27 marzo 2022 (alla vigilia della cerimonia)
Non sono così bravo a stendere dei pronostici. Ragion per cui mi limiterò a commentare i pronostici più affidabili che ho trovato in rete (quelli di badtaste.it) sui più probabili vincitori dei premi Oscar 2022, provando a cavarne un discorso più ampio sull'attuale situazione in quel di Hollywood, essendo da sempre gli Oscar, come sappiamo, una forma pubblica e consapevole di autorappresentazione messa in atto dall'industria cinematografica statunitense.
Secondo questi pronostici, il film che uscirà vittorioso dalla 94esima edizione degli Academy Awards sarà Dune (in corsa con dieci nomination complessive). Non vincerà come miglior film, ma dovrebbe essere quello che si porterà a casa il maggior numero di statuette. Ossia gran parte dei premi tecnici (sei, per la precisione): montaggio, fotografia, scenografia, effetti visivi, sonoro e colonna sonora originale (esclusi i costumi, che andrebbero a Crudelia).
In questo modo, la space opera firmata da Denis Villeneuve diventerebbe il corrispettivo di ciò che era stato Mad Max: Fury Road nella cerimonia del 2016, ovvero un blockbuster autoriale che in ambito premi (ma anche a livello di appeal sulla massa) ha puntato tutto – con successo – su una confezione di prim'ordine.
Capiamoci: sul piano degli introiti, Dune ha comunque giocato in un campionato che non ha nulla a che spartire con quello di uno Spider-Man: No Way Home (nominato per l'effettistica e divenuto in breve tempo il sesto incasso della storia del cinema), ma insieme a prodotti di ambizioni analoghe (come Tenet o The Batman) contribuisce a tenere aperto un orizzonte che andrebbe perseguito anziché abbandonato, perché è probabile che sarà quello sul quale, a lungo termine, si giocherà la sopravvivenza della sala in termini di grandi numeri e contemporaneamente del cinema (nel senso stretto del termine) da fruire sul grande schermo.
Dune è infatti quel genere di film che le grandi major hollywoodiane dovrebbero imparare a produrre di più: la qualità (l'impronta artistica e professionale) che si intreccia alla quantità (lo spirito commerciale e popolare). È il modello, per capirci, de Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (all'epoca trionfatore assoluto con undici statuette), ma anche di Titanic (sempre undici statuette), per restare nel bacino dell'altissimo budget. Oggi, però, un simile en plein sarebbe inimmaginabile, sia per la granulosa frammentazione dell'offerta che per la drastica crisi delle certezze che è in atto sia fra il pubblico che dentro l'industria.
Va notato, infatti, che tutti gli altri pluricandidati di questa edizione, togliendo Dune, risultano sbilanciati sulla qualità, essendo stati dei flop (talora sanguinosi) ai botteghini di mezzo mondo, da West Side Story (il quale, a fronte di sette candidature, finirà probabilmente per accaparrarsi soltanto il premio alla miglior attrice non protagonista, blindato da mesi sul nome di Ariana DeBose) a La fiera delle illusioni – Nightmare Alley e Belfast (il primo con quattro e il secondo con sette nomination ottenute, ma entrambi destinati a restare a mani vuote, almeno stando alle previsioni).
È forse da imputare al COVID la colpa di queste scellerate débâcle in sala? A onor del vero, come spesso è stato detto, la pandemia ha soltanto accelerato un processo che già era in atto da un po' di anni; un processo che sta spingendo una nutrita di schiera di autori un tempo leader – o quantomeno abbastanza rodati – al box office a migrare sulle piattaforme per vedere finanziati e/o distribuiti i loro progetti: si pensi a Guillermo del Toro (regista di Nightmare Alley) e al suo Pinocchio di futura uscita per Netflix; ma l'elenco, in effetti, potrebbe essere sterminato (dal Noah Baumbach di Storia di un matrimonio al Martin Scorsese di The Irishman e del prossimo Killers of the Flower Moon, che sarà rilasciato su Apple TV+).
