Tocca oggi a un altro film italiano tenere alta la bandiera di casa nostra alla 78ma Mostra del Cinema di Venezia: si tratta dell’ultimo lavoro di Michelangelo Frammartino, autore tutt’altro che commerciale. L’attenzione dei mass media è però concentrata da un lato sul biopic su Lady D. firmato da Pablo Larrain e dall’altro lato sulla fantascienza, forse più rassicurante, di Denis Villeneuve.
Recensioni del giorno
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Concorso
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA PABLO LARRAIN
"Tutti noi conosciamo bene le favole e le sue icone idealizzate: Diana Spencer è riuscita a stravolgere questo noto paradigma, frutto della cultura popolare. Spencer è la storia di una principessa che decide di non diventare regina, scegliendo di costruire da sola la propria identità. La sua storia è appunto il rovesciamento dello schema di una favola. Mi ha sempre colpito la decisione di Diana, proprio perché immagino quanto le sia costata. È questo è il fulcro del film. Volevo esplorare il percorso interiore che, fra dubbi e determinazione, l’ha condotta a scegliere la libertà per se stessa e per i suoi figli. La sua decisione ha caratterizzato anche ciò che ci ha lasciato: un patrimonio di onestà e umanità senza eguali.
Quando ho girato Jackie, nel 2016, ho sviluppato un forte interesse nei confronti di quelle personalità femminili che hanno cambiato il volto del 20° secolo. Sia Diana che Jackie hanno costruito la propria identità individualmente e non necessariamente in funzione degli uomini a cui sono state legate. Entrambe hanno compreso come utilizzare i media del loro tempo, per riuscire a trasmettere una certa immagine di sé al mondo esterno, sebbene lo abbiano fatto ognuna a modo suo.
Lasciare Carlo e la vita di corte, è una decisione intima a cui Diana giunge quando si rende conto che la propria identità è più importante di quella della famiglia reale e della sua stessa nazione. Ma non c’è inadeguatezza in questo: lo fa solo per necessità. Vive in un ambiente che la schiaccia, che la sminuisce, quindi si sente chiamata a difendere se stessa e i suoi figli. Può sembrare che l’esperienza di Diana a Sandrigham, offra solo uno scorcio della sua esistenza. In realtà non è così: lì c’è tutta la sua vita, riflessa in una manciata di giorni.
Su Diana è stato detto di tutto, nei giornali, nei libri, nelle riviste. Un’infinità di storie, alcune vere, altre no.
Abbiamo svolto una ricerca molto approfondita sulla sua vita, sulle tradizioni natalizie della famiglia reale e sulle storie dei fantasmi di Sandringham House. Eppure, i membri della Famiglia Reale sono estremamente discreti. Non appena concludono le apparizioni pubbliche, le porte del palazzo si richiudono e non si sa più nulla di loro. Questo ha alimentato la nostra fantasia e ci siamo messi al lavoro. Non aspiravamo a realizzare un docudrama, bensì a creare una storia basata sia su elementi reali che sull’immaginazione, per raccontare la vita di una donna con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Il fascino del cinema è proprio questo: c’è sempre spazio per la fantasia.
Ovviamente, in un film incentrato sui personaggi come questo, gli attori sono di fondamentale importanza.
Un buon rapporto fra la protagonista, la macchina da presa e il regista, è la chiave per costruire un personaggio che tutti pensano di conoscere già.
Kristen Stewart è una delle attrici migliori del panorama odierno. Ha ottenuto tanto successo perché possiede una qualità fondamentale per il cinema, e cioè il mistero. Kristen può essere misteriosa, fragile e allo stesso tempo forte, ed è proprio questo di cui abbiamo bisogno. L’insieme di questi elementi mi ha ispirato. Il modo in cui si è relazionata al copione e al personaggio è molto bello. Ha dato vita a una performance stupenda e intrigante. Quando un filmmaker trova un’attrice in grado di trasmettere la drammaticità della storia solo attraverso il suo sguardo, allora senza dubbio ha trovato la protagonista della vicenda che intende raccontare. Kristen è una vera forza della natura.
