Non mi succede spesso. E sì che io al cinema italiano qualche chance gliela dò sempre. A patto che non si tratti delle solite commedie. Non per snobismo ma perché la commedia è un registro che mi piace fino ad un certo punto e in più non riesco a sganciarmi dalla comicità britannica che resta, per il mio gusto, imbattibile. Quindi io dico spesso sì al cinema italiano eppure non mi succede spesso di restare davvero sorpreso, colpito sì, ammirato anche, ma sorpreso non tanto. E quando succede sento il bisogno di dirlo perché forse l'elemento sorpresa arriva più velocemente in un altro posto, meno cerebrale, e mi rendo conto subito di quanto mi piaccia chi riesce a parlare a quel pezzo della mia identità. Sarà perché vivo fuori dall'Italia da molti anni e forse un certo tipo di cinema italiano mi aiuta da un lato a verificare la solidità, o la mera esistenza, delle mie radici e dall’altro a osservare, attraverso il filtro del cinema e quindi da una certa distanza, le foglie più nuove, verdi, fragili che ne possono rappresentare il cambiamento, l’evoluzione, la deviazione.
Quindi sono stato contento quando qualche giorno fa Mauro Gervasini (grazie!) mi ha proposto di vedere in anteprima Calcinculo, che è invece uscito nelle sale italiane da ieri. Mi sono accomodato sul divano senza particolari aspettative e ne sono restato completamente conquistato nei primi cinque minuti. Prima di tutto dalla scrittura. Ed è di quella che voglio parlarvi più che della storia e delle tante altre cose che ci sono da dire, di cui si è occupato proprio Mauro qui e Giulia su altri versanti qui.
Come forse sapete io non sono uno che scrive recensioni, anche quando mi capita di decidere che voglio parlarvi di un film o di una serie che ho visto, il mezzo che scelgo per esprimermi non è mai quello dell'analisi critica, un po' perché non ne sono all'altezza un po' perché io generalmente mi focalizzo su un singolo, spesso piccolo, a volte persino marginale aspetto dell’oggetto del mio entusiasmo. Qui, in Calcinculo di Chiara Bellosi, mi voglio concentrare su come la scrittura sia riuscita a farmi arrivare due sensazioni precise: prima la gravità e poi la sua assenza.
Due parole in estrema sintesi per inquadrare la storia. Adolescente della periferia romana decisamente sovrappeso con padre e madre diversamente (cioè poco) attenti alle sue reali esigenze, incontra anima zingara che in poche mosse scardina tutte le resistenze, le difese, le insicurezze e una opprimente sensazione di gravità, accumulate nei primi quindici anni della sua vita.
La prima sequenza di Calcinculo è quella alla quale viene affidata la responsabilità di rendere fisico, palpabile, reale questo peso. E ci hanno provato in tanti a mostrare la difficoltà del processo di crescita negli adolescenti di questa epoca. A varie latitudini. Perché la forza di gravità che opprime chi è costretto da semplici informazioni genetiche a dover rispondere al dovere di crescere, è uguale a tutte le latitudini, è un tema universale non geolocalizzato. E quindi il film si apre con un primissimo piano della bilancia di uno studio medico che ha l’incarico di esprimere il verdetto sul peso della quindicenne Benedetta. Come se il peso espresso in chilogrammi, quello che segna la bilancia, fosse l’unico problema da risolvere, male da estirpare, anomalia da normalizzare e non l'espressione matematica di uno schiacciamento verso il basso, di una forza di gravità, appunto, alla quale Benedetta è sottoposta, come se lei fosse il cuneo, il punto su cui fanno tragica leva un ampio insieme di pressioni che vanno dalle ambizioni frustrate e i sentimenti rancorosi della madre alle disattenzioni strutturali e le attenzioni sbrigative del padre.
