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HALLOWEEN SAGA. Storia, contesto e analisi di una mostruosità (II)
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Halloween (1978). Sarebbe riduttivo dire che Halloween è solo un film citazionista, un gioco per cinefili. Gli omaggi, le citazioni e i giochi intertestuali abbondano, è vero, ma permettono al regista di definire la propria poetica attraverso la confessione della propria formazione, delle proprie passioni e ossessioni. Con questa specifica intertestualità, Halloween è un film post-moderno come quelli citazionisti di Quentin Tarantino, arrivati però solo con gli anni ’90 con tutto lo stuolo a seguire di seguaci, epigoni ed imitatori. Carpenter invece, come lo stesso Tarantino, rielabora fin dalle origini del post-modernismo la citazione e la rilegge non fine a se stessa, bensì in funzione della propria intenzione autoriale che non si ferma solo all’omaggio dei generi preferiti, horror, sci-fi e western, ma prosegue nella creazione di uno stile e di un linguaggio oggi imperanti.

È quindi un film perfetto nel tradurre in tecnica il contenuto ambiguo insito nel film. Halloween infatti, non è solo la rappresentazione del destino castrante di chi eccede in vizi sessuale, alcolici o drogastici come hanno creduto molti critici, ma la semplice irruzione del male nel quotidiano. Male e fantastico irrompono così nella vita di ognuno, scardinando ogni certezza e aprendo scenari irrazionali che altrimenti non verrebbero aperti. Halloween è la traduzione in mostruoso della società imperante e castrante che non accetta la vita leggera dei giovani dell’epoca, demonizza il sesso e altri vizi e vede come unica soluzione la rigida repressione moralista che è poi un fondamento del modello americano. Quindi le vittime non sono “cattive” perché fanno cose proibite venendo così punite con la morte da un imprecisato giustiziere mascherato, ma sono proprio e solo “vittime”, vittime innocenti.

Se Laurie Strode si salva e combatte Michael non lo fa perché è l’emblema dell’eroina pura e morigerata sul modello della Clarissa richardsoniana – fondamento della cultura colonica statunitense prima di individuare la propria indigena americanità – ma se combatte e si salva dal mostro è perché è l’unica che può tenergli testa. E può tenergli testa perché è anche lei sessualmente disturbata come lo è Michael. Mentre Judith, Annie, Lynda e Bob sono solo “vittime” e non riescono a combattere il mostro, l’ombra, il Boogeyman, è perché il loro livello, come personaggi e come segni narrativi, arriva solo alla trasgressione e lì si ferma. Mentre Laurie è come se la trasgressione l’avesse già superata, e si trovasse ad un livello più alto e meno definibile, quello della discussione, della turba, del dubbio, del prurito. Un livello che può precedere la trasgressione, perché ne è l’attesa, ma che può anche superarla perché ne è una riflessione.

Nel film stesso Laurie viene definita dalle amiche come una ragazza che ha paura del sesso e non come una ragazza dai solidi principi morali. Laurie non rifiuta il sesso per moralismo, lo rifiuta perché ne ha paura. Qualcosa in lei l’avvicina alla sessualità per poi allontanarla. L’emblema fallico che sovrasta simbolicamente tutto il film è il celebre coltellaccio da cucina con cui il piccolo Michael uccide la sorella Judith. Il coltello così sostituisce il membro maschile, ancora non sviluppato nel bambino, e va a “penetrare” la carne della sorella peccatrice. Inoltre, se non volessimo affidare a Michael il ruolo di castratore moralista potremmo individuare nel suo irrefrenabile istinto all’omicidio della sorella una possibile impotenza, una coscienzalizzazione della propria mancanza di virilità dovuta per la giovanissima età, piuttosto che per una pruderia invidiosa del membro adulto dei ragazzi più grandi, piuttosto che per una personale consapevolezza della propria impotenza.

Halloween rimane un capolavoro all’interno dello slasher-movie anche perché all’eccesso della visione (gore, splatter, sbudellamenti, ferocia gratuita) vi ha sostituito l’angoscia del buio come zona d’ombra del nostro io segreto ed inavvicinabile. La notte, che sarà poi una costante del cinema carpenteriano, assume così i tratti di un luogo definito, proprio come se fosse un paese, una via, una casa, una stanza. Tra l’altro stando alla psicologia, la casa rappresenta la madre, la femmina, quindi una sessualità mai diventata adulta. Anche questo contribuirebbe a credere che Laurie Strode non sia eroica perché casta, perché braccata in una casa/alcova in cui si rifugia per scappare da una istintualità minacciosa, ma eroica perché “vede” la mostruosità, vede poco alla volta l’ombra della strega. Infatti, a parte il dottor Loomis, solo il piccolo Tommy Doyle avvertirà la presenza misteriosa di quella sagoma nera che aleggia fuori casa.