Per il personaggio di Diana, non volevamo semplicemente trovare qualcuno che le somigliasse; il nostro lavoro è stato utilizzare gli strumenti del cinema, quali il tempo, lo spazio e il silenzio, per creare il mondo interiore di una persona connotata da mistero e fragilità. Entrambi questi suoi lati emergono chiaramente nelle scene caratterizzate dagli elementi soprannaturali. Non volevo scivolare nel paranormale o nell’assurdo, bensì esplorare la sua vita interiore. Ciò che Diana vede è il riflesso dei suoi ricordi, delle sue paure, delle sue illusioni. Questi elementi raccontano ciò che accade dentro di sé e mostrano la sua grande e splendida vulnerabilità".
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA MICHELANGELO FRAMMARTINO
"Quando stavo girando Le quattro volte ad Alessandria del Carretto, il sindaco del paese, Antonio La Rocco (Nino), lui stesso speleologo, mi ha aiutato nella ricerca delle location. Mi diceva spesso quanto fosse meraviglioso il Pollino. Pensava che fossi troppo concentrato sul culto arboreo in quel momento - e voleva che dedicassi almeno un giorno intero a visitare la zona.
Il Pollino, massiccio dell'Appennino meridionale, al confine tra Basilicata e Calabria, è un territorio vasto e affascinante. Ha canyon, solchi profondi dove passano i fiumi. La sua natura e la sua fauna sono straordinarie, tra cui aquile reali, grifoni e lupi. Per convincermi della bellezza del Pollino, Nino mi ha condotto prima all'ingresso del Bifurto. Per uno come me, che non è uno speleologo, sembrava solo un semplice buco nel terreno. Situato in mezzo a una macchia mediterranea piuttosto comune, non era particolarmente affascinante. Ricordo che lo guardavo incredulo.
Cominciò a spiegare come l'aveva individuato. Come aveva passato anni della sua vita lì dentro a mapparla, usando gli antichi sistemi - con la costola e un clinometro. Di come ci fosse entrato centinaia e centinaia di volte, per fare il rilevamento perfetto. Come aveva dormito e mangiato lì dentro. Ci aveva lasciato parte della sua giovinezza. Certo, questo posto aveva un significato molto speciale per lui. Cominciai a capirlo. Nino lasciò cadere una pietra nel buco e ricordo che ci vollero circa 3, 4 secondi perché la pietra colpisse qualcosa. Sembrava che la pietra fosse fuori sincrono. Allora ho capito davvero. Era il 2007.
Nel 2016, Nino ha organizzato una campagna esplorativa per cercare di sbloccare il "trabucco", quello che prima avevo pensato come il buco nel terreno. Ho passato un paio di settimane insieme al gruppo di speleologi, scavando, mettendomi in discussione. Lì ho incontrato Giulio Gècchele, 82 anni, che ha guidato la prima spedizione nel 1961. È stato un'ispirazione.
Nel 1961, mentre il boom economico mondiale era in pieno svolgimento in Italia, Giulio Gècchele e il suo giovane Gruppo Speleologico, piemontese, si dedicavano ad un atto completamente gratuito. In controtendenza con l'inarrestabile traiettoria verso il cielo, iniziarono una spedizione speleologica, che si concluse con l'arrampicarsi in una nicchia, un buco, una fessura nella terra, e scivolare fino a una profondità di circa 700 metri sottoterra. In fondo alla penisola italiana, scoprirono la seconda grotta più profonda del mondo, l'Abisso Bifurto. Il record era sconosciuto anche agli stessi esploratori.
