella prima scena del suo primo film c'erano un ragazzino e un albero e così pure nell’ultima scena del suo ultimo.

È da un po’ che penso a Sacrificio. È un film difficile, è un film terribile. È la storia di un ex attore, un intellettuale, interpretato da Erland Josephson, che vive con moglie e figlio in una bella casa svedese di legno sull’isola, vicino al mare. È arrivato il suo compleanno, ci sono alcune visite. Ma all’improvviso la radio annuncia la cattiva novella, la peggiore di tutte: un attacco nucleare è imminente, senza senso (che senso puoi mai esserci in un attacco nucleare), senza che si sappia quali sono le parti in guerra. Che conta, del resto? Sarà presto morte, sarà distruzione, sarà la fine. Il personaggio cade nel terrore. E prega, la notte. Prega nel buio Dio affinché salvi, non necessariamente lui, ma l’esistenza stessa del mondo. E nella sua preghiera gli offre tutto quello che ha: offre persino, come Abramo, suo figlio.

Signore, liberaci in questo tempo terribile. Non lasciare che mio figlio muoia, né i miei amici, mia moglie. Coloro che Ti amano e credono in Te e coloro che non credono in Te perché sono ciechi e non ti hanno rivolto il pensiero [...] Perché questa guerra è la guerra finale, una cosa orribile e dopo non ci saranno né vincitori né vinti, né città né paesi, né prati né alberi o acqua nei pozzi o uccelli nei cieli. Ti darei tutto quello che ho. Ti darei la mia famiglia, che è ciò che amo. Distruggerò la mia casa, ti offrirò mio figlio. Resterò in silenzio e mai più parlerò ad alcuno. Romperò ogni legame con la vita. Se Tu solo riporterai tutto come era. Come era stamane e ieri: ma liberami da questa mortale, nauseante, animalesca paura. Tutto! Signore! Aiutami. Farò tutto ciò che Ti ho promesso.

È la sua preghiera. Valeva la pena di riportarla. Non importa qui ora dire cosa succederà poi nel film. Risponderà Dio? Salverà il mondo? Esigerà un sacrificio? E cosa prenderà per sé delle cose offerte?

È un film cupo e complesso Sacrificio: si è scritto molto sul suo significato. Ma è il testamento di uno dei più grandi registi di sempre. Un russo, scappato da un regime, e angosciato dalla sopravvivenza del mondo dell’uomo. C’è qualcosa che ci parla, lo sentite anche voi. Non smetterà mai di parlarci, ma ora ci parla di più.

In questo momento l’isola di Gotland è piena di soldati svedesi. Se ne erano andati quasi tutti, dopo la fine della Guerra Fredda. Ma poi sono tornati, dal 2014, da quando Putin ha invaso la Crimea. In questi giorni si esercitano, rinforzano le difese abbandonate. Già quattro volte aerei russi ne hanno violato lo spazio aereo. E la Svezia, rompendo la sua neutralità, ha chiesto di entrare nella Nato. Lo sapete: sono le cose di questi giorni.

È anche di questi giorni un’altra cosa. Anzi è proprio di oggi, giovedì (per me che scrivo). Al Festival di Cannes che si è inaugurato l’altro ieri (con l’apparizione in video, a sorpresa di Zelensky, ma non era poi sorprendente) proietteranno Mariupolis 2. Di Mariupolis 1 vi avevo già parlato. E vi avevo raccontato di come Mantas Kvedaravicius, il regista lituano, sia morto ucciso dai soldati russi. E di come la sua compagna Hanna Bilobrova ne abbia riportato a casa il cadavere e con il cadavere il suo film che oggi, montato in fretta e furia, sarà proiettato a Cannes.

Non ha una trama il film: è un documentario. La produzione lo ha accompagnato presentandolo solo con una nota. Non so se siano parole di Mantas, ma non so immaginare di chi altri possano essere. Non so se Mantas non pensasse, come Tarkovsky, che questo sarebbe stato il suo ultimo film. Sono parole sorprendenti. Permettetemi di mostrarvele.

Lo sai qual era la cosa più incredibile di Mariupol? Che nessuno aveva paura della morte, anche se tutti pensavano che ne avrebbero avuta. La morte era già lì, e ognuno voleva morire con onore. Le persone si aiutavano le une l’altre, anche a rischio delle loro stesse vite. Fumavano per strada e chiacchieravano, anche se le bombe cadevano. Il denaro smise di esistere e la vita era troppo corta per ripensarci e ciascuno era felice con ciò aveva, diventando una versione migliore di se stesso. Non c’era più passato, né futuro, né giudizio, né fraintesi. Era il paradiso all’inferno. Era il profumo del valore nudo della morte. C’era la vita, là.

Solo una cosa sottolineo, in mezzo a tanta bellezza: una bellezza così bella da togliere il dolore, da sopprimere la tragedia. Diventare la versione migliore di se stessi. Ecco.

Per non lasciarvi così voglio però aggiungere un secondo finale. Gotland è stata anche l’isola di Pippi Calzelunghe, eroina della mia infanzia. È lì che si trovava Villa Villacolle, la sua casa. Ora l’hanno pittata e infighettata e i turisti fanno le foto: era più bella nei telefilm originali, un po’ sgangherata.
Nota per il futuro: ricordarsi di capire bene quale sia la versione migliore delle cose. E soprattutto di se stessi.

 

 

Riferimenti.

Trovate Sacrificio su YouTube. Sia può vedere sia in lingua originale con sottotitoli in inglese, sia in versione doppiata in italiano.

Trovate anche Pippi Calzelunghe. Il primo episodio della serie del 1969 si chiama proprio Villa Villacolle.

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