La 74ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia ha aperto i battenti. Le proiezioni procedono come da manuale, nonostante la macchina organizzativa mostri alcuni falle di non poco conto. Nei giorni precedenti, giornali e telegiornali hanno parlato a lungo di come siano state adottate nuove misure di sicurezza, tese a prevenire qualsiasi forma di attentato. Per terra, per aria e per mare, per dirla a là Dunkirk. Bene, il sottoscritto può testimoniare come in realtà si tratti soltanto di mera propaganda, utile a rassicurare tutti coloro che altrimenti non avrebbero portato i loro euro al Lido. In una decina di minuti, con pochissima gente presente, ho soggiornato e bivaccato nei pressi del Palazzo del Casinò senza accredito al collo e senza che nessuno dei tanti agenti presenti si avvicinasse a chiedere il perché della mia presenza. Sono stato a due passi dal composito gruppo di poliziotti che ogni mattina sorveglia la darsena senza che nessuno battesse ciglio. Ho attraversato due diversi blocchi della security senza che nessuno si allertasse. Sono entrato al Palazzo del Casinò senza che nessuno mi chiedesse un documento ma fidandosi meramente di una mail stampata, di un documento che può essere facilmente replicato anche con il più basilare dei programmi di videoscrittura. Ah, gli italiani…
Tralasciando le questioni organizzative (potrei aprire una lunga parentesi sull’inglese di chi sta ai desk a fornire informazioni agli anglofoni) concentriamoci ora sui film proposti alla stampa specializzata. Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Giardino: abbattiamo paletti e confini. Mai come in questa prima giornata del 2017 le proiezioni sono state così libere da schemi settoriali per essere accomunate da un sottile filo logico che potremmo ribattezzare Ieri, oggi, domani. Curiosamente, ci sono state proposte opere che sembrano interrogarsi su ciò che ne sarà dell’umanità domani, documentari che si chiedono quali forze extraumane governino ancora oggi le nostre menti e ricostruzioni biografiche che rileggono il passato in chiave postmoderna. Che si ispirino alla scienza, alla narrativa per ragazzi, alla religione o alla biografia (ispirato a una storia vera è una delle frasi più ricorrenti delle sinossi dei titoli di quest’anno), i titoli del primo giorno si confrontano tutti con il destino e sulla posizione che l’essere umano, in quanto tale, prende, scegliendo di seguire un percorso predisposto da altri o facendosi artefice delle proprie scelte.
Domani
Si apre con il domani, con Downsizing di Alexander Payne. In un futuro prossimo, in un laboratorio norvegese, viene scoperta una rivoluzionaria tecnologia in grado di rimpicciolire ogni forma organica e, dunque, l’uomo stesso. Le proporzioni raggiunte dai primi esperimenti che coinvolgono 36 soggetti volontari recitano freddamente 2744:1, ovvero 1,80m:0,129m. Per dirlo in parole semplici, un uomo di 1 metro e 80 viene rimpicciolito fino a raggiungere un’altezza di 12,9 cm. Come ogni scoperta scientifica che si rispetti, al progresso si associa anche una motivazione etica: rimpicciolendo l’uomo, si possono rimpicciolire le città, risolvendo in maniera molto pratica il problema della sovrappopolazione, dello smaltimento dei rifiuti e della drastica diminuzione delle risorse terrestri. In un attimo, per l’umanità intera si aprono nuovi scenari e nel giro di una decina di anni il 3% della popolazione fa ricorso alla miniaturizzazione, scatenando nuovi interrogativi e quesiti su quanto valga un essere umano ridotto. Una nuova minoranza si profila all’orizzonte: quanto vale un ridotto? Il suo voto ha la stessa valenza di un uomo normale? Le sue ridotte dimensioni non dovrebbero forse portare a una riduzione dei suoi diritti? Potrebbero i dittatori fondamentalisti in giro per il mondo usare il ridimensionamento per annientare per sempre i