Negli stessi mesi fu completato il monumentale grattacielo Pirelli, un vertiginoso esempio di architettura. L'edificio fu sbattuto sui notiziari, ricevendo un'ampia copertura mediatica e diventando rapidamente un simbolo appariscente dell'Italia che aveva raggiunto il più alto obiettivo verticale. Eppure, la scoperta degli speleologi non fu resa pubblica e rimase oscura come il buio mondo sotterraneo in cui fu completata”.
CLIP IN ANTEPRIMA
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Fuori Concorso
EXCL. LA PAROLA A DENNIS VILLENEUVE
"Ho scoperto il libro quando ero adolescente e sono rimasto totalmente affascinato dalla sua poesia e dal suo modo di parlare della natura, la vera protagonista della storia. All'epoca, studiavo scienze ed ero indeciso su cosa fare da grande: il regista o il biologo. Improvvisamente, l'approccio di Herbert all'ecologia mi ha dato una nuova prospettiva, più potente e più ricca. Ha saputo magistralmente creare magnifici ecosistemi dal nulla. La sua esplorazione dell'impatto e del caos generato dal colonialismo era una metafora del XX secolo, valida ancora oggi. Ed è in tale contesto che ha ambientato la storia di un giovane alle prese con la sua identità e alla ricerca del proprio posto nel mondo, proprio come ero io allora.
L'iniziazione di Paul avviene sullo sfondo di rivalità familiari, conflitti tribali, oppressione sociale e disastro ecologico su un pianeta austero. Da quando faccio il regista, sognavo di adattare il lavoro di Herbert. Per me, è stata una vera sfida riuscire a individuare i misteri della trama, le debolezze dei personaggi e i loro punti di forza, così come tutte quelle caratteristiche che rendono accattivante una storia dalla vasta portata drammatica. Herbert è andato ben oltre la fantascienza e ha costruito anche un esemplare rapporto tra padre e figlio, che mi ha spinto a voler raccontare la vicenda dal punto di vista di ognuno dei componenti della famiglia Atreides, tutti chiamati ad affrontare il loro destino, sia psicologicamente sia politicamente. Herbert studiò storia e viaggiò per l'intero pianeta Terra: assistendo in prima persona a diversi eventi, prese ispirazione da essi pur ambientando il tutto in lande sconosciute e desertiche. Poi ci sono tantissimi altri aspetti dell'opera da non sottovalutare: la questione sociale, il rapporto madre-figlio, i forti personaggi femminili... seppur figlio degli anni Sessanta, il romanzo di Herbert trasuda un'incredibile modernità e urgenza, rivelandosi quasi senza tempo e visionario”.
EXCL. INTERVISTA AL REGISTA BERNANRD MacMAHON E ALLA SCENEGGIATRICE/PRODUTTRICE ALLISON McGOURTY
Come avete avuto l’idea per il film?
Bernard MacMahon: “Il nostro precedente film American Epic esplorava l’avvento della registrazione del suono elettrico negli anni ‘20 e il suo effetto sulla libera espressione di tutti i gruppi etnici in America. Volevamo fare un altro film musicale e stavamo cercando il punto successivo nella storia della musica che avesse causato un ulteriore sisma culturale e un salto tecnologico. Ci siamo resi conto che era il 1969 e di come al centro di quell’uragano ci fossero i Led Zeppelin”.
Come vi siete preparati per il film?
Allison McGourty: “Bernard conosceva già molto bene la band e si è impegnato a fondo nel ricostruire la storia di ogni membro, il che è stato affascinante e molto complesso. Parliamo di quattro individui molto diversi e interessanti, la maggior parte dei quali non si conosceva prima di incontrarsi e provare in studio, quindi è stata la profondità delle loro esperienze precedenti collettive che ha permesso alla band di formarsi e di farla funzionare. Per capire come il gruppo sia diventato così Straordinariamente famoso dovevamo capire esattamente come ci fossero arrivati. Quindi, ci siamo letteralmente seduti e abbiamo scritto la sceneggiatura”.
Questo è inusuale per un documentario?
