Michael Myers tra simboli e riletture.
Esattamente a 40 anni di distanza, il 25 ottobre 2018, torna la più grande e complessa figura mostruosa dello slasher e dell’horror tutto. L’ombra junghiana si fa corpo e irrompe nella nostra realtà, ricreata e rappresentata nella pacifica Haddonfield nei giorni di festa che precedono la notte di Ognissanti. Né volto, né voce. Michael è solo corpo – o ombra. Michael è la sua maschera. Il volto de-connotato del capitano Kirk di Star Trek (Gene Roddenberry, 1966-1969) è solo una “forma” biancastra con un tratteggio facciale minimo, il che basta per incutere timore e risvegliare ataviche paure assopite nel nostro inconscio. Tant’è che una delle caratteristiche della coulrofobia o della pediofobia è proprio l’impossibilità di identificare il volto, anzi, di vederlo esasperato da nasi rossi, trucco eccessivo, capelli appariscenti e abiti non comuni, nel caso dei pagliacci, e nel caso di una bambola, vederlo fisso, immobile e senza anima, senza vita, tanto da scatenare attacchi di panico. La fissità della maschera è proprio la caratteristica base che ne ha determinato da sempre la funzione folklorica e rituale: la spersonalizzazione. Inoltre, grazie alla maschera, al trucco e al costume, cadono le inibizioni più comuni e chi li indossa può così trasformarsi in qualcos’altro. Inoltre, la maschera total white di Michael non può che ricordare, benché possa essere solo una forzatura interpretativa, il mito della Balena Bianca di Moby Dick (Herman Melville, 1851), ovvero il simbolo del grande rimosso americano, articolato in seguito anche da Steven Spielberg in Jaws (1975) e da Cormac McCarthy in Blood Meridian (1985), nella figura del giudice Holden.
Michael è anche il suo coltellaccio da cucina, il suo Ersatz fallico con cui da bambino “penetra” la sorella immonda, uccidendola. L’oggetto coltello, al netto di tante altre armi, mani comprese, con cui uccide le sue vittime, resta il più identificativo del mostro Michael. È un tratto distintivo della sua figura, un significato aggiunto che apre più e più interpretazioni, una prerogativa, un’esclusiva, un marchio che lo identifica immediatamente agli occhi dello spettatore, anche del più profano o del neofita. L’immagine di un uomo alto e robusto con una maschera “sterilizzata” e un grosso coltello da cucina in mano non può essere fraintesa. Il coltello è un eccellente simbolo fallico, ma anche uno strumento da cucina che ci riconnette al classico mito della casa americana. Non a caso, sono molti i film e i racconti che trattano di case maledette e possedute da antichi demoni o da malvagi spettri in cerca di vendetta. La casa, come ci ha raccontato bene in uno dei suoi titoli più politici Wes Craven, da “bianca” e candida può diventare nera e ferale (The People Under the Stairs, 1991). La casa americana, pur differenziandosi come mito wasp per la borghesia della costa Est e mito accogliente della frontiera per i pionieri e i coloni della costa Ovest, trova un significato comune nella lettura capitalista della proprietà: «Get off my lawn» sentenzia Clint Eastwood in uno dei suoi ultimi capolavori, Gran Torino (2008). La casa, e per estensione l’istituzione familiare, come primo luogo e prima agenzia del terrore.
Michael è infine il Male Puro, così come lo tratteggia il Dr. Loomis in uno dei monologhi più celebri della storia del cinema dopo quello dell’USS Indianapolis di Robert Shaw in Jaws. E lo “squalo”, coincidenza, viene citato due volte lungo l’arco della saga. Nel primo episodio, Loomis paragona gli occhi di Michael a quelli di uno squalo, neri e senz’anima, gli occhi del diavolo, mentre Busta Rhymes, tra i personaggi di Halloween: Resurrection (Rick Rosenthal, 2002), descrive Michael Myers come “lo squalo che abbiamo dentro di noi”. La migliore descrizione di Michael resta comunque quella fatta dal dottor Loomis nel capolavoro del 1978, dove ai disturbi diagnosticati come catatonia, isteria, paranoia, psicosi e schizofrenia, aggiunge anche la più inquietante e indefinibile possessione demoniaca. Le sue parole non solo inquadrano bene chi e cosa è davvero Michael Myers per l’immaginario horror, ma permettono di comprendere la filosofia e l’idea di Male che John Carpenter ha voluto indagare concretandola, magari anche inconsapevolmente, nella figurazione totemica di Michael Myers.