Il fatto che durante l’arco del film venga più e più volte messa in discussione la credibilità di Tommy significa che l’autore fosse più che consapevole nel suggerire che solo chi è a stretto contatto con la fantasia può immaginarsi e ricreare mondi diversi e soluzioni altre. Mentre le “vittime” e in generale i personaggi secondari e ben radicati nel tessuto reale della storia scansano subito l’idea irrazionale, il film ce ne presenta altri tre che vanno in direzione contraria: una moderna Cassandra, Loomis, a cui nessuno presta attenzione; Laurie Strode che vede e non vede e che inizialmente non capisce cosa stia succedendo; e Tommy Doyle che invece ci vede benissimo e vive la sua notte di Halloween come andrebbe davvero vissuta: credendo all’incredibile. Confondendo il reale con l’irreale Tommy ha potuto intravedere una dimensione diversa. Né migliore né peggiore, semplicemente diversa, altra, alternativa. Questo dovrebbe essere anche il fine ultimo del cinema, soprattutto di quello di genere che John Carpenter ama smisuratamente. In definitiva si può ben dire che il vero protagonista è il piccolo Tommy Doyle, che è poi Carpenter stesso.

Da “psicotico con un grave disturbo della sfera sessuale” come dice Fabrizio Liberti (7) a figura infera, incarnazione del demonio. È lo stesso dottor Loomis a descriverlo in questi termine parlando di due occhi vuoti, inumani, gli occhi del diavolo. Michael, ormai è confermato, non è l’agente castratore, il punisher dei giovani trasgressivi che l’America bene non può accettare, ma l’incarnazione ombrale delle proprie paure, le proprie psicosi, le proprie tare.

A questo si allaccia per conseguenza l’intera riflessione sul filone slasher: il massacro dei giovani per esorcizzare la morte negli adulti; o ancora, la mattanza di alcuni stereotipi giovanili, come la puttana, l’atleta, lo studioso, il buffone e la vergine, che può sopravvivere come morire, per placare la nostalgia di un’età ormai superata e che non tornerà mai più oppure per sedare l’invidia rabbiosa verso una libertà del corpo da sempre frenata e castrata. Lo svelamento dei meccanismi che governano il genere horror, iniziato da Wes Craven con il primo Scream e tutt’oggi in corso con i sequel del capostipite, ma anche con titoli come Quella casa nel bosco (2012) di Drew Goddard da cui si trae questa conclusione, rivelano anche la fonte filosofica ed esistenziale che soprassiede ai topoi del genere.

Chiaramente ha significato, in una lettura profonda del film, anche il tema della maschera. Anche il Liberti afferma che la maschera, nella sua accezione di individuo infernale è persona. Quindi Michael è sì il Male Puro, assoluto, indefinito, imprendibile, ingabbiabile, irrefrenabile che arriva sempre laddove c’è un’incrinatura della morale o delle convinzioni dominanti, ma è anche segno di rinuncia, di dissociazione, di scelta asociale, di spersonalizzazione dell’umano e di personalizzazione dell’inumano. Un diavolo mascherato da “uomo che si maschera”. Un contorto gioco di specchi e di rimandi che non conduce a nessun porto, ma che perpetua quella lotta irrazionale e “notturna” tra l’uomo e se stesso.

A questo proposito ci si può ben chiedere perché Michael prima di uccidere Lynda si mascheri da Bob che si maschera da fantasma, con tanto di autoironici occhialoni sopra il lenzuolo. Una maschera che si maschera da uno che si maschera. Per molti può essere semplicemente un atto goliardico per stemperare la drammaticità degli eventi e allo stesso modo creare straniamento attraverso lo stridere dei due registi; per altri può invece essere un ulteriore segnale della dimensione infantile che perdura in Michael, supportata anche dagli sguardi pseudo-innocenti con cui l’assassino guarda le sue vittime – quasi un bambino che osserva il cadavere putrescente di un animale; per altri ancora può essere una scelta linguistica per insistere sul peso della maschera e della mascherazione nell’esegesi del film.