Bernard: “Il processo che ha portato alla realizzazione di questo lavoro è stato molto più simile a quello per scrivere un film piuttosto che un documentario. Io e Allison abbiamo scritto la brutta copia della sceneggiatura su una crociera nei Caraibi con i nostri amici Taj Mahal e Bettye LaVette. Abbiamo raccontato la loro storia dall’infanzia agli anni ‘70, quando sono diventati la più grande band del mondo. Raccontarlo è, di per sé, potenzialmente un lungometraggio. Quando siamo tornati a terra abbiamo fatto uno storyboard di tutto il film con il nostro montatore Dan Gitlin poi rilegato in un pesante libro in pelle della grandezza di una lastra di pietra”.
Avete parlato con la band?
Allison: “Abbiamo fatto tutta la preparazione senza dirlo a nessuno perché volevamo assicurarci che avrebbe funzionato, prima di presentarlo. Poi siamo volati a Londra e abbiamo incontrato Jimmy, poi John Paul e alla fine Robert e Pat Bonham. Sapevamo che la band aveva più volte rifiutato offerte per un documentario per i loro 50 anni ma credevamo nello scopo più alto della storia che volevamo raccontare”.
La band era scettica?
Bernard: “Il gruppo era un grande ammiratore di American Epic, il che è stato un ottimo inizio. Ed erano davvero entusiasti dello storyboard. Detto questo, ci hanno messo in guardia dicendoci che,secondo loro, non c’era abbastanza materiale dei primi tempi per farci un film. Ebbene, noi avevamo già fatto un gran lavoro di ricerca e riportato alla luce alcuni filmati straordinari, quindi avevamo fiducia sul fatto che sarebbe stato possibile. Devi avere fede in questo tipo di sforzi. Miracolosamente, il film finito che vedete sul grande schermo è una replica esatta di quel primissimo storyboard che abbiamo presentato loro durante i nostri primi incontri”.
Qual è stato il coinvolgimento della band?
Allison: “Il film è stato realizzato con il pieno ed entusiasta supporto del gruppo e tutti ci hanno aperto i loro archivi personali. A loro merito, va detto che erano d’accordo sul fatto che questa doveva essere una produzione completamente indipendente, senza alcun controllo editoriale da parte loro, della loro etichetta discografica o di qualsiasi studio. E che il film sarebbe stato completato e poi venduto dopo il Festival di Venezia”.
Come li avete intervistati?
Bernard: “Le riprese dell'intervista si sono svolte nell'agosto 2018. Li abbiamo intervistati tutti nella stessa casa e nella stessa settimana in cui si erano incontrati per la prima volta esattamente cinquant'anni prima. Una delle nostre più grandi sfide è stata quella di dare voce nel film al loro batterista John Bonham, perché praticamente non ha mai rilasciato interviste e la maggior parte dei fan dei Led Zeppelin non l'ha mai sentito parlare. Ma abbiamo fatto una ricerca in tutto il mondo e abbiamo scoperto uno straordinario nastro da 1/4 di pollice con lui, splendidamente registrato, nel quale parlava in modo estremamente sincero. È stato molto emozionante per i membri della band sentire di nuovo la sua voce per la prima volta in 40 anni. La sua famiglia, poi, aveva filmati inediti che lo ritraevano proprio lì, in quella stanza, con i suoi compagni della band. Volevo che il pubblico si sentisse come se fosse stato invitato in questa vecchia casa inglese dove questi uomini si sedevano con te raccontandoti la loro storia per la prima volta in 50 anni”.
