La Mostra del Cinema di Venezia presenta oggi il terzo dei quattro film italiani in Concorso: è arrivato il momento di Notturno di Gianfranco Rosi, regista che il Leone d'Oro lo ha già agguantato nel 2013 grazie a Sacro Gra e alla giuria presieduta dal compianto Bernardo Bertolucci. Voci di corridoio ci dicono che ieri grande impressione ha destato Cari compagni di Konchalovsky, serio candidato - e chi lo avrebbe mai detto - al Palmares e, nella sezione Orizzonti, Guerra e pace di D'Anolfi e Parenti.
Piccola nota a margine: per la Settimana della Critica passa oggi il cortometraggio J'ador, da tenere d'occhio in un momento in cui la cronaca ci racconta gli assurdi fatti che hanno visto per vittima il giovane Willy, ucciso dal branco a Colleferro.
Proiezioni odierne: Concorso
NOTTURNO
Sinossi: Di quanto dolore, di quanta vita sono fatte le esistenze delle persone in Medio Oriente? In questo film – girato nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano – Gianfranco Rosi dà voce ad un dramma umano che trascende le divisioni geografiche e il tempo dei calendari; illumina, attraverso incontri e immagini, la quotidianità che sta dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS. Ma la guerra non appare direttamente, la sentiamo nei canti luttuosi delle madri, nei balbettii di bambini feriti per sempre, nella messinscena dell’insensatezza della politica recitata dai pazienti di un istituto psichiatrico. Storie diverse, alle quali la narrazione conferisce un’unità che va al di là dei conflitti. Un cantore di strada, vestito dall’amata, sveglia la città con le lodi dell’Altissimo. Un cacciatore di frodo si muove alla ricerca di selvaggina fra i canneti, i pozzi di petrolio, il crepitio delle armi. Le guerrigliere peshmerga difendono con la stessa determinazione la loro grazia e le postazioni di battaglia. I terroristi dello Stato Islamico sono stipati all’inverosimile in un carcere dove si cerca di contenere l’odio fondamentalista. L’angoscia di una madre yazida di fronte ai messaggi sconvolgenti della figlia ancora prigioniera dell’ISIS. Alì, adolescente, che fatica di notte e all’alba per portare il pane ai suoi fratelli... Tutt’intorno, e dentro le coscienze, segni di violenza e distruzione: ma in primo piano è l’umanità che si ridesta ogni giorno da un notturno che pare infinito. Notturno è un film di luce dai materiali oscuri della storia.
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GIANFRANCO ROSI
PREMESSA: «All’origine di questo film c’è un’intuizione narrativa nata dalla convinzione che un’immersione totale in Medio Oriente mi avrebbe consentito di raccontare quei luoghi, oggetto di tante funeste incomprensioni e di altrettanti pregiudizi, in modo inedito. Durante i tre anni che ho trascorso in Libano, in Siria, in Iraq e nel Kurdistan iracheno la mia visione si è evoluta, si è “illuminata” per così dire. Prima di partire, avevo immaginato che avrei filmato soltanto scene notturne. Come se immergendo nell’oscurità i protagonisti, me stesso e, di conseguenza, gli spettatori del mio film, avessi potuto comunicare il senso della mia/nostra ignoranza. Dal punto di vista formale, l’idea era seducente, ma, dopo i sopralluoghi, ho sentito che era giusto abbandonarla. Durante il mio viaggio, ho incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra: sciiti, alauiti, sunniti, yazidi, curdi. Vivono da una parte o dall’altra dei confini perché vi sono nati o perché costretti dall’esilio, e sono tutti vittime della guerra, frutto di conflitti ancestrali e dell’avidità dei potenti. Ho avuto modo di assaporare la vita e quella certa “normalità” che abita i fronti del conflitto. È questa vitalità che ho voluto cogliere, e per farlo mi è stata necessaria la luce del giorno. Notturno è un film politico, ma non vuole affrontare la “questione politica”. Non indaga le cause del conflitto né le molteplici problematiche religiose e territoriali in gioco. Ho voluto semplicemente rimanere il più vicino possibile alle donne, agli uomini, ai bambini la cui ostinata sopravvivenza suona come la metafora dell’assoluto che più mi appassiona: l’essere umano.
