Nonostante non esistano ancora dettagliati e approfonditi studi di taglio accademico su Penny Dreadful, non è difficile poter già individuare nella serie prodotta da Showtime e sviluppata da John Logan l’unica vera ed efficace adesione all’immaginario orrorifico del nuovo secolo. Mentre al cinema imperversano film patinati che prendono in prestito tale immaginario solo per scopi commerciali, e in televisione altre serialità horror scivolano clamorose sul banale, il castrato e l’addomesticato, Penny Dreadful tiene fede al suo nome e ci regala a poco prezzo ottimi spaventi e una buona dose di orrore.
Al timone della fortunata serie Showtime c’è John Logan, sceneggiatore di film dal grande successo commerciale e critico come Ogni maledetta domenica (1999), Il gladiatore (2000), Star Trek: La nemesi (2002), L’ultimo samurai (2003), The Aviator (2004), Hugo Cabret (2011), Skyfall (2012), Noah (2014) e Spectre (2015), più altri piccoli cult movie di genere come Bats (1999), Sweeny Todd (2007) e Rango (2011) (1).
Se è vero che lo sviluppatore è il fulcro su cui si fonda la riuscita di una serie televisiva, checché se ne dica delle più e troppe mani delle writers’ room, a giocare a favore del successo di Penny Dreadful è anche l’ottimo cast radunato per l’occasione, oltre ovviamente alla rassegna delle mostruosità gotiche alla base dell’immaginario orrorifico moderno. Non solo l’immensa Eva Green e l’elementale Josh Hartnett sono i migliori in campo, ma anche il redivivo Timothy Dalton è qui in gran sfoggio, così come Harry Treadaway stupisce e sorprende puntata dopo puntata confermandosi attore di punta della nuova generazione britannica. Non solo, l’ottimo Rory Kinnear ci mostra una creatura aderente al modello shelliano e allo stesso tempo retaggio di tutte le turbe, contraddizioni ed esistenzialismi conosciuti dall’umanità fino ad oggi; così come Billie Piper, prima prostituta tisica dal buon cuore e poi moglie maschilicida seriale, ci disturba tra bellezza e malattia; il Sambene di Danny Sapani, chiude il cerchio dei personaggi principali con il suo stoicismo tribale che trasforma in saggezza ogni sua singola parola. Unica nota dolente, l’insipido Reeve Carney nei panni di Dorian Gray: dalla sua ha la bellezza ambigua di un personaggio archetipale affascinate sulla carta quanto come rovello mentale; ma perde nella resa plastica che ne fa l’attore, freddo, algido, poco attraente e sterile.
Il fascino della serie, al di là della bravura di cast tecnico e artistico, sta nella seduzione immortale delle figure horror nate nella felice stagione del romanzo gotico. Una storia del genere, ora, sarebbe fuori luogo e solo informativa. Va giusto detto che da Il Castello di Otranto in avanti, di Horace Walpole (1764), il gotico, nato sulla spinta delle paure irrazionali e delle grandi incognite dell’epoca moderna, poi evoluto in crisi para-scientifica o già fantascientifica, e in seguito ramificatosi nel novecento in vari filoni a caratteristiche dominanti come il giallo, il noir e l’horror, il genere nero ha regalato all’immaginario mondiale figure, scenari e tematiche immortali e regolarmente riutilizzate in contesti diversi e per narrazioni anche ibride. Tutto con lo scopo di rappresentare le varie forme del male e del perturbante, o di esorcizzare la morte, conoscere e combattere le proprie paure o indagare la sottile linea oscura che divide l’uomo dall’ombra che si porta dentro.
Da Il monaco di Matthew Lewis (1796) al Dracula di Stoker (1897), passando da L’italiano di Ann Radcliffe (1797) al Frankenstein della Shelley (1818), dal Vampiro di Polidori (1819) all’errante Melmoth (1820) di Maturin, fino ai racconti neri di Edgar Allan Poe, al Varney di Rymer (1845-1847), al Dottor Jekyll di Stevenson (1886), all’universo occulto di Howard Phillips Lovecraft e a quello cripto-scientifico di Conan Doye, è tutto un furoreggiare di castelli, cimiteri, brughiere nebbiose, morti ammazzati, torbidi inganni, laidi persecutori, rovine abbandonate, cripte, torri, notti di tempesta, laboratori e creature, strani sortilegi, belve feroci, animalità varie e mostruosità uscite dal buio, dalla foresta o dalla psiche.