Recentemente, in occasione dell'uscita di The Tender Bar, Ben Affleck ha ipotizzato in un'intervista che se il suo Argo uscisse oggi, all'interno di uno scenario rivoluzionato dallo streaming e ormai dominato dai colossi dell'entertainment, magari arriverebbe comunque agli Oscar ma senza passare per la sala (e fu soltanto dieci anni fa che Argo vinse come miglior film dopo un incasso di quasi duecento milioni e mezzo di dollari). Quanto avrebbe racimolato se fosse uscito anche solo nel 2019? Fatto sta che The Tender Bar, diretto da George Clooney e piazzato direttamente su Prime Video, agli Oscar del 2022 non ci è arrivato. Pur essendo, peraltro, un perfetto (e godibile) Oscar movie, cioé un film orchestrato anche (non solo) in ottica premi. È dunque evidente che c'è qualcosa che non funziona (più) come dovrebbe.
Il vero nuovo Argo è certamente Don't Look Up: se fosse uscito dieci anni fa, con un cast di tale richiamo e fama avrebbe (forse) raggranellato anche più del film di Affleck. E sarebbe approdato in sala, naturalmente. Le quattro nomination della satira politically incorrect di Adam McKay sono però destinate inesorabilmente ad andare a vuoto, in quanto dettate più dal rimbalzo social che da un autentico interesse in sede critica (almeno sul suolo americano, dove il film ha ricevuto opinioni contrastanti). E questo dice molto: da un lato gli "esperti" che mostrano ritrosia, dall'altra i "comuni mortali" che invece apprezzano.
Parrebbe già scritta su pietra la vittoria di Will Smith come miglior attore, dopo un paio di candidature cadute nel nulla (clamoroso soprattutto il fallimento della seconda, per La ricerca della felicità). Ma il bruttarello Una famiglia vincente – King Richard elargisce a Smith un ruolo da protagonista che sembra assemblato appositamente per questo scopo (anche in maniera irritante e pedante, seguendo tutti i trucchetti del caso: imbruttimento facciale, umiliazioni varie, riscatto personale all'americana). Uno qualunque, scelto a caso, dei quattro interpreti che condividono la cinquina con lui può papparsi la sua performance a occhi chiusi.
Effettivamente, anche Jessica Chastain (che dovrebbe ottenere il premio per la miglior attrice per Gli occhi di Tammy Faye) si mostrifica ad hoc, ma lei almeno lo fa con sontuosa classe e con un trucco – fra protesi e chiome cotonate – che è anch'esso, salvo sorprese, già da Oscar.
Giochi fatti (e non certo da poco tempo) anche per la miglior canzone originale (a No Time to Die dall'omonimo 007, che ha goduto di un anno di vantaggio sui contender a causa del ritardo dell'uscita del film per il virus) e per il miglior film d'animazione (a Encanto, quarto classico disneyano che arrivi a far sua la statuetta), con buona pace del valente Luca della Pixar che avrebbe mantenuto vivo un minimo di patriottismo italiano (seppur filtrato dagli States).
Alla fine, un suo margine di manovra se lo è ritagliato persino Paul Thomas Anderson, che dopo un faccia a faccia estenuante con Belfast è dato adesso per favorito per il premio alla migliore sceneggiatura originale (per Licorice Pizza, nominato anche per il miglior film e la miglior regia). In totale, Anderson ha ricevuto finora ben undici candidature in carriera: dopo venticinque anni di cinema a livelli eccelsi, sarebbe anche ora che qualcosina gli venga finalmente riconosciuto.
Ma chi sarà ad accaparrarsi la statuetta più "pesante", ovvero quella per il miglior film? Se Il potere del cane, anche complice il maggior numero di nomination dell'edizione (dodici), dominava i pronostici ormai da mesi (e l'Oscar a Jane Campion per la regia in realtà continua ad essere il più scontato), nelle ultime settimane si è fatto largo quatto quatto – tenendo anche conto che è un film incentrato sulla sordità – il quasi sconosciuto CODA – I segni del cuore, che avrebbe al momento uno spazio di possibile vittoria piuttosto ampio. Come si spiega una così imprevista e rapida fluttuazione?