OLTRE I CONFINI: Ho voluto annullare la percezione della frontiera. Anche se è proprio lungo la frontiera che si ambientano le storie che ho narrato. Le frontiere vengono spesso percepite, dalle popolazioni locali, come altrettanti “tradimenti”, perché vengono costantemente ridefinite a seconda delle esigenze politiche. I limiti territoriali stimolano l’odio e la vendetta. Generano minoranze che diventano, presto, capri espiatori. Rappresentano il potere che non si cura degli individui. Non posso abolirle, ovviamente, ma le ho attraversate. Il mio è stato un viaggio incontro alla normalità che resiste, mentre il tuono della guerra vorrebbe imporre l’idea che qui, la normalità, non è nient’altro che la morte.
Non ho provato a spiegare la guerra intestina tra sunniti e sciiti, né il ruolo dell’Occidente, né i continui capovolgimenti delle alleanze. Ho preso le distanze dalle distinzioni che si operano tra curdi, iracheni, sunniti, sciiti o yazidi. Ciascuno sente d’essere vittima dell’altro. Ognuno ha le proprie ragioni.
Ho voluto portare a galla le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, e non ho seguito l’esodo dei profughi, ma sono andato loro incontro, là dove tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro. Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno.
LE PERSONE: La tragedia del Medio Oriente è la tragedia della sua gente. Ed è la ricerca della normalità e della quotidianità che mi ha portato sull’orlo del vulcano, nelle aree di confine di Libano, Iraq e Kurdistan e Siria, poiché è sulle sfortunate frontiere di questi paesi che si gioca la grande guerra interna all’Islam, tra sunniti e sciiti e rispettivi e mutevoli alleati.
Scavalcando linee nemiche, ho incontrato soldati e uomini di fede, pescatori, contadini e cacciatori, e tante altre persone, uomini e donne di ogni età e condizione. Ho incontrato tanti bambini e tanti adolescenti segnati per sempre. Alcuni di loro sono i protagonisti del mio film: cerco di raccontare le storie degli umili che vivono alle porte dell’inferno, non quelle degli uomini del potere.
Questo viaggio è stata un’esplorazione di una regione e delle sue genti intrappolate all’interno di vetusti e coloniali confini, che hanno diviso popoli ed etnie una volta liberi di spaziare all’interno del vasto impero ottomano; popoli ed etnie che oggi si uccidono convinti che solo attraverso la sopraffazione dell’altro sia possibile la propria sopravvivenza.
E in ogni posto di confine ho trovato la bandiera dei vincitori di oggi, piantata in un paesaggio di rovine.
LUCE E TENEBRE: Notturno è un film di luce e non un film di tenebre. Racconta la stupefacente forza vitale delle persone. La morte non ha nulla di coinvolgente, è solo un incubo. In questi luoghi tanta Storia ha mosso i primi passi, dal diluvio universale all’invenzione dei numeri, dove ora sventolano le bandiere per affermare un’appartenenza, una conquista.
L’uno di fianco all’altro, senza soluzione di continuità, luoghi sacri e zone industriali, campi incolti, villaggi di pastori, quartieri sventrati dai bombardamenti, paesaggi di rovine, deserti, grovigli di fili elettrici, paludi sulle quali scivola una barca di pescatori. Questi sono solo alcuni dei contrasti struggenti del Medio Oriente.
Notturno non cerca di analizzare queste contraddizioni in modo critico, ma di cantarle. Il film è un’ode all’umano immerso nelle oscurità della guerra. Come in un ‘Notturno’ di Chopin, anche qui l’oscurità è un pretesto, un’occasione per lasciar risuonare ciò che vive.