John Logan riprende tutto questo e molto altro; e con abile e sapiente classe narrativa mette in scena tutto il campionario orrorifico del genere attualizzato all’estetica contemporanea, senza scadere nella sterilità del digitale, nell’apatia scopica e nello stordimento dell’accumulo.
Regola vorrebbe che più elementi narrativi, diversi o uguali tra loro, coesistendo in un’unica soluzione narrativa, finiscano per incomodarsi a vicenda, annullandosi e sterilizzando ogni tipo di contenuto e di messaggio. In Penny Dreadful invece, tutti gli elementi narrativi del campo semantico del terrore, le sue figure e i suoi topoi cooperano magicamente sostenendo tutti insieme un’efficace impalcatura narrativa strutturata sull’epicentro narrativo e non sulla frammentazione di più plot quasi autonomi com’è tipico nella serialità contemporanea.
Penny Dreadful è un monster drama di grande sensibilità tecnico-artistica come contenutistica e raggiunge importanti vette filosofiche e sociologiche attraverso la visibilità della mostruosità. Il mostruoso viene così declinato da John Logan in tutte le sue forme possibili: dalla mostruosità che alberga nell’uomo al mostro amico, dalla mostruosità dell’essere umano al mostro distruttore e crudele, da simbolo di alterità a simbolo di marginalità, da rappresentazione deforme dell’ombra a imago iperreale dell’universo psichico. La tridimensione mostruosa proposta da Penny Dreadful attraverso una visibilità realistica e intensa della maschera orrorifica, apparta la bidimensionalità del concetto letterario ed iconografico e ci restituisce il poderoso mostruoso, carnale e concreto del cinema delle origini, dei settanta e degli ottanta.
La rassegna dei dramatis monstri è articolata e complessa, alternandosi tra ruoli principali, ricorrenti o semplici citazioni, ma riesce ugualmente a farsi leggere e comprendere. La prima fonte ad essere ampiamente saccheggiata è quella letteraria: Frankenstein, Dracula (ben rappresentato con il signore dei vampiri, Mina, Van Helsing e una sorta di Ranfield), Dorian Gray, Justine, Doctor Jekyll e Mister Hyde – ma vengono rintracciati anche echi di Shakespeare, Conrad, Allan Poe, Haggard, Goethe, Nietzsche, Bibbia, vangeli e il Libro dei Morti (2). L’immaginario nero è arricchito inoltre da archetipi nati sia dal folklore che dal cinema stesso: l’uomo lupo, la possessione demoniaca, Jack lo Squartatore, i morti viventi, l’ispettore dal braccio meccanico, l’egittologo, le streghe, i feticci, le bambole e il diavolo stesso. Senza contare l’apporto storico e antropologico, tra il letterario e il folklorico, di figure come la prostituta, tra l’altro tisica, l’esploratore avventuriero, il cacciatore di taglie – deturpato come il fantasma dell’opera di Leroux – l’attore scespiriano, il buon selvaggio, il travestito, psicoterapisti e zoologi. Ambienti e temi topici chiudono il cerchio: la Londra borghese, i sobborghi criminali, cimiteri, ossari, alcove, soffitte, taverne malfamate, musei, laboratori, giardini zoologici, il Grand Guignol, il museo delle cere, il tema del Doppio, la follia, la malattia, la religione, la l’ambiguità sessuale, la libido, la necrofilia; temi d’epoca come il colonialismo, la rivoluzione industriale, la scienza, la psicanalisi, l’isteria femminile e l’occulto.
I personaggi principali sono innanzitutto maschere. Maschere e simulacri di temi e figure tipicamente moderne che non hanno ancora perso in epoca postmoderna tutta la loro carica evocativa. Il Sir Murray interpretato da Timothy Dalton è il grande cacciatore bianco ispirato a figure di avventurieri famosi come Sir Richard Francis Burton, David Livingston o l’Allan Quatermain de Le miniere di Re Salomone di Henry Ridder Haggard (1885) accompagnato dal fedele guerriero zulu Umbopa, come Sembene accompagna Sir Murray. In lui riecheggia anche il titanismo autodistruttivo di Cuore di tenebra, di Joseph Conrad (1902), in cui il richiamo per la misteriosa Africa è fonte di stordimento ed estasi di onnipotenza, tanto da abbandonare un figlio morente pur di raggiungere il proprio obiettivo – altro aggancio critico al dominio dell’uomo bianco in epoca imperialista; trait d’union con il capitalismo occidentale.