nemici? E i terroristi non potrebbero forse ridursi per mettere in atto sempre più attentati? Domande interessanti, sulla carta. Peccato che Payne decida invece di non trovarvi risposta per concentrarsi più sulla storia di un classico loser che nel nuovo mondo trova la sua possibilità (indotta) di riscatto. Per risolvere i suoi problemi finanziari, Paul, un uomo che non ha mai concretizzato nessuna delle cose che si è prefissato, propone alla moglie Audrey di sottoporsi alla procedura di rimpicciolimento. Facendosi convincere da un amico, scegli come futuro mondo in cui vivere quello proposto da Leisureland, una delle tanti società che dalla nuova tecnologia trae profitti e che cerca adepti come in una setta. Del resto, i rischi sono minimi: solo un caso su 225 mila non riesce. Perché non provarci, allora? All’ultimo minuto, dopo che la procedura per rimpicciolire Paul è stata completata, la moglie Audrey si tira indietro e opta per la conservazione delle sue dimensioni “normali. Per Paul, dunque, ciò comporta il dover affrontare il nuovo mondo da solo. I sogni di benessere promessi dalla nuova Pleasantville svaniscono però immediatamente: nel giro di poco tempo, Paul perde la casa dei sogni, i (fanta)dollari accumulati e la serenità, ritrovandosi a dover ricominciare da capo come nella precedente esistenza. Nell’America delle grandi opportunità, così come in ogni società che si rispetti, si fa presto a lasciare spazio ad emarginazione, a suddivisioni, a muri eretti per separare periferie dal centro e a (micro)criminalità. Sotto forma di un vicino di casa serbo e di una profuga vietnamita, Paul è così chiamato a confrontarsi con microcosmi differenti dal proprio, che lo portano presto a desiderare una nuova vita, prima che un finale a là Inga Lindström prenda il sopravvento con la più improbabile delle storie d’amore.
Trattando di temi come l’ecologismo, il progresso, l’emarginazione sociale e l’estinzione, si confronta in superficie con argomenti che avrebbero meritato maggior approfondimento e che continuano a dare stimoli che il regista ignora e tronca sul nascere. Lo spietato confronto che poteva nascere tra mondo normale e mondo in miniatura muore sul nascere e anche la dimensione degli effetti speciali ne risente: tutto ciò che visivamente poteva essere interessante si dilegua nella lunga seconda parte del film. Dal momento in cui Paul, un sempre più imbolsito Matt Damon, entra nella dimensione ridotta, il mondo normale scompare: della moglie Audrey, il personaggio forse più ambiguo e affascinante, non si sa più nulla, così come il resto della vita precedente dell’uomo. Tutto finisce quasi in macchietta e gli stereotipi iniziano a susseguirsi. Gli outcast diventano eroi e si paventa persino la folle idea di un reboot dell’umanità attraverso una camera blindata che funge quasi da arca di Noé solo per sottolineare come il selfmade man americano sia anche colui che, stanco del destino subito, lascia finalmente l’ignavia e il gruppo per decidere con la propria mente. Ragione o sentimento entrano in conflitto sul finale ma lo spirito buonista che attraversa il regista sa quale far trionfare. Del resto, la sua è una favoletta che vorrebbe atteggiarsi a racconto di formazione ecosociologica e che in nome del “cambiamento” finisce con l’essere ancorata a una tradizione narrativa incapace di uscire fuori da un percorso prestabilito in cui a trionfare è sempre e noiosamente l’amore. Con o senza malavita. Il pubblico, poi, non si lasci ingannare dal cast stratosferico: la Wiig scompare dopo pochi fotogrammi, la Dern ha un semplice cameo (così come Neil Patrick Harris) mentre Waltz e Kier vengono fisiognomicamente sfruttati per due personaggi comprimari ma non essenziali. Interessante, invece, la prova di Hong Chau, nei panni della profuga vietnamita che cambierà la vita del protagonista (e dell’umanità intera?).