LA GIUSTA DISTANZA: Quando lavoro ad un film, mi muovo come un archeologo. Parto dall’analisi della prima palata di polvere e poi mi sforzo di comprendere la realtà che vi si cela, invisibile all’occhio nudo. Provo a sbarazzarmi dei miei preconcetti, accolgo la novità, mi lascio sorprendere dal soggetto, lo lascio venire a me, senza forzarlo. Si tratta di un lungo lavoro preliminare, sia per quanto riguarda la selezione dei luoghi nei quali girerò, sia per quel che concerne la scelta dei personaggi. Incontro centinaia di persone prima di trovare quelle adatte a costruire una relazione. Entro nel loro quotidiano, lascio che si abituino alla mia presenza. Finalmente, arriva il momento in cui mi dico: “questa è la persona con la quale voglio lavorare, quella alla quale consegnare il mio tempo. Ed è questa persona che mi consegna il suo tempo e il suo mondo interiore, ed è pronta ad offrirlo a tutti noi”. Scelgo delle persone generose, che non vivono nella paura, persone curiose. È una storia di fiducia quella che si costruisce tra di noi: il timore di un tradimento è impensabile. Devo, quindi, trovare la giusta distanza tra chi filma e chi è filmato; colui che filmo non deve sentirsi giudicato. Non mi approprio della persona che filmo, non la soggiogo al mio sguardo. La rispetto perché è un’entità autonoma e unica. Le lascio piena libertà di movimento e cerco di cogliere le sue dinamiche interiori. Non faccio domande per non modificare il comportamento del soggetto filmato, non faccio interviste.
Questo tempo di conoscenza reciproca rappresenta il novanta per cento del mio lavoro. Solo alla fine sento che è giunto il momento di tirare fuori la telecamera. È un passaggio delicato, che in qualche misura si porta sempre dietro una certa sofferenza perché rappresenta un mutamento. Una parte di ciò che prima avevo colto svanisce inesorabilmente perché il soggetto filmato si trasforma, diventa attore. Fortunatamente, ho imparato con il tempo ad accettare questa perdita e ora so che, in quel momento, la realtà filmata diventa più vera del reale. La persona diventa personaggio. Il racconto diventa cinema».
In sala dal 09 settembre per 01 Distribution.
WIFE OF A SPY
Sinossi: È il 1940 a Kobe, la notte prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Il mercante locale Yusaku Fukuhara sente che le cose stanno prendendo una brutta piega e decide di recarsi in Manciuria, senza portare con sé la moglie Satoko. Lì è casualmente testimone di un atto di barbarie e, determinato a renderlo pubblico, entra in azione. Nel frattempo, Satoko viene contattata da Taiji Tsumori, suo amico d’infanzia e membro della polizia militare, il quale le racconta della morte di una donna che suo marito ha riportato in Giappone dalla Manciuria. Satoko è accecata dalla gelosia e se la prende con Yusaku. Ma quando scopre le vere intenzioni del marito, fa una cosa impensabile per garantire la sua incolumità e la loro felicità.
EXCL. Tre domande al regista Kiyoshi Kurosawa
1. Qual è lo scopo del film?
Ambientato in una città della campagna giapponese, durante il periodo angosciante e terribile della guerra, il film narra la lotta di una coppia per superare la sfiducia e restare fedele al proprio amore l’uno per l’altra. Si tratta del mio primo film ambientato nel passato. Muovendomi in un contesto storico e sociale già determinato, ho avuto modo di fare delle riflessioni molto interessanti mentre immaginavo quanto le persone dovessero sentirsi tormentate quando pensavano a cosa le aspettava in futuro.
2. Perché ambientarlo durante la Seconda guerra mondiale?
Il film non parla della guerra, fa da sfondo alla vicenda. Si evince che il Giappone ha commesso numerosi atti di spietata violenza sul suolo straniero. I due protagonisti di questa storia hanno combattuto con le loro emozioni mentre soffrivano e piangevano, arrivando a prendere una decisione che cambia per sempre le loro esistenze. Qual è l’obiettivo della guerra? Non è una domanda facile a cui rispondere. Nella storia delle guerre, alcune sono state combattute in nome della giustizia mentre altre non furono altro che invasioni. L’umanità ha combattuto per difendersi e, in molti casi, contro l’orgoglio. È difficile credere che tali violenze siano state commesse da politici e soldati, come se fossero posseduti allo stesso modo dal diavolo. Da un punto di vista oggettivo, sembra che il Giappone abbia preso un binario da cui ha poi deragliato a causa dell’orgoglio e dell’avidità. Tale follia si diffuse così rapidamente tra la gente che si ritenne giustificabile ogni strage. Chiunque negli anni Quaranta doveva fare i conti con questa follia.