Michael è molte cose e può avere molte interpretazioni. Dall’ombra junghiana al diavolo stesso, dal Male che si annida dentro ognuno di noi al risultato violento e sociopatico di una società malata. Di volta in volta Michael ha rappresentato l’uomo nero in tutte le sue accezioni e ogni volta restiamo affascinati dalle significazioni attribuitegli. Per chi scrive Michael è la summa di tutti i Michael Myers della saga ufficiale, ovvero il Male Puro, l’uomo nero, l’ombra della strega, la “forma”, the Shape – come viene chiamato nei titoli di testa del primo episodio.
Michael nasce come un serial killer vero e proprio, in carne ed ossa, dotato di una forza sovraumana, di grande tenacia e di una resistenza senza pari, per trasformarsi poi in un killer metafisico alle cui caratteristiche precedenti si aggiunge l’immortalità. Michael ritorna per uccidere ogni membro della sua famiglia passata e futura e chiunque si metta sul suo cammino. Appare in fondo a un corridoio poco illuminato o a una strada immersa nel buio. Le vittime possono correre quanto vogliono, ma svoltato l’angolo o salite le scale Michael appare subito alle loro calcagna. Questa è una delle sue caratteristiche più identificative ed evocative, ed anche la più inquietante: nessuno può sfuggire all’ombra della strega.
Mentre Michael Myers è sospeso tra fisica e metafisica, Leatherface di The Texas Chain Saw Massacre (Tobe Hooper, 1974) è un killer psicopatico reale e soprattutto carnale, mentre Jason Voorhees di Friday the 13th (Sean S. Cunningham, 1980) e Freddy Krueger di Nightmare on Elm Street (Wes Craven, 1984) appartengono al soprannaturale puro e la loro immortalità, il loro continuo ritorno, è ampiamente giustificato e mai messo in discussione, come succede appunto per ogni vero revenant. La celebre e angosciante immortalità di Michael, invece, deriva, innanzitutto da un puro espediente narrativo per proseguire all’infinito una saga estremamente evocativa nel suo pur semplice plot e nata da un film culto pur sempre remunerativo, ma nasce anche dalla potenza immaginifica della figura mostruosa stessa. Le caratteristiche di Michael Myers tratteggiate poco sopra, l’aura di ignoto che lo pervade, lo anticipa e lo segue, la natura sfuggente delle sue patologie sospese tra medicina e superstizione, l’indefinibilità dei tratti somatici nascosti e alterati dalla maschera, l’approssimazione della figura umana celata dietro la scura tuta da meccanico, l’ubiquità soffocante e le già citate caratteristiche fisiche, potenza sovrumana, resistenza e tenacia fuori dal comune umano, definiscono anche Michael Myers, sempre all’interno delle categorie estetiche e poetiche del fantastico, come un puro revenant, la cui immortalità e il continuo ritorno sono strettamente correlate con la sua natura stregonesca e inspiegabile.