Se la maschera è una concrezione fisica e tangibile di uno specchio al contrario, dove la propria immagine non è più riflessa, bensì indossata e che va così a sostituire l’Io pubblico con l’emersione dello Es più intimo, possiamo dire che in Halloween Carpenter ci fa attraversare lo specchio come Alice, ci fa indossare la maschera e attraversare lo specchio in cui siamo riflessi e mascherati. Ci introduce così in un mondo di simboli psicoanalitici dove Laurie Strode, e noi con lei, rivediamo noi stessi nella mostruosità e la combattiamo allo stesso livello di svelazione e leggibilità del segno freudiano di libido e destrudo. Il risultato è che nell’uccisione del nostro Super-Io possiamo elevarci a soggetti liberi, maturi e responsabili senza più turbe, tabù e repressioni. Laurie e Michael operano così come rappresentazioni di Eros e Thanatos sia ad un primo livello, quello letterale, di prima significazione segnica, dove Michael incarna l’assassino e Laurie la preda; sia ad un secondo livello, più simbolico ed interpretativo, dove Michael incarna la morte e Laurie la vita. A conferma di questo basta considerare le soggettive dell’assassino, mutuate da Dario Argento, che ci identificano irrimediabilmente con il mostro.

Senza dimenticare che Michael può anche essere la proiezione del Super-Io di Laurie, la preda richardsoniana uccidendo il nuovo big bad wolf lovelaciano, il seduttore fatale e mortifero, inverte il canone dell’eroina virtuosa che morendo critica la società degenerata e riequilibria così il proprio asse psicologico sconfiggendo sì l’ombra della strega, ma anche scoprendo il vaso di Pandora fino allora sconosciuto che ne giustifica il continuo e perpetuo ritorno minaccioso.

I sequel. Come ogni opera estremamente elementare, nata dalla sviscerazione degli archetipi più primitivi, si possono fare numerose interpretazioni. Quando il successo commerciale decreta a tale opera lo status di culto si provvede subito alla sua riproposizione seriale in modo da continuarne il successo economico. Questo si raggiunge con la riproposta, spesso e volentieri sterile, delle caratteristiche dell’opera originale. Non sempre però i sequel sono inferiori al capitolo iniziale. Quasi sempre è dal terzo episodio in avanti che l’impianto narrativo ed immaginifico iniziano a zoppicare fino alla morte fisiologica della serie. Spesso, il secondo capitolo non tradisce le aspettative e resta sintonizzato sulle caratteristiche identificative dell’originale. È il caso per esempio de Il Padrino – parte seconda (1974), Lo squalo II (1978), L’impero colpisce ancora (1980), Aliens (1986), Scream 2 (1997), Saw II (205), Il cavaliere oscuro (2008) e molti altri titoli seriali che hanno fatto bene pure nei terzi e quarti episodi. A questi va aggiunto Halloween II – Il signore della morte (1981) di Rick Rosenthal il cui incipit è la ripresa dell’epilogo del film di Carpenter.

Va notata inoltre la differenza del doppiaggio italiano. In Halloween – La notte delle streghe, dopo che il dottor Loomis spara a Michael scaraventandolo giù dal balcone Laurie Strode gli chiede: “Era l’ombra della strega?” e lui le risponde “Credo proprio di sì… era lui!”. Nel prologo di Halloween II – Il signore della morte, il dialogo è pressoché cambiato. Laurie: “Chi era quel mostro?”; Loomis: “Già, era proprio un mostro”. È una sottigliezza, ma imprudentemente la traduzione e la modificazione del dialogo ha spostato l’immaginario del primo capitolo, orientato verso un’ombra non ben definibile, verso un’omologazione della paure di più ben facile lettura indirizzando l’immaginario più su un piano moralistico – è un uomo mostruoso perché fa cose orrende – che su un piano trascendentale.