Ho voluto raccontare la storia di coloro che hanno cercato di mantenere la loro sanità mentale in un contesto di rabbia. Satoko e Yusaku, i protagonisti, conducevano una vita normale fino a quando la follia collettiva ha provato a risucchiarli nel suo buco nero. Dovrebbero sfuggirle o dovrebbero sopportarla come se non succedesse nulla di straordinario? Non sono sicuro che il pubblico di oggi capisca le loro motivazioni e i loro conflitti interiori. Per il moderno Giappone, che oggi si basa sui concetti di libertà e pace, non sarà facile rivedere la follia passata. Eppure, la minaccia è sempre dietro l’angolo. Il mio lavoro invita a non abbassare la guardia: potrebbe essere più vicina di quanto si pensi.
3.E che ci dice della suspense a cui fa ricorso?
Spesso nei miei film al centro della storia vi sono due sposi. Spy of a Wife non fa eccezione. Il matrimonio è una relazione unica in cui un uomo e una donna di origini diverse si uniscono sotto lo stesso tetto, impegnandosi a condividere vita e destino. Ognuno di loro però custodisce un lato che l’altro non conosce e che spesso rimane ignoto per via della fiducia reciproca. Tuttavia, una leggera svolta degli eventi potrebbe far aumentare il lato nascosto. Prima che venga alla luce, sospetto e dubbio si insinuano in casa. Mentre la telecamera cattura la vita quotidiana e comune della coppia, il pubblico trattiene il fiato in attesa di quello che potrebbe accadere dopo. Questa forma di potente espressione cinematografica è ciò che chiamiamo suspense. Satolo e Yusaku a livello di suspense superano di gran lunga tutti i protagonisti dei miei precedenti film messi insieme.
Proiezioni odierne: fuori concorso
LOVE AFTER LOVE
Commento della regista Ann Hui: «Il film e? l’adattamento del primo racconto pubblicato di Zhang Ailing (Eileen Chang). Mi piace la trama, perché è la storia feroce di un ambiente confuso e ipocrita a Hong Kong, poco prima della Seconda guerra mondiale. Qui, un mondo tropicale e primitivo indossa abiti eleganti ed eccentrici, mentre le emozioni e le relazioni più melodrammatiche sono espresse in modo diretto, come se fossero normali. Ho voluto dare voce a questo ambiente unico, invece di dirigere un’altra sofisticata storia d’amore».
CITY HALL
Commento del regista Frerick Wiseman: «Ho girato City Hall per dimostrare che è necessario avere un governo se si vuole vivere bene insieme. City Hall ritrae un’amministrazione che offre un’ampia varietà di servizi importanti e necessari in una delle maggiori città americane, la cui popolazione ben rappresenta la storia della diversità degli Stati Uniti. Il governo della città di Boston ha lo scopo di offrire tali servizi, e si impegna a farlo, conformemente alla Costituzione e alle norme democratiche».
FUOCO SACRO
Commento del regista Antonio Maria Castaldo: «La storia dei vigili del fuoco è profondamente legata alla storia italiana. Le ansie, le difficoltà e i rischi che l’Italia ha corso nel suo tormentato cammino hanno segnato in profondità e a lungo la memoria collettiva. Ed è in queste ferite, in questi drammi, che ha potuto risplendere la straordinaria generosità di chi ha scelto di fare della propria vita una missione per gli altri. Con Fuoco Sacro ho voluto onorare tutti quegli uomini e quelle donne che con amore e competenza hanno fatto diventare il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco un’eccellenza italiana riconosciuta in tutto il mondo».