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Orizzonti
EXCL.: LA PAROLA ALLA REGISTA WILMA LABATE
"La sceneggiatura si legge senza prendere fiato mentre lo stomaco si contrae, fatta di personaggi che subiscono la vita nel disordine e l’inerzia. Nadia è una ragazzetta attraente che si muove in un inevitabile grigiore con una famiglia affettuosa ma immobile nel destino della periferia, non degradata, solo difficile e sciatta. Trieste è una città con le strade pulite, il centro sontuoso è stretto da vecchi quartieri operai ora abitati da persone della ex Jugoslavia che a tratti sembrano trasformare un tranquillo clima popolare in una bomba a orologeria, con il miscuglio di religioni, antiche divisioni mai sedate, rancori mai risolti. Una Trieste sconosciuta ai turisti con un porto in perenne crisi ma tuttora vivo, con i cantieri affollati di mano d'opera indiana e cargo e traghetti in partenza per l'oriente. Un traffico rarefatto ma che ancora porta in città l'estraneo, il nuovo. Il luogo giusto.
Ma la storia è universale e potrebbe essere ambientata in qualsiasi città, grande o piccola, italiana o estera; la vita è molto più contraddittoria della finzione. Non c'è spazio per il giudizio; è necessario aprirsi in un ritratto che punta all’interno e mai all’esteriorità. Perché è la potenza espressiva di Nadia che sostiene la forza narrativa e non l’intreccio, in un’alchimia necessaria tra protagonista e narrazione. I personaggi che la circondano restano sullo sfondo. La messa in scena dei fatti non sarà solo una scelta stilistica ma una conseguenza che produce dolore perché il corpo crea verità. E perché Nadia non analizza, vive e soprattutto si lascia vivere in una dimensione di perenne contraddizione, com’è la vita. Come la brutalità di chi la violenta, quella di Brando, che denuncia labili tracce di umanità in un ambito di certezze acquisite in fretta e male, e una natura aggressiva quasi autistica.
Brando non è la bestia, non fa parte del branco e non è neanche un balordo a tutto tondo ma colpisce più duramente perché il suo agire non concede nemmeno il riscatto dell’odio o della vendetta. Le minacce ricevute, nemmeno ben studiate, inducono Nadia a dire alla famiglia che è incinta ma non sa di chi, la costringono al silenzio perfino con la sorella maggiore. La narrazione coglie queste dinamiche in contraddizione tra loro lavorando sempre solo sui corpi, più sulla postura che sulle parole e sulla gestualità abitudinaria.
Manuela, la sorella di Nadia è l’unica a intuire che c’è qualcosa di poco chiaro e tace anche lei, ma questi personaggi sono molto lontani dal concetto di comunicazione, sono solo travolti dalla solitudine, altro necessario elemento di ricerca e di racconto. Ma seppure in una dimensione statica, come di chi lascia che la vita le scorra addosso perché non ce la fa a determinarla, Nadia fa uno scarto dinamico, anche se compiuto nello stesso clima inerte. Sceglie di tenere il bambino contro ogni logica e va a lavorare per mantenerlo. Incartata in una divisa a buon mercato mentre si affanna tra le macchine, Nadia torna a casa e regala al piccolo un sorriso più intenso di quelli che ha ricevuto.
Lo sguardo di Nadia è spesso perso nel vuoto ma anche distrattamente concentrato in quello che fa. Si sofferma a prendere fiato, appoggia la fronte al palmo della mano ma rispetta gli orari, quelli che le hanno fatto perdere la scuola durante la gravidanza ma che non le faranno perdere il lavoro anche se lo detesta. Durante i lenti viaggi di spostamento la ragazza sembra quasi un automa. Questo sentimento ambivalente, a cavallo tra lo sfinimento e la rassegnazione, è la chiave narrativa che dovrà evitare qualunque passo falso verso una pericolosa presa di posizione. È la storia che accade al settimo piano del casermone in cui vive ma se fossi andata all'ottavo?"
EXCL. INTERVISTA A MOHAMED DIAB
Da dove nasce l'idea per il film?