In proposito, è utile far presente che il meccanismo di elezione del miglior film è differente da quello utilizzato per le altre categorie di candidatura, perché fa capo alla stesura di una classifica anziché a una scelta secca: i giurati sono tenuti a elencare i dieci titoli nominati in ordine di preferenza. Quando si procede allo spoglio, le varie schede vengono poi impilate in base al film che risulta inserito nella prima posizione di ognuna di esse. Per la vittoria finale è previsto un quorum del 50% del votanti, che al primo conteggio, solitamente, non viene mai raggiunto. Un secondo conteggio avviene redistribuendo le schede della pila più bassa (cioè quella del film che è stato meno selezionato come primo preferito fra i dieci) in cima alle altre pile, ma facendo riferimento, questa volta, al secondo classificato di ogni lista. E così via per gli eventuali conteggi successivi. Ciò significa che il film più votato come secondo preferito potrebbe arrivare a spuntarla su quello più votato come preferito in assoluto. Si tratta, chiaramente, di un metodo approntato per far sì che il consenso attorno al titolo vincitore sia il più largo raggiungibile. Va da sé che il miglior film non è quello più apprezzato, ma quello che mette d'accordo il maggior numero di giurati. Ed è stata proprio questa la dinamica di voto che l'anno scorso ha incoronato il "mezzano" Nomadland rispetto a prodotti di pregio più elevato come Il processo ai Chicago 7 o The Father – Nulla è come sembra.
E il semi-indipendente CODA, remake agrodolce del francese La famiglia Bélier (il che lo rende, editorialmente parlando, un usato sicuro), incarna perfettamente un certo tipo di cinema medio alla Sundance realizzato con tre spicci e buone idee che fa contenta l'Academy da sempre, capace di fondere lacrima e sorriso e di farsi piacere davvero da chiunque (ma senza esagerare, perché è l'unico modo per trovare una quadra conciliante, come si è detto). Questa rimonta, secondo i pronostici, dovrebbe produrre un effetto cascata che porterebbe il film a vincere anche per la migliore sceneggiatura non originale e per il miglior attore non protagonista (al non udente Troy Kotsur), due gironi "braccati" fino all'altro ieri dal film della Campion (il secondo da Kodi Smit-McPhee).
Si aggiunga che spesso – non sempre, ma spesso – il criterio di attribuzione finale delle preferenze è di natura emotiva: ai primi posti delle liste dei giurati finiscono i film che hanno saputo catalizzare di più il dibattito (specie su temi caldi, su tutti le minoranze discriminate) e suscitare più commozione o divertimento. In certi casi conta molto la sapienza promozionale (costruita nell'arco di mesi) o la sua assenza, in altri le circostanze contingenti (che possono dar vita a rimescolamenti inattesi in extremis): tanto per fare un esempio, il cammino di È stata la mano di Dio appena dopo il Festival di Venezia si è ridotto praticamente al grado zero, sia per la scarsa attitudine nazionale a campagne di questo tipo, sia perché ineluttabilmente soppiantato dall'onda orientaleggiante (post-Parasite) del nipponico Drive My Car, candidato addirittura come miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura adattata e già col premio per il miglior film internazionale in saccoccia, ma premiato a Cannes all'incirca due mesi prima di Paolo Sorrentino. La tempistica è perciò relativa: è più determinante il clima (o il mood, come oggi si dice) del momento e la sua capacità di attecchire o meno sul lungo periodo.
Tutto è dunque già assegnato, con un uso terra terra dell'intramontabile manuale Cencelli. Vincono tutti, non vince nessuno. È ormai l'andazzo di tutte le edizioni degli Oscar dell'ultimo decennio. Ma gli Oscar non fungono soltanto da cartina di tornasole delle condizioni di salute (o di malattia, a seconda dei periodi e dei punti di vista) del sistema hollywoodiano. Dovrebbero anche fungere da indicazione della traiettoria di quel sistema verso il futuro. Una traiettoria che, ahinoi, è venuta drammaticamente a mancare proprio con gli anni Duemiladieci. Già l'Oscar a 12 anni schiavo scippato al ben più lanciato Gravity (per correttezza politica scambiata come elemento di ecumenismo?) suggeriva un certo disorientamento (per non parlare della statuetta a Il caso Spotlight quando in lizza c'era proprio il succitato Mad Max: Fury Road), ma il colpo di scena che ha visto premiare l'ignoto Moonlight al posto dell'adorabile e trasversale La La Land, con un'emblematica busta sbagliata che ha fatto storia e che parla da sé, è stata la più inquetante testimonianza di uno scollamento fra industria e pubblico, con la prima che fatica a (ri)creare un'immagine di sé che si allinei al dinamismo del secondo, in un periodo segnato da fortissimi moti di riassetto strutturale.