Nell’originale invece abbiamo il seguente dialogo, Laurie: “It was the boogeyman?”; Loomis: “As a matter of fact… it was!”. Laurie quindi chiede al dottore se quell’assassino era il tanto chiacchierato “uomo nero” che i bambini vedevano ovunque e che nella versione italiana a volte è chiamato anche “l’ombra della Strega”, e lui le risponde che alla luce dei fatti sì… è proprio l’uomo nero. Non quindi un mostro in senso antropologico derivato dalla cronaca nera e quindi di accezione moralistica, ma un’ombra junghiana, un uomo nero nascosto sotto il letto, qualcosa di arcano e primitivo che va oltre le categorie di giudizio morale e vegeta nell’interstizio tra notte e giorno, tra sonno e veglia, tra desiderio e rifiuto.

Il secondo capitolo quindi, parte dal finale del precedente – tra l’altro per me una delle sequenze più memorabili della storia del cinema, di cui due scene sono ancora insuperate per stile ed efficacia: l’apparizione di Michael contro luce dopo il primo colpo di pistola di Loomis e il giardino senza più il cadavere di Michael con il tema di Carpenter che incalza inesorabile. Rick Rosenthal unisce così i due capitoli mantenendo la stessa atmosfera e abbozzando quell’idea di immortalità che ammanterà la figura di Myers almeno fino l’ultimo episodio della serie ufficiale.

Su questo punto bisogna però precisare che i sequel a venire tenderanno a ricondurre Michael Myers sempre più alla realtà suggerendo solo una forza fisica sovraumana che ne impedisce la morte. La magia del quarto capitolo, ovvero l’ubiquità di Michael, l’ambientazione claustrofobica della casa assediata, l’ombra costante in cui si muovono vittime e carnefice, i contorni onirici, sfumati che rendono tutto un incubo ad occhi aperti, compresa la morte finale di Michael che letteralmente sprofonda all’inferno, viene rovinata dal quinto episodio che ci svela come ha fatto a mettersi in salvo facendosi trascinare dalle acque di un torrente – un novello Mosè? Inoltre nel sesto episodio Michael non appare più come un’entità infernale, ma ci viene presentato con sciatteria contravvenendo alla regola dello Squalo di Spielberg: il mostro non va mostrato subito, ma poco alla volta. In più ha un seguito di seguaci druidici che ne distruggono tutto l’immaginario carpenteriano.

Il secondo capitolo è comunque un film solido e ben diretto che non si allontana dall’originale e ne perpetua stili ed atmosfera. È anche il capitolo in cui si viene a sapere che Michael è il fratello di Laurie. E qui nasce una domanda che cercherò di formulare nel modo più semplice e chiaro possibile: perché nel primo episodio Michael prende di mira proprio Laurie Strode se non viene mai detto che è sua sorella, dato anche il fatto che durante la riprese del primo film non si pensava certo ad un sequel o ad una serie con cui motivare questa ossessione? Carpenter e Debra Hill non credo avessero deciso che Michael era il fratello di Laurie, se no lo avrebbero detto. Incongruenza? Suggerisco invece, di leggere il film di Carpenter non con gli occhi di Michael che ritorna a mietere le sue vittime, ma con quelli di Laurie che vive delle turbe sessuali come molte sue coetanee e suoi coetanei – basti guardare Porky’s (1982) – che risentono dello squilibrio tra la libertà sessuale che dal ’68 in avanti scandiva la percezione del proprio corpo in relazione a quello altrui e la moralità puritana tipica delle classi borghesi americane che si affacciavano al decennio edonista in contraddizione con se stesse.

Halloween II ha anche il pregio di stare alle unità drammatiche di Carpenter che tanto hanno fatto la gioia dei suoi fans più o meno fino alla metà degli anni ’80. L’ospedale diventa il nuovo teatro della mattanza e l’ambientazione è riuscitissima grazie ad una messa in scena evocativa. Infatti l’ospedale è praticamente deserto, non vediamo altri pazienti oltre a un bambino che si è orrendamente ficcato una lametta tra le gengive, e anche il personale medico è ridotto all’osso. Inoltre i corridoi sono fotografati con inquietudine rendendo un luogo deputato alla salute e alla salvezza un non-luogo ambiguo in cui regna l’insicurezza e il presagio mortuale. Inoltre il finale esplosivo teorizza finalmente l’immortalità di Michael, la propone come condizione necessaria e sufficiente per la definizione del personaggio e lo allaccia alla ritualità del “fuoco purificatore” con cui si è solidi esorcizzare il male all’inizio o durante l’inverno in prossimità del cambio annuale. Se il Liberti, citando Giuseppe Salza, parla di Michael come il gigante Anteo che si rigenera al contatto con la madre terra Gea parallelizzandolo con Michael ogni volta che caduto a terra mortalmente si rialza nel pieno delle sue forze, possiamo scomodare la religione cristiana che vede nel fuoco di dio l’arma purificatrice per tutti i peccati. Abbinando archetipi greci con simbologie cristiane sincronizzate sui precedenti riti pagani all’interno di una narrazione che vede proprio nella festa celtica di Halloween il suo centro tematico riusciamo a definire la mostruosità-Michael come un’ombra maligna ed insidiosa comune a qualsiasi religione, a qualsiasi folklore e a qualsiasi cultura di qualsiasi epoca e luogo, confermando la grandezza immortale sia del revenant in sé sia del personaggio di Michael Myers.