La bravura di Eva Green vale da sola la riuscita del personaggio di Miss Vanessa Ives, ma le reviviscenze delle tormentate e fatali donne nate dall’estro oscuro di Edgar Allan Poe, conferiscono alla spigolosa e seduttiva eroina di Penny Dreadful quel tocco magico che sconfina nella perfezione. Allo stesso modo, Victor Frankenstein e la sua Creatura che torna come Caino ad uccidere il fratello di nome Proteus, per poi perseguitare il suo creatore come responsabile della sua triste esistenza, sono il Giano bifronte della nascente scienza positivista, l’imperativo scientifico difronte al dogma religioso. Stupendamente resi da Harry Treadaway e Rory Kinnear, le due facce della stessa riottosità al padre creatore conducono lo script di John Logan verso il sublime poetico e la decadenza morale, abbinando al nucleo narrativo molti richiami scespiriani e letterari: Proteus, Calibano, il teatro, John Keats, Wordsworth.
Stessa decadenza di cui il Dorian Gray è da sempre lo specchio deforme. Le ossessioni immortali di giovinezza, bellezza e potere, ripresi poi anche dalle streghe al servizio di Lucifero, innervano la vita del giovane dandy wildiano e ne influenzano scelte e relazioni pubbliche. Senza più limiti morali né religiosi, travolto da una promiscuità sessuale poco credibile nella sua discontinuità, ma ugualmente contributiva nell’economia della serie e della sua atmosfera, il Dorian Gray di Carney rincorre la copula e l’eiaculazione come rincorre l’omicidio e il sangue.
Maschera per eccellenza dell’immaginario orrorifico è quella belluina dell’uomo trasformato in lupo. Ethan Chandler, o meglio Lawrence Talbot, non torna in Inghilterra alla casa del padre, interpretato da Brian Cox, come nel classico seminale di Waggner (The Wolf Man, 1941), ma fugge dal padre stesso e da una taglia che gli pende sulla testa per qualcosa di orribile e misterioso che sembra aver commesso anni prima. Si sovrappone all’immagine folklorica di Jack lo Squartatore e ingaggia una sfida di nervi e intelligenza con l’ispettore capo Rusk, ispirato al Krogh di Lionel Atwill in Il figlio di Frankenstein (1939). Gli dà volto, pelo e dentatura, il tall dark american Josh Hartnett, attore elementale, basico, acqua, aria, fuoco e terra, elementi che tornano a caratterizzare anche il suo “american werewolf cowboy in London”: acqua, l’oceano che lo separa dal suo paese; aria, la fuggevolezza e l’impalpabilità del suo sguardo e della sua storia; fuoco, la bruciante bestialità che si scatena nelle notti di luna piena; e il più forte e pregnante di tutti, la terra, il legame terrico tra uomo, territorio e animalità esemplificato e concretizzato successivamente dal nativo americano Kaetenay, interpretato da Wes Study. Virilità, bestialità, istintualità e maledizione segnano il vocabolario di Ethan Chandler/Lawrence Talbot tanto quanto fascino, coraggio, lealtà, carisma, fedeltà e ambiguità – anche se nessuno ci crede che Dorian Gray l’abbia sodomizzato, se non il contrario, ma anche questo getta una luce ambigua e misteriosa sul personaggio solo apparentemente più piatto della serie.
Anche i comprimari sono scelti e studiati con cura. Dalla Madame Kali interpretata con straordinaria efficacia da Helen McCrory, al Van Helsing di David Warner che combatte con i suoi demoni; dal consumato attore di teatro, Vincent Brand, alla famiglia Putney che gestisce con cinico capitalismo il proprio museo delle cere; dal Fenton, fedele no-spirato al servizio del Maestro vampiro, fino alle giovani e ignude streghe che lottano come gatte in calore per la supremazia del gruppo. Senza dimenticare il notevole apporto di Patti LuPone nei panni della macellaia della brughiera di Ballantree (the Cut-Wife of Ballantree Mood, in originale), una diurna che ha deciso di non servire il demonio come la sorella notturna, Madame Kali, e che accoglie come una figlia Miss Vanessa e la inizia alle arti della stregoneria. Il successo del suo personaggio, che vive nell’episodio monografico a lei dedicato, ha fatto sì che l’attrice tornasse nei panni della dottoressa Seward, la psicanalista americana che cercherà di curare la malattia di Vanessa.