Proiezioni odierne: Orizzonti
TRAGIC JUNGLE
Commento della regista Yulene Olaizola: «Il film è ambientato nei primi anni venti del secolo scorso, all’epoca dell’estrazione della gomma, nella regione al confine tra Messico e Belize. Gli estrattori di gomma erano soliti addentrarsi nella giungla, per periodi di almeno otto mesi. Tragic Jungle immerge gli spettatori in questo ambiente ostile, calandoli nelle profondità dei conflitti umani che covano al suo interno. La giungla è un essere vivente tormentato da quegli uomini che cercano di usurpare i suoi tesori; la sua vendetta assume forme diverse e si avvale di piante velenose, sciami di zanzare, belve, e dei sortilegi di creature misteriose».
THE BEST IS YET TO COME
Commento del regista Jing Wang: «A causa della pandemia legata al coronavirus, la post-produzione è avvenuta online: io e il montatore eravamo lontani 1300 chilometri. Ma la distanza suscita riflessioni. Il film è ambientato a Pechino, diciassette anni fa. La storia di Han Dong è un evento marginale in un’epoca di infinite possibilità, in un tempo in cui la società era ancora alla ricerca di un suo equilibrio. La Cina si è sviluppata così in fretta che persino gli archivi di dieci anni fa risultano ormai stranianti. Io ho scelto di puntare il mio obiettivo sui volti della gente: i desideri, le incertezze, la sofferenza e la dignità per me emergono soprattutto nella memoria collettiva di un’epoca. Il film si basa su fatti realmente accaduti. Chi poteva dire che la storia si sarebbe ripetuta con la pandemia di coronavirus? I cambiamenti che Han Dong ha sognato nel film, sarebbero mai diventati realtà? Solo il tempo potrà dirlo».
Proiezioni odierne: Giornate degli Autori
GUIDA ROMANTICA A POSTI PERDUTI
EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA GIORGIA FARINA
Il viaggio: Amo viaggiare e a volte mi spaventa. Mi è capitato spesso di vivere l’idea di una vacanza con trepidazione ma poi nel momento stesso della partenza mi trovo a confrontarmi con ansie e aspettative che rovinano l’esperienza vera e propria. File di attesa lunghissime, alberghi al di sotto delle aspettative e per di più brutto tempo. Mi è sempre sembrato che fosse l’attesa per il viaggio futuro e il ricordo di quello passato a rendermi felice più del viaggiare in sé. Il viaggio per arrivare al viaggio.
Nel film il tema della ricerca del proprio posto nel mondo per entrambi i personaggi sta proprio nel rendersi conto che l’idea prestabilita del vivere può essere molto diversa da quella vera. E anche se quella vera è spesso divorata dall’ansia del futuro che ci allontana dal presente, non resta che abbandonarcisi e viverla.
Allegra e Benno: la strana coppia: Allegra e Benno sono incredibilmente diversi nelle loro disfunzionalità: lei è una giovane che ha paura di vivere e lui un uomo maturo al quale la vita sta chiedendo il conto. Queste diversità permettono alla storia di evolversi in un susseguirsi di crescendo personali ed emotivi. In realtà attraverso il road trip che intraprendono i due si riscoprono molto più simili di quanto credevano all’inizio, le loro idiosincrasie e piccole fragilità li avvicinano permettendo di metter in luce l’uno l’esistenza dell’altro che entrambi hanno nascosto in una matassa di bugie e false aspettative.
Il film: Ho deciso di raccontare una storia piccola, leggera e intima, lo sfioramento di due anime alla ricerca della chiave di lettura della loro esistenza. Come narratrice il mio scopo è quello è di risvegliare nel pubblico la curiosità e la necessità di concedersi un viaggio alla ricerca dei propri posti perduti nascosti tra le pieghe della vita. Un viaggio a ritroso che credo sia indispensabile se ci si vuole concedere una nuova possibilità per accettarci e per iniziare a scrivere la nostra guida personale.
