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IL CORPO NUDO FEMMINILE: Johansson, Green, Vacth, Seyfried e altre.
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Fin dagli albori del mondo il corpo umano è stato oggetto/soggetto della rappresentazione per immagini. Sia per meri scopi divulgativi o rappresentativi, sia per scopi artistici e intellettuali. Il corpo femminile, più di quello maschile, è stato trattato in ogni forma e con ogni significato. Solo ultimamente il corpo maschile, come nell’antichità, è tornato a esibire le proprie forme e la propria nudità. Simbolo del potere per eccellenza, il corpo degli uomini, soprattutto quando entrava in gioco la zona dei genitali, è sempre stato piacevolmente censurato ed inibito, pena la caduta del potere – leggersi anche come caduta dell’erezione e quindi della virilità tutta? Quello femminile invece, forse per tendenza inversa, è stato cosificato e commercializzato fin da subito, probabilmente proprio per farne perdere il valore e dequalificarlo anche politicamente nei confronti di quello maschile. Così come ci sono stati artisti che hanno invece preso la strada della glorificazione del corpo nudo femminile senza attribuirgli significati negativi.

Citando la compianta Margherita Hack, la colpa di Eva è quella di indagare, sperimentare, rifiutare l’insegnamento calato dall’alto e la passiva accettazione della fede. Da qui, facile poi rivedere nelle beltà femminili prive di veli l’inno a questa laica presa di coscienza. Non c’è da stupirsi quindi se oltre all’affresco demonizzatore che si è fatto del corpo femminile, vuoi per la pornografia vuoi per pubblicizzare una macchina di lusso, ne esistano anche di celebrativi dove le forme gentili dell’altra metà del cielo esaltano, attraverso il mezzo peccatore del corpo nudo, la purezza della verità. Ci vorrà tempo perché anche quello maschile si denudi dei panni dell’imperatore per rappresentare la verità immanente della nostra fisicità, con corsi e ricorsi profondi o anche solo orsgasmatici, perché no? Già la contemporaneità ci mette di fronte al nudo d’autore, sia al cinema che in televisione che altrove – pittura, scultura, letteratura – e al nudo commerciale come la pubblicità, la moda, la pornografia, il pettegolezzo. Sia chiaro, non sono due categorie di giudizio oppositive. Non c’è nulla di male nella pornografia, tutt’altro, così come non credo sia totalmente negativa questa ossessione per il corpo perfetto e giovane di modelli e modelle, dive e divini del sottobosco televisivo, cover-boy e così via, anche se ciò che fa la differenza, anche etica, è il fine e non più il mezzo.

Pornografia ed esibizione del corpo nudo non devono per forza essere accompagnate da termini come cosificazione, commercializzazione e demonizzazione. Il carattere esibitorio del corpo nudo è dopotutto naturale. Solo la morale, artefatto umano escogitato a tavolino quindi pura forzatura del disegno naturale e biologico dell’uomo, può – anche se non dovrebbe – condannare pornografia e nudità, con buona pace di coloro che prima condannano tali pratiche peccatrici per poi difendere l’utilizzo del corpo femminile come oggetto pubblicitario o di trastullo. Un po’ come dichiararsi contrari alla guerra ed essere allo stesso tempo soci o azionisti di ditte che fabbricano armi. Difatti, proprio grazie alla pornografia e al nudo, siamo oggi in grado di saper valutare con cognizione critica, in base ognuno alla propria etica e ai propri valori, la bellezza del corpo e della sua erotizzazione.