Direttamente dall'attualità. Ho scoperto dai quotidiani che le coppie palestinesi potevano concepire dei bambini anche se il marito era prigioniero in Israele. Una fitta rete di "contrabbandieri" consentiva l'uscita dello sperma dalle carceri. La storia mi è rimasta in testa, ne immaginavo gli sviluppi e i colpi di scena che potevano susseguirsi... Vi ho trovato elementi essenziali che esulavano dal solo conflitto israelo-palestinese estendendosi a tutte le guerre nel mondo e sollevando domande quasi filosofiche: cosa succede nella testa del giovane o della giovane che scopre com'è stata concepita? Quali pensieri nascono in lei? Come si relazionano con le sue convinzioni?
Com'è stato scrivere la sceneggiatura?
Scrivo in famiglia, con mia sorella, mio fratello e mia moglie, che è anche produttrice. Le idee nascono dal confronto tra noi quattro. Per Amira siamo partiti dall'immaginare che Nawar non fosse il padre della ragazza. Sua moglie è considerata la moglie di un eroe, al pari della figlia. Ma cosa accade se l'eroe non è il vero padre della ragazza? Che succede a moglie e figlia? Potrebbe essere un dramma shakesperiano ma la storia ha luogo nella moderna Palestina, in una città adornata dai ritratti dei combattenti per la libertà, eroi per i palestinesi ma terroristi per gli israeliani. Onorare i combattenti è qualcosa che sta a cuore ai palestinesi: i bambini concepiti con il contrabbando di sperma, circa un centinaio oggi - sono un simbolo della lotta contro l'oppressione, un simbolo dello spirito palestinese. Un modo per dire che i combattenti non si arrenderanno mai. Anche se venissero uccisi, i loro figli prenderebbero il loro posto e le lotte non finirebbero mai.
È stata questa la ragione per cui ha scelto di fare di Amira l'eroina del film?
È attraverso il suo punto di vista che la storia assume significato. È di Amira che ci si preoccupa ancor prima di nascere perché è un simbolo. Il suo percorso è stato già tracciato, così come sono state decise quali saranno le sue convinzioni da grande. Ciò implica che, una volta scoperta la verità, Amira debba tornare indietro e ridefinire se stessa. Si tratta di qualcosa che riguarda tutti noi: tutti pensiamo di essere liberi e probabilmente in una certa misura lo siamo ma il 70% o l'80% della nostra identità è stata già decisa per noi da altri. E trovare il coraggio per intraprendere il percorso che vogliamo richiede tempo, energia e coraggio.
La storia di Amira si è composta a poco a poco, come un puzzle. La sfida maggiore era sapere esattamente quando inserire nuove informazioni. La suspense doveva essere misurata e per tale ragione siamo andati incontro a diversi passaggi di riscrittura: a volte dicevamo le cose troppo, troppo presto.
Dove ha luogo esattamente la storia di Amira?
In qualsiasi città della Palestina. Non credo sia utile indicarne una precisa. Sono egiziano: ho il vantaggio di vedere tutto quanto con i miei occhi di straniero, con uno sguardo inedito e disinteressato su uno dei più grandi conflitti del nostro tempo, da ottant'anni in corso. Ho fatto molte ricerche, ho incontrato molti palestinesi e ho letto tutto quello che ho trovato sull'argomento. Facciamo film anche per avvicinarci a culture che non sono le nostre, per vedere il mondo in maniera diversa.
"True Things è il racconto ammonitore di un rapporto a sfondo sessuale distruttivo tanto complesso quanto comune; una relazione che ci è familiare al punto da essere quasi un rito di passaggio. È una specie di storia d’amore con lo sguardo rivolto alla fragile percezione di sé di una donna; al modo in cui le donne usano i rapporti per esplorare la propria identità. Kate ha smarrito la percezione di chi sia veramente e ha accettato una versione di sé plasmata sia dalla società sia da coloro che le sono vicini. Nel viaggio che intraprende per raggiungere l’autonomia, la vediamo lasciarsi ossessionare e sviare da un uomo prima di scoprire infine la sua più profonda autenticità. Questo film è estremamente soggettivo e intimo e tratta fondamentalmente del rapporto di una donna con sé stessa". (Harry Wootliff).