Con il quarto capitolo, Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers, pur inventando una continuity non strettamente correlata ai fatti precedenti, il film è, come si è già detto, ampiamente riuscito sia per lo stile, il registro dominante e le tante idee visive che lo rendono accattivante. Su tutte basti citare l’incontro tra il dottor Loomis e Michael nell’officina della stazione di servizio. Alla base della serie e del mito di Michael c’è l’ambiguità dei rapporti di sangue, delle parentele, dei legami forti, cosa che non succede sicuramente nei film con Jason e Leatherface, mentre in Nightmare Freddy insinuandosi nei sogni entra in un contatto intimo con le sue vittime, restandone comunque distante. Tra Michael, Laurie e il dottor Loomis c’è un’intimità strana, ambigua, sfaccettata che non permette la distanza tra i personaggi, ma un’attrazione mortale, incontrollabile e seduttiva. Ecco che nell’incontro tra un Loomis invecchiato e acciaccato il suo mostro si ripropone il mito del duello e degli eterni duellanti già celebrato in quel primo faccia a faccia dell’originale carpenteriano e omaggiato anche sul finale del film quando la piccola Jamie Lloyd vestita da pagliaccio ferisce mortalmente la madre adottiva proprio come lo zio fece nel ’63 con la sorella Judith. L’interpretazione di Pleasence in quel frangente è impagabile.

Con il quinto capitolo, pur ripresentandosi il dottor Loomis e Jamie Lloyd ora malata psichiatrica come Michael, il film si allontana dai primi episodi sia nella storyline – arriva l’uomo nero della setta druidica del Culto della Spina – sia nelle atmosfere e nello stile generale del film. Cosa che succede soprattutto con il sesto episodio che doveva essere totalmente differente da quello che è stato poi confezionato dalla Miramax, con buona pace dei produttori Moustapha e Malek Akkad.

Se il quinto e il sesto capitolo scivolano stilisticamente su più elementi, il settimo e l’ottavo risentono invece dell’edulcorazione di fine anni ’90 quando la “sporcizia” di Rob Zombie, di Saw (2004) e del primo torture-porn non era ancora arrivata ad influenzare l’estetica horror del nuovo millennio. Halloween 20 anni dopo è comunque un capitolo interessante e realizzato con mestiere da Steve Miner che riprende la storyline originale e fa ripartire tutto dal secondo episodio: non c’è infatti nessuna traccia o riferimento alla figlia di Laurie Strode, ma solo al figlio John avuto nella sua seconda vita come Keri Tate.

Il film, conosciuto anche come H20, è girato e distribuito nel 1998 e vede il debutto cinematografico di Josh Hartnett come figlio di Laurie Strode. Oltre all’esordio del big boy from Minnesota ci sono altri elementi di interesse in questo nuovo episodio che vorrebbe rinverdire la serie: in una piccola parte abbiamo Joseph Gordon-Levitt, divo-piacione di oggi, che già all’epoca dimostrava la propria bravura e freschezza; orfani del dottor Loomis fa la sua apparizione l’infermiera Marion Chambers interpretata da Nancy Stephens nel primo e nel secondo episodio; torna finalmente l’unica vera eroina del franchise, ovvero Jamie Lee Curtis; in una piccola parte c’è anche la vera mamma di Jamie Lee, Janet Leigh, la famosa ragazza della doccia di Psycho; Michael Myers appare dal nulla, non ci viene spiegato da dove arrivi e come abbia fatto a tornare, semplicemente appare, come l’Ombra, uccide e segue la pista che lo porta fino in California da sua sorella.