Una storia del nudo femminile dalle origini ad oggi sarebbe troppo articola e fuori sede. Si può invece rilevare quanta strada abbia fatto il corpo prima di levarsi di dosso, oltre i vestiti, anche l’onta del peccato e della depravazione. Orgoglio femminista, ma anche ludica rappresentazione del piacere sessuale, il corpo nudo di donna – come del suo opposto maschile – è ulteriore segno della nostra umanità, non più soltanto legata all’anima ma anche al corpo. Costellando ogni secolo di perturbazioni papabili di castrazione, le nudità femminili non hanno mai smesso di evocare tutti i significati legati al loro segno madre. Curve sinuose, solchi proibiti, rotondità carnali quanto alimentari, tutto nel corpo femminile ci restituisce la liquidità del mistero, l’informità del piacere, l’incertezza dell’abbondono agli istinti e l’istintualità predatoria verso il mito della carne.

Oggi, dopo secoli di nudi femminili e di beltà scoperte, non esistono attrici o donne di spettacolo, se non per motivi puramente estetici o di propria coscienza, che non esibiscano la propria nudità o che quantomeno non esitino a mostrarne alcune sezioni accelerando il desiderio sessuale. In tutta questa giungla di amazzoni desnude ho individuato, forse per pura partigianeria, quella che oggi potrebbe ben essere la musa erotica della rappresentazione femminile per eccellenza: Amanda Seyfried.

Non si può togliere nulla a chi, come Kim Basinger e Demi Moore negli anni ’80 e ’90 e Selena Gomez in questo primo squarcio di secolo, hanno evocato o stanno evocando la libido attraverso la corporeità che appartiene loro, con una carnalità conturbante aiutata dal gioco immaginifico e dal potere seduttivo dell’immagine stessa: attrici come Keira Knightley o Diane Kruger – corpo-oggetto-ossessione di Josh Hartnett in Appuntamento a Wicker Park (2004); Nicole Kidman da To Die For (1995) in avanti;  Scarlett Johansson perfezione fisica e conturbante in The Black Dahlia (2006) dove la vittima – nuovamente Josh Hartnett – cade a vortice nel torpore della voluttà di cui l’attrice newyorkese è incarnazione, così come in Match Point (2005) conserva la sensualità delle eroine hitchcockiane – non a caso arriverà poi Hitchcock (2012) – mentre in Don Jon’s Addiction (2013) il suo corpo, con quello di Julianne Moore, è al centro del conflitto etico del protagonista, il porno-dipendente Joseph Gordon-Levitt, in Under the Skin (2014) è invece simulacro di una sessualità animalesca, aliena, autarchica, pregna di simbologie ambigue e decadenti che ne fanno un corpo tragico dispositivo di una sessualità voluttuosa.

Attrici come queste sono tutte ragazze o donne la cui bellezza è un tutt’uno con la loro fisicità e ne decreta poi l’appeal sul grande schermo nei panni di volta in volta di personaggi diversi. Impossibile negare a tutte queste espressioni della bellezza femminile il valore immaginifico che hanno.

Selena Gomez che in Spring Breakers (2012) sgretola l’immagine disneyana che si era creata, ad uso e abuso della morale educatrice dell’America puritana, e seduce lo spettatore più delle compagne di crimine. Un corpo che parla da solo, simbolo di un’adolescenza proibitiva, un corpo minorile già capace di sedurre e di essere ampiamente pronto all’attività sessuale, generando quel corto circuito che la online-generation non vede e non percepisce, e resta fardello inutile del vecchio popolo puritano. Così come parlano i piedi di Rosario Dawson in Grindhouse. Death Proof (2007), dove il dettaglio feticista è la parte per il tutto di un corpo esasperatamente provocante. Mentre parla, urla, ride e piange il corpo classico di Eva Green in The Dreamers (2003) con l’incontro ravvicinato con il pene di Michael Pitt e l’attenzione masturbatoria del fratello Louis Garrel. Per non dire dell’azzeccata idea di Bertolucci regista di criptarla, con un gioco di luci, fondali neri e lunghi guanti neri, come la Venere di Milo, a parallelizzare la bellezza dell’attrice con l’eterna bellezza della femminilità tutta.