Perché l'Academy candida uno stanco biopic vecchia risma come King Richard anziché un fumettone fresco e intelligente come Eternals? Perché dà l'Oscar a un attore in declino da svariate ere geologiche come Smith e non a due interpreti di personaggi amatissimi dai più giovani che si sono distinti in ruoli per loro atipici come Andrew Garfield in Tick, Tick... Boom! e Benedict Cumberbatch ne Il potere del cane? Perché consegna la statuetta alla pur brava Chastain quando può aprirsi a 360 gradi con Kristen Stewart (nominata per Spencer)? Per quale (insulso) motivo, pur avendo l'occasione d'oro di stendere un ponte indispensabile verso le nuove generazioni di spettatori (quelle che guardano i cinecomic e le grandi saghe e che in questo modo amplierebbero i loro sguardi nella selezione delle visioni) si rifugia in un conservatorismo sfiatato e pernicioso?
Se è risibile che appena tre anni fa fosse stato nominato Black Panther e non il più appetibile Avengers: Infinity War (ma anche la vittoria di Renée Zellweger per Judy, attrice peraltro già premiata in precedenza e riesumata pure lei dall'oblio in cui è tornata appena dopo, la quale ha scalzato la Scarlett Johansson di Storia di un matrimonio nell'edizione 2020, non può che lasciare tutt'ora perplessi, come anche il mancato riconoscimento postumo a Chadwick Boseman dell'anno scorso a favore di Anthony Hopkins, un veterano che non ha nulla da dimostrare), l'ormai plausibile vittoria de I segni del cuore non solo non lascerebbe alcuna traccia, ma più che altro, per ciò che è stato detto, sprecherebbe la preziosa opportunità di premiare Dune come miglior film. Preziosa perché gli Oscar sono prima di tutto una trasmissione televisiva, la quale, guarda caso, è in crisi di ascolti da quell'infausto 2017 che strappò la statuetta a La La Land.
Il succo? Se Hollywood ci tiene ad avere un avvenire, dovrebbe tirare fuori il coraggio di ripartire proprio dagli Oscar. E dalle categorie di nomination già esistenti. Non certo attraverso l'ipocrita istituzione di un premio al miglior film popolare eletto mediante Twitter, sintomo di un caos che non accenna a diminuire (dovrebbe già essere il vincitore dell'Oscar al miglior film il film più popolare, ma evidentemente così non è). Ricordiamoci che nell'anno di Taxi Driver e di Tutti gli uomini del presidente (1977), vinse Rocky e fu giusto così, perché era il film più popolare. E nell'anno di Pulp Fiction e di Le ali della libertà (1995), a vincere fu Forrest Gump e tutti furono contenti (la massa, non i cinefili), perché era il film più popolare ed era giusto che vincesse.
In questo senso, la storica cerimonia degli Academy Awards, da asfittico party di autocelebrazione rivolto perlopiù all'industria stessa e a nicchie di appassionati di cinema, dovrebbe tornare a svolgere un ruolo attivo: quello di finestra privilegiata di dialogo col grande pubblico. Più un augurio, forse, che un vero orizzonte praticabile (vista anche la vergognosa ma eloquente esclusione di alcune categorie di premiazione dalla cerimonia in diretta, paventata già nel 2020 ma allora ritirata per le proteste). Tuttavia, un pizzico di rinnovata lungimiranza non guasterebbe. Anche perché, sebbene i detrattori che da sempre snobbano gli Oscar vi vorrebbero far credere il contrario, soffrirebbero anche loro come cani se Hollywood morisse davvero per deperimento, come qualunque cinefilo degno di questo nome.
Upgrade del 28 marzo 2022 (a cerimonia avvenuta)
Alla fine, tutto è andato esattamente secondo le previsioni. Unica differenza, la vittoria di Kenneth Branagh per la miglior sceneggiatura di Belfast anziché di Anderson. Lo scenario che quindi si prospetta non cambia di una virgola le riflessioni della vigilia.
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