Nel 1998 i tempi sono davvero cambiati per il genere horror che aveva sofferto tra la fine degli anni ’80 e prima metà degli anni ’90 una certa inflessione – anche se titoli come La casa 2 (1987), La mosca (1986), Hellraiser (1987), Opera (1987), Chuky – La bambola assassina (1988), Cimitero Vivente (1989), It (1990), L’albero del male (1990), Bram Stoker’s Dracula (1992), Splatters (1992), Tobe Hooper’s Night Terrors (1993), Intervista col vampiro (1994) e Il seme della follia (1994), tra alti e bassi, tra titoli più o meno riusciti, con più o meno riferimenti puri al genere, non sono poi film da dimenticare, ma si può notare come un filo rosso che li colleghi, insieme a tutti i sequel che tra gli ‘80 e i ’90 riciclano se stessi, possa essere la stanchezza, la reiterazione, un chiaro inizio di omologazione.

Tutto cambia nel 1996 dopo l’esplosione del nuovo capolavoro di Wes Craven, Scream. Il gioco citazionista che già dal 1994 di Pulp Fiction dichiara gli anni novanta come l’apice del postmoderno; la forte dose di humor nero che stempera la gravità horror, ma ne acuisce lo straniamento; la metadiscorsività del genere che parla e ride di se stesso; l’edulcorazione delle coreografie mortifere che fanno dell’orrore della morte una pop art sterile e non più perturbante, critica diretta alla violenza nuda e cruda proposta dal mezzo televisivo; il tentativo, in parte riuscito e in parte no, di generare un nuovo linguaggio e una nuova estetica per la paura di fine millennio; gli elementi più caratterizzanti del filone come la cittadina americana di provincia, il body count dei giovani protagonisti, le trasgressioni sessuali, alcoliche o drogatiche, l’assassino mascherato: sono tutti elementi caratterizzanti del film di Craven, a volte mutuati dai trascorsi horror del regista e del genere stesso, che ritroviamo non solo nei film a venire, i teen-horror come So cosa hai fatto (1997), Urban Legend (1998), The Faculty (1998), The Blair Witch Project (1999), Killing Mrs. Tingle (1999), Final Destination (2000), Ginger Snaps (2000), Gossip (2000), Jeepers Creepers (2001), Valentine (2001), Desert Vampires (2001), My Little Eye (2002) e Bleed (2002) con o senza pletora di sequel, ma che ritroviamo ovviamente in Halloween 20 anni dopo – come ben sappiamo dopo il 2002 di The Ring e il 2004 di Saw, l’horror si rigenera nuovamente, commistiona più registri e soprattutto innesca nuove tendenze del terrore che avranno lungo corso: il torture-porn, il dirty-disturbing-horror, le ghost-stories e i possession-movies.

Nel film di Steve Miner l’eredità di Scream è evidentissima. Dopotutto in sceneggiatura c’è Kevin Williamson autore della serie Scream, ma anche di Dawson’s Creek (1998-2003) che si dice essere ancor più seminale e generazionale del precedente teen-drama Beverly Hills 90210 (1990-2000) e del successivo One Tree Hill (2003-2012) nella definizione dell’oggetto “teen” negli anni novanta. Williamson, autore dei titoli più rappresentativi degli a cavallo con il nuovo millennio, come So cosa hai fatto, The Faculty, Killing Mrs. Tingle, Cursed (2005) e oggi di nuovo in forma smagliante con il serial thriller-poliziesco The Following (2013), infarcisce H20 delle caratteristiche che lui stesso ha definito per il genere di fine novecento. Anche H20 ovviamente ripropone l’elemento cardine dello slasher-movie storico, ovvero il gruppo di giovani disinibiti candidati all’obitorio, ma a differenziarlo con i capitoli precedenti della Halloween Saga è una certa dose di humor, l’edulcorazione delle scene splatter come di quelle sexy, molto più caste dei bei tempi andati, quasi a teorizzare che il sangue e la morte sono accettabili e tollerabili, mentre a sfera sessuale resta un tabù diabolico da tenere lontano.