Nel sesto episodio della saga ufficiale, ma spuria, si è cercato di trovare un’origine al Male Puro, una giustificazione alla sua immortalità e alla sua ferina missione omicida. Qui Michael assume uno status divino a causa della maledizione del simbolo dell’alfabeto gotico anglosassone ed islandese del Thorn, Þ, di derivazione runica, il cui significato è “gigante”. Nei poemi runici, il Thorn è il gigante opposto agli dèi, lo J?tunn di derivazione protogermanica e che può avere più accezioni come “ingordo” e “mangiatore di uomini” che tortura e causa dolore alle donne. Questa maledizione, organizzata dal Culto della Spina e dall’uomo vestito di nero che appare nel quinto e sesto capitolo della serie, dota la sua vittima, Michael, di una coscienza per la quale solo la perpetua uccisione di ogni membro della sua famiglia può portare equilibrio nel mondo e sanare i flagelli dell’umanità, come emerge appunto in Halloween 6: The Curse of Michael Myers (Joe Chappelle, 1995). Questa trovata spiegazionista, pur affascinante tanto quanto quella, ovviamente più suggestiva, di Rob Zombie per il quale Michael è semplicemente l’Anticristo, depotenzia comunque tutto il fascino terrorifico della figura del Male nata nel 1978. La primitività del Michael Myers di John Carpenter – il Samhain e le riflessioni del dottor Loomis [“Sam” Loomis] – è cosmica e universale, ovvero coinvolge ogni essere umano e si perpetua nella Storia dell’umanità. Da questa figura mitologica nata dal genio creativo del regista, che forse non voleva nient’altro che trovare un killer accattivante per quel suo primo film commerciale che doveva intitolarsi The Babysitter Murders, conseguono caratteristiche come l’immortalità, la forza sovraumana, il dono dell’ubiquità, l’assenza di voce e volto – a parte gli occhi che di tanto in tanto fanno capolino da sotto la maschera – che fanno di Michael Myers una rappresentazione azzeccata di paure ataviche, enigmi e misteri primigeni che si perdono nella notte dei tempi, ma che l’uomo porta con sé nei corridoi bui del proprio animo.
Le timelines della saga: linea pura, linea spuria e linea radicale.
La saga, e per saga intendiamo tutti i film che hanno Michael Myers come personaggio iconico, è composta da ben 11 film. Da questi undici film bisogna escludere innanzitutto i due reboot di Rob Zombie (Halloween – The Beginning, 2007; Halloween II, 2009) che, oltre alla loro infelice inutilità, tolgono al film originale tutto il suo misticismo e il suo valore aggiunto. A John Carpenter, per sua stessa ammissione, non interessava scavare nel passato di Michael per trovare l’origine del Male. Carpenter non voleva risposte, e tantomeno faceva domande: semplicemente rappresentava quello che c’era. Michael per Carpenter è una forza della natura, ai limiti del soprannaturale. Nel dittico di Rob Zombie si vuole invece dare una spiegazione a tutto, cancellando di colpo tutta la suggestione enigmatica del personaggio. Il respiro fiabesco del film originale si perde proprio a causa di tutti i tentativi di incastrare e obbligare gli eventi in coordinate precise, strettamente connesse con la realtà e la razionalità. Dei film che restano va tolto anche Halloween III (Tommy Lee Wallace, 1982) che, pur prodotto da John Carpenter, Debra Hill e il produttore storico Moustapha Akkad, dell’originale ripropone solo la notte di Halloween come ambientazione, il titolo del franchise e il tema musicale dello stesso Carpenter. Per il resto, il film non menziona né Michael Myers né Laurie Strode.
Restano così 8 film che seguono però tre timeline diverse. La prima è la linea temporale della narrazione ufficiale, ovvero quella che ha come riferimento di base il film diretto nel 1978 da Carpenter e che utilizza regolarmente i personaggi di Michael Myers, Laurie Strode e del dottor Loomis, interpretati, tra l’altro, sempre dagli stessi attori – caso a parte per Michael Myers che è di volta in volta impersonato da attori e/o stuntmen diversi: Nick Castle (Halloween, 1978; Halloween, 2018), Dick Warlock (Halloween II, 1981), George P. Wilbur (Halloween 4: The Return of Michael Myers, 1988; Halloween 6: The Curse of Michael Myers, 1995), Don Shanks (Halloween 5: The Revenge of Michael Myers, 1989), Chris Durand (Halloween: H20: Twenty Years Later, 1998), Brad Loree (Halloween: Resurrection, 2002) e Tyler Mane, alias Daryl Karolat, wrestler canadese, per i due reboot di Rob Zombie (Halloween, 2007; Halloween II, 2009). Questa linea narrativa è la linea pura della saga ufficiale e comprende Halloween (John Carpenter, 1978), Halloween II (Nick Rosenthal, 1981), Halloween: H20: Twenty Years Later (Steve Miner, 1998), Halloween: Resurrection (Rick Rosenthal, 2002) e Halloween (David Gordon Green, 2018). In questi film il plot si concentra sullo scontro tra Laurie Strode, alias Cynthia Myers, diventata poi Keri Tate, e il fratello Michael e conferma la presenza anche del dottor Loomis, almeno fino a quando il grande attore britannico Donald Pleasence è ancora vivo (2 febbraio del 1995).