In sala dal 24 settembre per Lucky Red.
SOLITAIRE
Commento del regista Edoardo Natoli: «Non farò mai più un film in stop-motion da solo. Sommerso da una specie di Italia in miniatura, mi ero ripromesso che, cascasse il mondo, non avrei più passato mesi segregato in casa a lavorare. Poi il mondo è cascato veramente. Ma a questo giro eravamo davvero segregati. Per i miei lavori precedenti ero abituato a svaligiare i negozi di bricolage di tutta Roma. Questa volta non avevo nulla. Potevo usare solo quello che avevo in casa: una stampante scassata, il retro di una vecchia carta da parati, degli acquerelli, il mio telefono con cui fare le foto e due paginette con dei disegni: uno studio su due personaggi fatti anni fa da Giuseppe di Maio. Erano dei bozzetti preparatori per i protagonisti di un piccolo soggetto che avevo scritto con la mia socia sceneggiatrice Paola Rota. Ci eravamo immaginati la vita di Renaud, un signore parigino su una sedia a rotelle, solitario, abitudinario, serenamente bloccato all'ultimo piano di un palazzo di Montmartre. Da questo spunto di qualche anno fa, è nata una piccola storia che, dopo questi mesi, potrà suonare più familiare a ognuno di noi».
TO THE MOON
Commento del regista Tadhg O'Sullivan: «È possibile che non vi sia niente di più universale che guardare la luna. Da quando gli esseri umani hanno camminato sulla Terra, quella presenza celeste ha catturato la nostra immaginazione. È stata oggetto di canzoni e implorazioni; ha preso le sembianze di una donna o di un uomo, è stata immaginata come l'inizio del cielo, come la sorgente dell'amore, della morte e della vita stessa; pensata come un'utopia per il nostro pianeta distopico; ritenuta responsabile di tutto, dalla follia alla fertilità. Una roccia sterile, trasformata nel nostro specchio. Ho cercato di tirare fuori tutto ciò da un film che fa propria l'esperienza universale di guardare il cielo di notte. In un'epoca di distanze e separazioni, spero che questo lavoro possa ricordarci ciò che l'umanità condivide - le relazioni che si formano attraverso i nostri sogni, le nostre paure, le nostre gioie e le nostre fragilità».
Proiezioni odierne: Settimana della critica
50 OR TWO WHLES MEET AT THE BEACH
EXCL. Commento del regista Jorge Cucchi: «Quando le persone decidono di suicidarsi, non lo fanno perché vogliono mettere fine alle loro vite. Lo fanno perché vogliono che cessino le loro tristezze. Il film racconta la storia di Felix ed Elisa, due ragazzi che sin dal primo momento ho visto mossi dal desiderio irresistibile di porre fine alle loro esistenze brevi e tristi. Giovani innamorati, circondati da alcuni buoni assenti e da altri malvagi presenti, si prestano al gioco del suicidio per vivere e amore con maggiore intensità ciò che resta delle loro vite rovinate (da altri, come sempre) portando avanti 50 sfide in 50 giorni. Alcuni mi hanno detto che il mio film è una sorta di avventura nichilista. Potrei essere d’accordo con loro».
J'ADOR
Commento del regista Simone Bozzelli: «Anche se ispirato da fatti di cronaca, quello che abbiamo raccontato in J’ador non vuole essere la descrizione di eventi realmente accaduti. Non si tratta, infatti, di copiare la vita, ma comprenderne certi aspetti e meccanismi: quelli che interessano a me, sono sempre quelli che riguardano le relazioni. Penso che ogni volta che due persone s'incontrano e stabiliscono una relazione si tratta di vedere chi domina l’altro. Questo piccolo film, che si muove sui binari di un coming of age, mi ha permesso di riflettere sui desideri e sulle paure represse dei nostri protagonisti. L'incontro/scontro fra Claudio e Lauro dà vita a una relazione che, attraverso un dominio “gerarchico” all'interno della gang, fa trasparire anche un dominio sentimentale dove, però, i ruoli non sembrano così chiari».
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