Uno degli aspetti interessanti di un film che certo non raggiunge la bellezza formale e archetipale dei primi tre capitoli ufficiali è il rapporto morboso tra Laurie Strode e suo fratello Michael che trova il suo climax nella scena finale, il faccia a faccia tra sorella e fratello è commovente e spietato allo stesso tempo, così come lo è l’incipit del capitolo successivo, Halloween Resurrection, dove l’eterna lotta tra i due si conclude con un bacio prima di morire – di nuovo Eros e Thanatos. Inoltre il film gode della presenza di Josh Hartnett che al suo debutto già dimostra le doti attoriali e la freschezza del gesto. Hartnett, qui e in The Faculty, fa mostra del suo guizzo strano, dell’abilità a giocare con il corpo e le espressioni del volto. Un tocco che sembrerebbe perdere con il tempo, ma è solo la maturazione di un attore che da iper-espressivo si è fatto monolitico recitando per sottrazione.

L’ultimo capitolo ufficiale, se escludiamo il prologo dove si chiude il lungo inseguimento di Michael che finalmente uccisa la sorella può tornarsene a casa, il film non apporta nulla di nuovo e non suggerisce nemmeno una nuova spinta propulsiva per rinverdire la serie. Anzi, Rick Rosenthal, già regista del secondo capitolo, affossa completamente la serie. Non solo muore Jamie Lee Curtis, ma pure la casa dei Myers viene completamente distrutta dalle fiamme purificatrici, lasciando così ogni speranza di un nuovo episodio in linea diretta con la storyline originale.

Già sappiamo che come il cinema ricicla sempre se stesso, anche Michael Myers tornerà prima o poi. Trasformato e aggiornato. Ci aveva provato Rob Zombie (2007-2009) sbagliando completamente tutto l’approccio estetico e narrativo. I suoi film, che godono di quell’ondata dirty che il torture-porn di Saw aveva sdoganato qualche anno prima, possiedono soltanto il pregio di “sporcare” l’immagine edulcorata degli horror anni ’90, senza però rendere funzionale l’orrore della visione in termini di riflessione sul genere, sul corpo e sulla violenza. Se i suoi due film d’esordio, La casa dei 1000 corpi (2003) e La casa del diavolo (2005), sono davvero due capolavori dell’horror di inizio Millennio, i film successivi girano su se stessi riproponendo o meglio riciclando un orrore solo estetico e non narrativizzato, infarcendo il tutto di orgasmi autoriali inutili, patetici e soprattutto noiosi che attraversano le sue pellicole da Halloween – The Beginning (2007) fino almeno a Le streghe di Salem (2012).

L’estetica dirty-disturbing che ha fatto la gioia del torture-porn, ora già declinato, sopravvive oggi in altri generi e altri contesti diventando il nuovo linguaggio dell’orrore post 11 settembre. Ma come ci ha insegnato John Carpenter si può creare un mito orrorifico senza spargere una sola goccia di sangue. Forse è a questa semplice elementarità dell’idea originale di Halloween a cui deve ritornare per poter parlare di nuovo di un cinema che sa rappresentare il reale e suggerire l’invisibile.

Note:

(1) GIOVANNINI Fabio, Mostri, Castelvecchi, Roma 1999

(2) http://www.seeing-stars.com/Locations/Halloween/

(3) http://en.wikipedia.org/wiki/Michael_Myers_%28Halloween%29

(4) http://www.gamesvillage.it/news/29213/

(5) Donald Pleasence muore il 2 febbraio 1995, stando a IMBD Halloween 6 fu girato tra il 28 ottobre 1994 e il 5 dicembre 1994, eppure guardando il film ci accorgiamo che qualcosa non funziona con il personaggio del dottor Loomis, come se l’attore fosse davvero venuto a mancare durante le riprese.

(6) http://halloweenlove.com/5-things-i-learned-from-the-new-halloween-6-producers-cut-release/

(7) LIBERTI Fabrizio, John Carpenter, Il Castoro cinema, Milano 2003

I film della serie:

1978 – Halloween – La notte delle streghe, di John Carpenter

1981 – Halloween II – Il signore della morte, di Rick Rosenthal

1982 – Halloween III – Il signore della notte, di Tommy Lee Wallace

1988 – Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers, di Dwigth H. Little

1989 – Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers, di Dominique Othenin-Girard

1995 – Halloween 6 – La maledizione di Michael Myers, di Joe Chappelle

1998 – Halloween 20 anni dopo, di Steve Miner

2002 – Halloween Resurrection, di Rick Rosenthal

2007 – Halloween – The Beginning, di Rob Zombie

2009 – Halloween II, di Rob Zombie

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