La linea spuria della saga ufficiale è quella che parte sempre dal film del 1978 di Carpenter e dal capitolo successivo firmato da Rick Rosenthal per abbandonare in seguito il personaggio di Laurie Strode, dandola morta, e continuando la saga attraverso la figlia di Laurie, Jamie, e più avanti del di lei figlio che, nell’edizione americana, si scopre essere figlio dello stesso Michael, grazie a un’operazione incestuosa voluta e organizzata dagli adepti del Culto della Spina. Sempre nel sesto capitolo, l’edizione americana prevede anche un nuovo faccia a faccia tra Loomis e Michael dopo quello leggendario proposto nel capitolo precedente, per poi scoprire che dietro la maschera c’è in realtà il dottor Wynn, il medico amico di Loomis – citato già nel primo film del 1978 – oggi a capo del Culto della Spina e che prima di morire passerà a Loomis, attraverso un sortilegio, il compito di vegliare su Michael marchiandolo a fuoco con il simbolo runico del Thorn: da qui l’urlo di dolore che nell’edizione italiana sentiamo senza l’ausilio di nessuna immagine e che fa pensare immediatamente alla morte di Loomis per mano di Michael, intuizione giustificata dalla scomparsa di Pleasence nel febbraio del 1995.
La terza timeline è quella che prende le mosse dall’originale del 1978 e passa direttamente al sequel del 2018, diretto da David Gordon Green, ma con la benedizione e supervisione produttiva nell’esecutivo proprio di John Carpenter. È la linea radicale che sgombra il campo da tutti i sequel succedutisi in quarant’anni, sbarazzandosi pure di quelli più meritevoli e degni di ricordo come Halloween II, Halloween 4, Halloween 5 e Halloween: H20: Twenty Years Later. Dopotutto, la firma di Carpenter, al netto delle citazioni dovute come creatore del personaggio e del tema musicale principale, è posta soltanto sulla sceneggiatura del primo e del secondo episodio, insieme a quella di Debra Hill. Mentre per l’episodio del 2018 Carpenter è produttore esecutivo, creatore del personaggio e del tema principale, oltre che nume tutelare del progetto. Ecco perché la timeline radicale può ben essere chiamata la timeline carpenteriana, proprio perché la presenza del regista come produttore è un unicum per quanto riguarda i sequel – salvo per il secondo episodio dell’81 dove Carpenter è pure produttore. Vale comunque la pena sottolineare che Moustapha Akkad prima e il figlio Malek dopo sono sempre stati produttori della saga ufficiale, mantenendo così una continuità affettiva e spirituale con il film originale – Malek Akkad ha prodotto anche il dittico di Rob Zombie.
Quindi, Halloween 2018 si inserisce immediatamente dopo il primo film del 1978, anche se avrebbe avuto molto più senso collocarlo dopo Halloween: Resurrection spiegando rapidamente che la Keri Tate impersonata per anni da Laurie Strode, prima ricoverata in un ospedale psichiatrico e poi data per morta nel 2002 in seguito a uno scontro mortale con il fratello, si è rifatta una nuova vita, con una figlia e una nipote, oltre al figlio John, interpretato a suo tempo da Josh Hartnett. Se questi esistenti, in linea diretta con la timeline pura risultavano troppo articolati e posticci, si sarebbe dovuto ripartire per lo meno dal secondo episodio, il migliore tra i sequel. La produzione ha invece optato per riprendere la storia esattamente 40 anni dopo gli eventi del primo episodio, ovvero a 40 anni da quel fatidico 1978. Anche perché, da quella notte, la festa di Halloween e le maschere tutte non sono più le stesse.
Il mio Michael Myers.