Penny Dreadful non è ovviamente solo un riuscitissimo melting pot dell’iconografia gotica, ma è ad oggi il miglior esempio formale di horror contemporaneo. Difatti, sul piano della forma, John Logan riesce a dare le istruzioni corrette affinché i registi, tra cui l’ottimo Juan Antonio Bayona, possano rendere suggestive e mai banali né le inquadrature né la narrazione filmica nella sua totalità, attraverso un uso consapevole e funzionale di prospettive, piani, montaggio e nondimeno del fascinoso ed evocativo profilmico. La messa in scena è molta accurata, ma a differenza di molte ricreazioni manieristiche di tante produzioni televisive come cinematografiche, in Penny Dreadful tutto è visceralmente realistico, ruvido, tangibile, naturalistico. Persino l’intrusione del mostruoso e del soprannaturale ha la plasticità sensibile del reale. Il trucco, la set decoration, la fotografia, la coreografia di ogni scena e ogni posa, tutto è studiato nei minimi dettagli non per compiacersi dei propri mezzi, appunto manieristicamente, bensì per rendere palpabile non tanto la Londra di fine secolo, quanto invece la carnalità e il materico di cui quel mondo si componeva e che sorprendentemente sono la stessa carne e la stessa materia del nostro mondo attuale.
Due degli aspetti più importanti nella concezione del monster drama sono i dialoghi e la tematica sessuale. L’apporto verbale sembra cozzare con una produzione basata tutta sulla forza iconologica delle immagini e delle figure del terrore, eppure il testo è cardine in Penny Dreadful tanto quanto la bellezza formale del piano prettamente visivo. I dialoghi sono ispirati e di altissimo livello. Citano senza troppa vergogna le origini e il gusto letterario dei temi trattati e si fanno poesia prosaica e profana del linguaggio come espressione di sé e della propria storia. A differenza delle tematiche più contemporanee, come l’incomunicabilità, in Penny Dreadful tutti si fanno capire, ognuno con la sua voce, con il suo idioletto e socioletto, ma tutti chiari, cristallini, manierati quanto si vuole per verbosità e ricerca linguistica, ma ugualmente diretti e limpidi nell’espressione. Solo Miss Vanessa Ives quando usa le verbis diablo, le parole del diavolo, diventa oscura, ambigua e misteriosa come la sua lingua. Penny Dreadful è così pura letteratura di immagini in movimento. Il gusto per la visione è pari per quello dell’ascolto.
Nondimeno è il tema sessuale, declinato in selvaggio, libidico, trasgressivo, adultero, compulsivo, ambiguo, omoerotico, lesbico e perfino transgender, a innervare il sistema dei personaggi. In più occasioni sono solo motivi liberi e statici, ma proprio per questo sono i più interessanti dal punto di vista della creazione artistica e dell’intreccio. Digressioni che se non apportano mutamenti fondamentali alla narrazione, al “viaggio dell’eroe”, contribuiscono però a ridefinire le coordinate identitarie dei personaggi, si tingono di poesia e spesso veicolano le istanze e i commenti dell’autore. Come appunto provocazione in linea con i tempi narrati e con quelli del pubblico spettatore, il tema sessuale è variamente presente non come impulso narrativo, ma come dispositivo tematico, andando ad arricchire il ventaglio di interpretazioni proposto dall’immaginario della serie. A questo scopo contribuisce il nudo, sia femminile che maschile, sebbene il secondo mai frontale – il fallo resta il simbolo tabù del potere secolare dell’uomo – con cui lo sviluppatore ammette l’importanza della nevrosi sessuale in epoca moderna, primo mezzo relazionale tra esseri umani, a volte compulsivo, a volte trasgressivo, a volte semplicemente chimico e soddisfativo, raramente affettivo.
La generosità con cui Eva Green, Billie Piper e le accolite notturne si mostrano senza veli, non è la stessa delle due creature di Frankenstein, o del selvaggio romantico Ethan Chandler che nudo e di spalle comunica la sua inconsapevole passività nell’atto virile per eccellenza: la penetrazione; mentre si spingono oltre Dorian Gray e soprattutto Miss Angelique, il coraggioso attore canadese Jonny Beauchamp, prostituta transessuale che si concede in un inaspettato nudo frontale agli occhi ben consapevoli di Dorian Gray.
Il nudo resta quindi anche in Penny Dreadful, un motivo tanto inutile narrativamente quanto necessario tematicamente, sempre nell’ottica di una politica dei temi e dei motivi che fa della critica tematica il più incisivo approccio ermeneutico al testo, sia letterario che filmico. In quest’ottica la visibilità del corpo nudo fa il paio con quella del mostruoso e svela il non mostrabile, tornando ad abbinare Eros e Thanatos, Eros e Tératos, porno e orrore.