Ieri
A confrontarsi con il passato e con i demoni interiori che si porta spesso appresso è Susanna Nicchiarelli in Nico, 1988. Definito erroneamente da gran parte della stampa come il film biografico su Nico, Nico, 1988 è invece la storia degli ultimi anni di vita (tre per l’esattezza: 1986, 1987 e 1988) di Christa Päffgen, una donna che nella sua breve vita (è morta a 49 anni) è riuscita ad assaporare la gloria e a perderla per via di un’esistenza che l’ha voluta prima immagine e poi ombra. Costretta a essere ricordata per le tre canzoni realizzate con i Velvet Underground, per i suoi amori folli e per uno stile di vita non proprio impeccabile, Christa ha trascorso gli ultimi anni a girare l’Europa con un’improbabile band inglese capeggiata da un manager socialista. Cresciuta negli anni della Seconda guerra mondiale, è tormentata dai suoni dei bombardamenti che ha subito Berlino e si muove costantemente in compagnia di un registratore portatile, con cui va alla disperata ricerca di un suono che somigli almeno vagamente a quelli tante volte uditi da bambina. Sono gli anni in cui il successo e le copertine hanno lasciato spazio all’eroina, agli eccessi sui piccoli palchi di provincia in cui si esibisce tra spettatori annoiati e impresari non paganti. Ma sono anche gli anni in cui riesce a riprendersi il figlio Ari, avuto da giovanissima da un uomo di cui non si fa mai il nome e perso prima per via di un’adozione complicata da parte dei nonni paterni e poi per colpa di un lungo internamento in un ospedale psichiatrico. A segnare particolarmente la vita di Christa in quel periodo sono due eventi tra loro molto lontani per peso: un concerto ad Anzio in Italia, dove finalmente si riappropria dell’amore per le cose semplici (un piatta di pasta al pomodoro e una bottiglia di limoncello), e un concerto per giovani di sinistra nella comunista Praga, un’esibizione in cui grazie all’amore e al visibilio dei fan Christa ricorda cosa significhi essere (stata) Nico, un’icona indissolubilmente legata all’arte contemporanea. Seppur lei stessa dica di non essere interessata alla celebrità, nel momento in cui si vede osannata come diva ricorda da dove proviene quella forza che per anni l’ha tenuta in piedi. Il pubblico e l’amore per il figlio la spingono allora verso la via del rehab e del metadone. La via della felicità, si direbbe. Se non fosse che il destino ha in serbo per lei.
Lontana dal realizzare un santino di Nico, Susanna Nicchiarelli riesce nell’ardua impresa di far dimenticare in poco meno di un’ora e mezza il poco riuscito La scoperta dell’alba e di far rivivere in maniera viscerale e autentica uno spaccato degli anni Ottanta. Gli anni della vita di Nico che ci presenta sono quelli che fanno da spartiacque tra un passato segnato dalla suddivisione tra Est e Ovest e un presente che sta per aprire le porte alla modernità. È interessante notare come la regista ricostruisca nel dettaglio il periodo: costumi, trucco, arredamento, overdose e atmosfere musicali, sembrano uscire da un documentario per ritornare in auge e farsi materia viva. Sta nel dettaglio la differenza e la Nicchiarelli dimostra di saper maneggiare con cura i dettagli: da un piatto in vetro giallo a un poster alle pareti, niente è fuori dal tempo della narrazione. I momenti scelti dalla regista per evidenziare chi fosse realmente Christa sono quelli che meglio evidenziano quali tormenti e demoni l’attanagliassero. Senza sentimentalismi o menate (eppure la storia di Nico e Alain Delon, padre del figlio Ari, potrebbe fare da fonte per una telenovela), la regista lascia parlare con forza le immagini, alterna il suo presente narrativo con brevi frammenti della vera giovane Nico e abbandona subito il fantasma della celebrità, relegando ai soli titoli di testa presenze ingombranti come quelle di Lou Reed o Andy Warhol.
Tra citazioni del poeta inglese Wordsworth e una suggestiva sequenza legata al rito della luminatia, la Nicchiarelli affida alla protagonista e cantante Trine Dyrnholm la sfida più impervia della sua carriera. E la vince, senza fare scivolare nel patetico o nello shock visivo a tutti i costi. Interessante poi la scelta dei comprimari, su cui spicca Anamaria Marinca, in un ruolo che fa da alter ego “normale” alla protagonista.
A differenza del Paul di Downsizing, la Christa di Nico, 1988 è artefice del suo destino sin dall’inizio della sua carriera ma, con un percorso quasi speculare a quello del protagonista del film di Payne, finisce con il soccombervi al momento della morte. Paradossale.