Io sono nato il 12 luglio del 1978. In America, il 25 ottobre dello stesso anno usciva a Kansas City Halloween firmato da John Carpenter. Anche se nella linea temporale della finzione narrativa Michael Myers nasce molto prima, nel 1957, in realtà la sua immagine fa capolino nel nostro immaginario proprio in quel 1978. Io e Michael Myers abbiamo così la stessa età. Inoltre, l’ho sognato ben due volte nella mia vita – il primo sogno ricordo di averlo trascritto immediatamente la mattina seguente al computer sotto forma di racconto il 30 novembre del 2003 – e per me Michael Myers è ormai diventato una questione personale.
Così, esattamente a 40 anni di distanza, i miei stessi 40 anni, il 25 ottobre 2018, continua con un nuovo episodio una delle saghe slasher più fondamentali di tutta la storia. Mentre Friday the 13th e Nightmare on Elm Street con rispettivamente 9 sequel, un crossover e un reboot il primo, e 6 sequel, un crossover – lo stesso – e un reboot il secondo, hanno avuto una timeline più semplice e coerente, nonostante bizzarrie come Jason X (James Isaac, 2002), ovvero “Jason nello spazio”, la saga di Halloween ha avuto un’articolazione più contorta, con linee narrative diverse e continui rilanci del franchise. Lo stesso, e anche peggio, è successo alla saga di The Texas Chain Saw Massacre e alla sua maschera mostruosa, Leatherface: 3 sequel (1986, 1990, 1994), 2 reboot (2013, 2017), un reboot (2003) e addirittura un prequel al reboot (2006).
Obiettivamente, queste articolazioni, se da un lato danno pane a critici ed esegeti per ricostruire le varie linee narrative, aprire narrazioni parallele, lanciarsi in studi filologici e quant’altro, ai puristi delle saghe danno sicuramente il piacere di spettacoli spesso diversi e spiazzanti, ma tolgono il piacere più desiderato, ovvero quello di ritrovare personaggi e plot di base che sono all’origine dell’affezione alla saga. Ma, di scorza dura, gli appassionati sanno accettare, sanno adeguarsi, gioire dei nuovi titoli in produzione e sanno attendere il capitolo definitivo con grande obbedienza.
Nel mio caso di cultore duro e puro della serie carpenteriana – ma mentirei se non confessassi di esserlo pure di, in ordine cronologico, The Texas Chain Saw Massacre, Friday the 13th, Nightmare e Scream – credo che, al netto degli episodi già esistenti che non si possono cancellare con uno schiocco di dita, anche perché come già detto non sono pochi i sequel che andrebbero ricordati, avrei comunque fatto ripartire la saga da Halloween: Resurrection.
L’ottavo capitolo iniziava con la morte di Laurie Strode in un ospedale psichiatrico dopo che il fratello Michael l’aveva ritrovata anni dopo il loro ultimo confronto che, dal montaggio retrospettivo tipico di tre capitoli della saga – il secondo, il quinto e l’ottavo – scopriamo non essere andato come credevamo. Michael si era sostituito a un paramedico cambiando di vestito, e il malcapitato si era ritrovato suo malgrado nei panni del serial killer. Ammetto che questa invenzione per riattivare la saga non l’ho mai condivisa, però serve per capire che tra il settimo e l’ottavo capitolo c’è davvero continuità nonostante Laurie Strode, ex Keri Tate, esca subito di scena e non si accenni affatto al figlio John.
Così Michael, dopo aver raggiunto il suo scopo, ovvero uccidere la sorella e completare l’opera, e senza dover accanirsi sulla sua progenie come descritto dalla linea narrativa spuria, non ha altro da fare che tornarsene a casa, al 45 di Lampkin Lane, ad Haddonfield, Illinois, nella casa maledetta che nessuno ha voluto comprare e che oggi è ancora lì abbandonata, oggetto di culto per bambini e adolescenti coraggiosi e monito borghese per moralizzatori puritani. Coincidenza vuole che un’emittente internet abbia programmato una puntata del proprio show in stile reality esattamente nella vecchia casa dei Myers, dando a Michael l’occasione di continuare nella sua mattanza.