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Biennale Cinema
"La vecchiaia come un ritorno all’infanzia e alla dipendenza fisica ed emotiva. La paura di tutta una vita: morire soli. Giocare con questa paura, afferrarla, rimuoverla, poi presentarla in una situazione surreale. Esplorare i legami familiari e i loro limiti: fino a che punto io esisto al di fuori dei miei genitori e del contesto familiare? Cosa succederà quando moriranno i miei genitori? Oppure, dal punto di vista dei genitori: cosa succederà quando i miei figli saranno cresciuti e non ci sarà più bisogno che io me ne prenda cura e provveda a loro? Quando potrò riprendermi la vita? E se ci riuscirò, sarà ormai troppo tardi? Tre protagonisti che non sono riusciti a portare avanti la loro vita, che non hanno trovato, o non osano, guardare in faccia la felicità: quel sentimento sfuggente cui dedichiamo tutta la vita per cercare di afferrarlo" (Sol Berruezo Pichon-Riviére).
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Settimana della Critica
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA ALEX CARVALHO
"Il desiderio di Catherine, eroina dell’acclamato romanzo di Jean-Christophe Rufin, di seguire un impulso fino alla sua conclusione rappresenta un’entusiasmante occasione di ritrarre un’eroina non convenzionale. Volevo indagare la relazione tra una donna e un uomo più giovane, in cui entrambi sfruttano e sono sfruttati in egual misura, in una reciproca dipendenza, potente ma distruttiva. Ambientato a Recife, mia città natale, la storia gioca con la tensione alimentata dall’eredità coloniale e dalla multiculturalità di uno dei centri più polarizzati del Brasile. L’esperienza di Catherine può essere estrema nella sua violenza e irrevocabilità, ma centrali sono i temi di auto accettazione e identità che molti troveranno scomodamente familiari".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "C’è qualcosa di profondamente politico nell’incendiaria storia di attrazione che lega Catherine e Gilberto, nell’unione impossibile tra una donna francese ancora desiderabile che si affaccia alla mezza età e un giovane brasiliano ambizioso, ansioso di uscire dalla gabbia all’interno della quale un rigido sistema di classi lo ha inchiodato alla nascita. Entrambi portano addosso i segni della vita che precede il loro incontro: Catherine, bella, ricca, bianca, fa i conti con l’incedere del tempo che affiora sulla sua pelle, mentre nello sguardo custodisce il segreto rancore di chi si è sacrificata a lungo, nel suo caso per accudire fino alla fine il padre malato; Gilberto, detto Gil, giovane, forte, nero, figlio di una governante e ancora nel cono d’ombra del “padrone”, nasconde ferite invisibili nell’animo e porta addosso cicatrici visibili che affondano in chissà quale passato" (Beatrice Fiorentino, (Auto)distruzione e rinascita, pag. 62).
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Giornate degli Autori
"Ho iniziato a frequentare il Palazzo più di dieci anni fa, appena arrivata a Roma. Fui chiamata da Mauro, visionario regista e carismatico leader di una comunità di amici, che cercava un'operatrice video per le scene più difficili del suo famoso kolossal che come ogni cosa a Palazzo, sarebbe rimasto incompiuto.
Ero intrigata dal sistema Palazzo creato da Rocco, il proprietario, un luogo da cui l'ansia dell'inserimento sociale. la retorica del lavoro nobilitante, erano state bandite a favore di una produzione culturale eccentrica fatta dai molti amici che occupavano, a titolo gratuito, gli appartamenti dell'edificio. Non ne uscivano quasi mai, come prigionieri di una malia, irretiti dal connubio fatale di bellezza e comodità.