Oggi
A darci uno spaccato dell’oggi provvede William Friedkin, regista che non ha certo bisogno di presentazioni o salamelecchi. Seppur a prima vista il suo The Devil and Father Amorth sembri un omaggio che il cineasta fa a se stesso e al suo L’esorcista, andando oltre la superficie si percepisce come Friedkin voglia interrogarsi su cosa significhino oggi demonio, diavolo e, metonimicamente, religione. Cosa porta l’uomo del XXI secolo ad avere manifestazioni di natura religiosa come la possessione demoniaca? Che cosa significa oggi praticare un esorcismo? Com’è considerata la pratica dalla comunità scientifica? Esiste davvero un’entità maligna che prende il sopravvento sul cervello umano nella lotta contro il Bene?
Partendo dai luoghi e dagli eventi reali che hanno ispirato L’esorcista, Friedkin si catapulta a Roma dove il quasi 91enne padre Gabriele Amorth si appresta a praticare il nono esorcismo su una donna di Alatri, una professionista che non riesce a trovare pace. Padre Amorth si occupa di diavoli sin dalla giovanissima età e, dopo averci pensato, lascia che il regista filmi con una piccola camera il rito religioso. Tutto ciò che avviene di sovrannaturale, contorsioni comprese, viene freddamente documentato per essere poi sottoposto all’attenzione de psichiatri, neurologi e specialisti vari. Nessuno riesce a trovare una spiegazione logica, si avanzano ipotesi ma non si hanno certezze. Che il male esista veramente? Sembra suggerire di sì il percorso che Friedkin porta a termine, finendo quasi vittima del suo stesso lavoro.
Il presente che ci paventa è però un presente in cui ci si deve arrendere all’evidenza della tradizione secolare, in cui tutto ciò che l’uomo stesso non capisce è di natura altra, irrazionale e incomprensibile. Si accenna poco alla logica e ciò sminuisce la portata del documentario e il tema trattato, che proprio lo scorso anno l’ottimo Liberami aveva sviscerato e fatto a pezzi.
Dell’oggi (con uno sguardo al domani) e, paradossalmente (considerando l’autore) del trascendente ci racconta anche il secondo film in concorso della giornata, First Reformed di Paul Schrader. Di ritorno a Venezia a qualche anno dello scomposto The Canyons, il regista di Mishima si presenta con un’opera unica nel suo curriculum: composta, scarna e rigorosa. Dall’impianto quasi teatrale, Schrader sembra intraprendere una nuova carriera lasciandosi andare a riflessioni care ai giornali di oggi: il fanatismo ambientale da un lato e quello religioso dall’altro. Per tematica, esistono diversi punti di intersezione con l’opera di Payne ma, a differenza della commedia elegante per dame annoiate del regista di Nebraska, Schrader affonda la lama in mille ferite aperte chiedendosi che futuro ci viene riservato da un mondo sempre più inquinato e in mano a individui che, pur di raggiungere il proprio scopo, sono disposti a tutto. Nella storia di padre Toller, ex militare divenuto oramai a tutti gli effetti reverendo della storica chiesa di First Reformed (prossima a festeggiare i 250 anni dalla sua fondazione), e di Mary, vedova incinta di un ambientalista convinto, si fondono temi come la motivazione e la vocazione, la causa e l’agire.
Nell’affrontare un presente foriero di devastazione sia fisica sia spirituale, padre Toller trasforma il dolore per la morte del figlio in voglia d’azione e richiamo alla missione principale della sua chiesa, un tempo attenta ai deboli (storicamente, ha favorito il passaggio di molti schiavi neri in Canada, terra in cui si agguantava la libertà) e ora fin troppo sottomessa agli interessi di corporazioni, multinazionali e imprenditori che in nome del profitto sacrificano il domani della propria specie. In un mondo corroborato da isolazionismo, pornografia e social media, in cui tutti si è connessi ma non interconnessi, la missione principale di padre Toller è quella di richiamare le pecore all’ovile nel più eclatante dei modi. Si renderà però conto di essere egli stesso una pecora sfuggita dal gregge di Dio e non un San Sebastiano da immolare all’altare della fede. Con cenni a Night Movies, echi di istallazioni artistiche e tableaux vivants, Schrader spoglia la storia degli eccessi e la riduce al minimo per tentare di spiegare che non sempre l’essenziale è invisibile agli occhi. Soprattutto oggi.
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(1 - Continua)
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