Il particolare apporto della presenza mostruosa e della sua visibilità concreta e sensibile supera quello metafisico del suggerimento e del sussurro fantastico e diventa materia, carne, ossatura, calore, viscere, secrezioni. Volti mostruosi, corpi deformi, mutati, posseduti, mutilati, dissanguati, massacrati ed eviscerati, unitamente a tutte le loro risorse espressive esaltate dal mezzo cinematografico come gesti, pose, movimenti, deambulazioni, versi e grugniti incomprensibili, si contrappongono all’idea, al pensiero, all’astratto concetto di ombra perturbante e diventano dispositivi plastici e sensibili, seppur sempre simbolici, di tale concetto. Dopotutto, il latino mostrum e il greco tératos significano innanzitutto prodigio, sia nel bene che nel male, tant’è che con tératos, nonostante la monopolizzazione fatta dalla medicina, si indicano anche i miracoli del Cristo. Il concetto di diversità nasce con la religione cattolica, duramente attaccata in Penny Dreadful nonostante Miss Vanessa continui a sperare in un dialogo con dio ricevendo solo risposte dal diavolo, ed è quindi un concetto nato per sopravvivenza e gestione della società. Includere ed escludere restano le pratiche tipiche delle cosiddette società moderne, insieme ad imbonimento, umiliazione e sottomissione. Sadismi vari che John Logan semina generosamente nella sua serie televisiva e che sono, a conti fatti, il bersaglio preferito dalla società dei mostri. Lo stesso succede nel Dracula di Cole Haddon con Jonathan Rhys Meyers (2013) e questo ci ricorda come il mostro sia a volte meno mostruoso dell’uomo borghese, religioso, capitalista.
Il mostro visibile serve così come rappresentazione immanente dell’orrido umano, quasi un’enciclopedia carnevalesca dei tipi umani, fungendo da referente iconograficamente forte ed evocativo della mostruosità partorita dall’uomo stesso. Non c’è traccia, in conclusione, di un utilizzo tanto efficace e poderoso dell’immaginario mostruoso oggi, né al cinema né in televisione, nonostante i buoni e a tratti ottimi tentativi di film come Jeepers Creepers I e II (2001, 2003), 28 giorni dopo (2002), The Descent (2005), Le colline hanno gli occhi (2006), [Rec] (2007), 30 Days of Night (2007), VHS (2012), Horns (2013), Clown (2014), Animal (2014) i licantropici Ginger Snaps (2000, 2004, 2004), Wild Country (2005), Big Bad Wolf (2006) e Wolfman (2009), e serie tv come Masters of Horror (2005), The Walking Dead (2010), Teen Wolf (2011), Dracula (2013), Hemlock Grove (2013). Per non contare il mostruoso animalesco degli animal attack movie, che con titoli come Piranha 3D (2010), The Grey (2011), In the Heart of the Sea (2015), la copiosa ondata di orsi assassini (Grizzly Rage, 2007; Grizzly Park, 2008; Bear, 2010; Into the Grizzly Maze, 2015; Backcountry, 2015; Unnatural, 2015), gli immancabili lucertoloni di Lake Placid (1999, 2007, 2010, 2011, 2015), Rogue (207) e Primeval (2007) e ovviamente tutti i monster movie incatalogabili e imbarazzanti nati per l’home video o per le piattaforme internet o per canali tematici come Sy-Fi (per esempio: Frankenfish, 2004; Dinocroc, 2004; Mega Shark vs. Crocosaurus, 2010; Mega Piranha, 2010; Sharknado, 2013; Ghost Shark, 2013; et similia), trasformano lupi, orsi, topi, pesci, coccodrilli e ogni altra specie vivente in mostri famelici. Operazione solo superficialmente demonizzante che in realtà trasferisce sul primo referente simbolico del mondo umano, l’animale, tutta la misteriosità e la bestialità delle origini e dell’istinto primitivo. A conti fatti però, nessun film e nessuna serie televisiva come Penny Dreadful, giocoforza l’accumulo immaginifico ed iconografico, ha saputo mettere in scena così consapevolmente il mostruoso.
Note.
(1) John Logan è stato candidato all’Oscar per le sceneggiature de Il gladiatore, The Aviator e Hugo Cabret.
(2) Consigliata l’analisi ricca di riferimenti fatta da Lisa Deiuri in: http://www.latelanera.com/abisso/articolo.asp?id=215
Link utili:
//www.filmtv.it/post/32207/a-che-punto-e-la-notte-il-cinema-horror-del-terzo-millennio
//www.filmtv.it/post/31294/the-walking-dead-ovvero-il-grande-racconto-americano
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