Ho visto serie televisive centrate sull’adolescenza che sono riuscite a far sentire queste forze al lavoro solo dopo una intera stagione da otto episodi e Calcinculo, affidandosi alla scrittura per immagini e a pochissime parole, è riuscito a mettere in fila tutta questa roba in non più di dieci minuti. La madre che chiede al medico “Non sarà un problema ormonale?”, Benedetta nella sua stanza che disegna, la madre che bussa, la porta chiusa a chiave, i dolcetti sul letto nascosti in fretta e furia in una scatola ma alla portata di qualsiasi sguardo un po' attento e non a quello giudicante e sommario della madre, che una volta entrata non riesce a vedere nulla al di fuori degli spettri proiettati dal proprio ego. Non c'è indizio utile, bellezza da incoraggiare, amore da mettere alla prova per chi ha sempre sotto agli occhi solo l'ombra del proprio fallimento.
Sono passati solo dieci minuti e nella bellezza mai affettata della messa in scena, nella scelta precisa delle luci e dei colori, nel rigore dei piani che non concedono nulla alla moda del momento, sento sulla pelle, nelle ossa, nei muscoli tesi, tutto il peso di quei quindici anni passati a crescere dentro ad un cubo di plexiglass.
Poi, appena la camera di Chiara Bellosi punta l'obiettivo fuori da quel tinello, da quel corridoio, da quel cortile, senza compiere alcuna edulcorazione della bruttezza della periferia romana, il mondo diventa perlomeno un luogo pieno di promesse e di possibilità. Ed è quando arriva sulla scena Amanda, appena sbarcata in città con le povere giostre di tutta la vita (il baracchino che gestisce dove si spara e si vincono i peluche, il calcinculo, le navicelle che si alzano e si abbassano con quel maledetto pulsantino per sparare ed abbattere le altre navicelle, quel tipo di giostra lì) che il film scivola leggero "on the road" e si delinea piano piano un messaggio.
La strada non sarà un bel posto ma almeno non è ostile, le persone che la abitano sono probabilmente ambigue ma non cattive e soprattutto, attenzione, ti vedono per quello che sei, forse grassa ma eccezionalmente equilibrata e con degli occhi bellissimi. E su dai, sciogliti quei capelli. E su dai, accompagnami che devo fare un’audizione. E su dai, vieni qui, sali sul calcinculo, non importa se hai paura, poi passa. Su dai, Benedetta, sali sulla giostra, abbandonati alla sua forza e liberati per un attimo da quell’ingombrante fardello che ti schiaccia a terra. E no, non è il tuo corpo. Ora ti mando ancora più su, vedrai che bello l’orizzonte. Ciao Benedetta, devo andare.
Amanda è l’ambiguo, incerto, collegamento con il mondo esterno non per forza adulto, la sua roulotte da zingara giostraia è la tana del bianconiglio in cui si è quel che si è, senza pesi e misure. Amanda ha bisogno di colmare i suoi vuoti e probabilmente non l’amerà per sempre ma nessun gesto d’amore avrà la stessa potenza liberatoria di quel bacio estatico in quella discoteca romana dopo il quale Benedetta sperimenta la potenza catartica del ballo e in cui il suo corpo smette di essere oggetto giudicato e diventa strumento di sintonia con il mondo. Una sequenza che mi ha fatto venire in mente il ballo della adolescente sordomuta in Babel di Iñárritu che proprio in una discoteca, ballando su September/The Joker degli Earth, Wind & Fire con Fatboy Slim, sperimenta un meraviglioso momento di unità con i suoi coetanei, a dispetto della sua menomazione che le inibisce l'accesso al suono.
Calcinculo è uscito in sala il 24 marzo e non so che copertura avrà, non so in quante sale sarà visibile. So però che, oltre l'adolescente Benedetta, anche il giovane cinema italiano del nostro tempo ha bisogno di liberarsi della forza di gravità che lo schiaccia al suolo per poter crescere. Ha bisogno del nostro sostegno, della nostra attenzione, di un gesto d'amore sorprendente e inatteso, di un bacio affettuoso e forse anche di quell'aiutino sintetico sulla punta della lingua per liberarsi dai propri pesi. Ma anche un calcio in culo, a volte, è proprio quel che ci vuole. E questo è il mio.
Se volete dargliene uno anche voi, accomodatevi, basta anche una spintarella, giusto per far partire la giostra.
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