Resto quindi del parere che il mio personale Halloween sarebbe ripartito da qui, riavvolgendo la struttura della fabula solo fino al capitolo 8, epurandola di ciò che depistava troppo lo spettatore e il cultore dal capitolo originale e proseguendo sulla stessa linea narrativa, ovvero con Laurie Strode, il figlio John e Michael Myers. Purtroppo, per ovvi motivi, il personaggio del dottor Loomis non era più disponibile e sarebbe stato oltraggioso sostituirlo. Mentre per gli altri ruoli, vedi la figlia e la nipote di Laurie del capitolo 2018, si poteva chiaramente giocare di fantasia senza precludere nessuno scenario, anzi, perché non riportare in scena Tommy Doyle e lo sceriffo Brackett per esempio?
Oltre alla collocazione di un nuovo episodio della saga, un altro problema, ben evidente lungo l’arco di tutta la serie, pura o spuria, è il continuo processo di umanizzazione di Michael Myers. Il mio personale Michael Myers sarebbe l’esatta figura del personaggio del film originale, anche se non va dimenticato che l’alone mistico e divino, o per lo meno metafisico del personaggio, è avvertibile solo con il secondo episodio quando è palese l’invulnerabilità e finanche l’immortalità di Michael. Nel film di Carpenter invece, Michael è un ragazzone in carne e ossa scappato da un sanatorio per uccidere la sorella. Guida macchine, ruba oggetti, apre e chiude porte e così via. Nel secondo episodio, l’automatismo spersonalizzato del personaggio è più ricercato e conferirà la caratteristica più iconica del mostro Michael.
Il mio Michael Myers quindi non aprirebbe nessuna porta, apparirebbe già nella stanza o in fondo a un corridoio o in cima alle scale. Non guiderebbe nessuna macchina, ma sarebbe sempre ovunque, raggiungendo le sue vittime anche quando le leggi spazio-temporali sembrerebbero impedirglielo. Inoltre, aspetto molto importante, sarebbe ridotto quasi pari allo zero il suo essere senziente e aumentato invece il suo essere automa, un’ombra, una forma, niente più. Il mio Michael Myers non pensa, agisce. Come lo parafrasa lo stesso creatore, Michael è una forza della natura, ha qualcosa di soprannaturale che non va spiegato, ma solo agito.
Va detto però che sono più che interessanti e pure utili quegli sprazzi di umanità che intravediamo in Michael nel primo, nel quinto e nel settimo capitolo – nel quinto addirittura gli scappa una lacrima – ma devono restare casi isolati ed estremamente circoscritti. Se la serie vuole mantenere il suo appeal deve necessariamente tornare all’origine e allo spirito stregonesco, fantastico, inspiegabile, insolito, insomma todoroviano del primo capitolo. Non solo, deve tornare allo spirito di quel cinema, di quell’epoca, dove si poteva osare, dove lo spauracchio del box office era meno spaventoso, dove il fermento culturale e la controcultura dei Settanta permetteva affondi e rappresentazioni intellettuali attraverso le forme del genere, dall’horror al western, dal poliziesco alla sci-fi, dalla commedia al pornografico.
Il mio Michael Myers sarebbe, in conclusione, solo una mostro a caccia della sorella, disposto ad uccidere chiunque gli intralci il cammino. Un mostro la cui immortalità, la cui forza sovraumana e l’ubiquità non trovano risposte, ma nemmeno domande. I personaggi si trovano davanti all’ancestrale mistero del Male Puro, dell’ombra sbucata fuori dall’oscurità, da un corridoio buio, da sotto il letto, da dentro l’armadio, da dietro un albero, una siepe o dietro a un angolo di una strada deserta, e non devono farsi domande. Devono solo scappare, fuggire il più lontano possibile, continuare a fuggire, correre, scappare e a un certo punto, affrontare il mostro.
Mauro Fradegradi – Abbiategrasso, 22 ottobre 2018
Qui i link per due vecchi articoli:
HALLOWEEN SAGA. Storia, analisi e contesto di una mostruosità.
//www.filmtv.it/post/30319/halloween-saga-storia-contesto-e-analisi-di-una-mostruosita
//www.filmtv.it/post/30321/halloween-saga-storia-contesto-e-analisi-di-una-mostruosita
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