Andai molto presto per la mia strada ma quel luogo, restava nella mente come uno spazio di espressione non conformista e vitale, da tenere a distanza di sicurezza, e al contempo da custodire come un piccolo giardino segreto. Impossibile da vivere, ma pur sempre candidato a diventare oggetto di un racconto, tanto che iniziai più volte a riprenderlo" (Federica Di Giacomo).
"Il mondo a scatti è un film documentario, film-saggio, film autobiografico…film che non è possibile definire come appartenente a un genere cinematografico ma di sicuro è un film che parte da pensieri sulle immagini, immagini fisse – fotografie che hanno fermato il tempo: Il mondo a scatti. Quello che definiamo un mondo a scatti può essere racchiuso in una sequenza di immagini fisse: clic…clic… clic… ogni scatto ha fermato il tempo, il tempo di un clic, ma le immagini fisse proiettate in successione magicamente diventano immagini in movimento. Lo scatto ferma il tempo: donne, uomini, cose, tutto è rimasto intrappolato in quel rettangolo di mondo" (Cecilia Mangini e Paolo Pisanelli).
EXCL. LA PAROLA A DENIS BROTTO
“È un atto di indagine, di approfondimento e di condivisione del percorso poetico di Zanzotto, in cui proviamo a dar conto delle tante influenze presenti nella sua opera. Il suo, del resto, è stato un percorso sviluppatosi in decenni attraverso saperi e linguaggi diversi, attraverso una visione del senso del linguaggio che è andato modificandosi e intensificandosi nel corso del tempo.
Abbiamo cercare di ricreare ciò attraverso le immagini. Qui la sfida era quella di provare a filmare qualcosa di invisibile – o quasi: la poesia. qualcosa che non esiste materialmente e che tuttavia ha delle ripercussioni chiare, evidenti sul reale. Insomma, provare a far sentire anche ciò che, per sua natura, non si vede.
E con ciò, cercare anche di rinnovare il significato del guardare al reale. Un lavoro che oggi inevitabilmente significa anche muovere il proprio sguardo sui resti, su ciò che rimane del paesaggio, dopo guerre, violenze, sfruttamenti intensivi. In questo senso c’è un legame continuo tra passato e presente. Tra le aspettative passate e le attestazioni attuali. Il senso di questo lavoro su Zanzotto va ricercato, credo, in quello che la sua poesia mi ha suggerito sin dal primo atto di avvicinamento a essa. Un mondo fatto di parole, di simboli, di suoni che restituivano un universo composito. Leggendo il Filò, molto tempo fa da giovane, ho pensato che il mondo fosse un luogo complesso, non ovvio, pieno di stupore, di sensazioni, di eventi infinitesimali posti di fianco ad altri di immensa grandezza. Un luogo da scoprire insomma, e dunque degno essere vissuto”.
PAROLE - OPERETTA PER VOCE E PIANO
"Cosa volevo? Raccontare il caso, non prevedere. Non progettare nulla. Cercavo l'abbandono. Con pochissime parole, cosa volevo dal filmmaker Luigi Ceccon? Che non sapesse nulla di quello che avrei detto o fatto. Di conquistarsi una distanza da me progressiva. Che stesse pronto a corrermi dietro e a stare fermo ad ascoltarmi. Ho detto di escludere il mare per la sua portata enfatica. Gli ho detto di scegliere una distanza "indecisa" per raccontare il rapporto tra me e Corrado perché indeciso è il nostro rapporto. Gli ho detto di raccontare una barca come un piccolo teatro dalla scenografia raffazzonata. L'ho ascoltato molto, perché sempre sintonizzato. E Monica Stambrini ha compiuto con il montaggio un vero miracolo, dando forma a una materia rapsodica e spesso aggrovigliata. Tutto è in questo piccolo lavoro volutamente "estemporaneo", come l'improvvisazione di Danilo Rea che ha suonato mentre assisteva per la prima volta al film montato. Questo è, un piccolo omaggio all'estemporaneità" (Umberto Contarello).
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3. Continua
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