Allo stesso modo, l’irruente esordio della jeune fille Marine Vacth corpo sì oggetto della lussuria a pagamento, ma anche corpo ribelle a una borghesia apatica e a un’ipocrisia puerile e posticcia, è tutto teso a dotare di linguaggio proprio l’intero corpo della protagonista. Un corpo giovane, spiazzante e febbrile, perfetto e inebriante, che nei chiaroscuri delle stanze d’albergo e nelle ombre del privato erotizza non solo il personaggio e la storia di Giovane e bella (2013), ma ogni singolo aspetto del pensiero adolescente.

Tra tutte loro, a mio parere, svetta la gatta dagli occhi ipnotici che dagli inizi degli anni 2000 ha iniziato a fisicizzare un’idea ambigua e duale di corpo femminile e della sua rappresentazione immaginifica.

Amanda Seyfried incarna oggi la carnalità più dirompente ed esagerata, insieme a molte altre, con cui il cinema e l’immaginario erotico stanno facendo e faranno i conti in futuro. A differenza di altre maggiorate, altre bionde white american, et similia, la Seyfried è una ragazza dalla bellezza felina, quasi senza rivalità. Classica girl americana ha una marcia in più su più fronti. Non solo fisicamente il suo corpo evoca l’esotismo domestico del desiderio proibito, ma diventa incarnazione stessa di un desiderio drammatizzato e infine recitato. La conturbante serenità che possiede davanti alla mdp la rende unica e senza rivali.

Se i simboli fallici che iconizzano il maschio al cinema – alberi (Jeepers Creepers, 2003), torri (Il Signore degli Anelli, 2001-2003), pistole e fucili e coltelli (polizieschi e western tutti), animali come squali, coccodrilli e serpenti (Jaws, 1975; Killer Crocodile, 1989; Anaconda, 1997) – hanno quasi sempre un significato bestiale o quanto meno selvatico o addirittura ferale sull’eredità del maschio seduttore e omicida – dal lupo cattivo del Cappuccetto Rosso pre-Perrault al Lovelace della Clarissa di Samuel Richardson (1748) – i segni vaginali per lo più indicano conforto, famigliarità o tutt’al più mistero, confermando un punto di vista prettamente maschile dello sguardo autoriale. Caverne, boschi, tazze, padelle, catini, alcove, e perfino il mare con la sua vasta liquidità echeggiano il mito vulvale e fino vaginale del corpo femminile. Di boccacciana memoria, l’antro segreto di Lisabetta da Messina simboleggia la cavità erotica e misteriosa per eccellenza, nonostante le attuali derive omosessuali spingano in altre direzioni.

Dopotutto la vagina è il luogo da dove nasciamo, quindi arriva addirittura a simboleggiare squisite questioni esistenziali e nostalgiche, di cui il mare, che liricamente prende il genere femminile in lingue come lo spagnolo e il francese, è forse il simbolo più forte – senza nulla togliere alla rivalità mascolina del mare in Il Vecchio e il Mare di Hemingway (1952) o in Moby Dick (1851), anche se in Melville il mare ha già un sapore più ambiguamente femminile, sì come rivale maschio, ma anche come madre natura maligna e grembo di mostruosità invincibili. Ecco che mistero e famigliarità, intesa come accoglienza, ricordano gli usi dei vecchi popoli primitivi e premoderni che accoglievano gli stranieri, anche nemici, concedendo loro le proprie donne. E la donna è così diventata, anche con l’aiuto della mitologia cristiana, l’accoglienza e la purezza mantenendo nello stesso tempo anche l’immagine di puttana e mistero. Ecco che i simboli femminili più classici trovano nella carnalità drammatizzata della Seyfried il corrispettivo umano del proprio paradigma. La vediamo difatti nei labirintici sentieri boschivi di Cappuccetto Rosso Sangue (2011) preda di un famelico lupo mannaro. I riferimenti alla sessualità e ai simboli femminili e maschili si sprecano fin dagli albori della fiaba, inoltre nella pellicola si aggiungono quelli della casa della nonna Julie Christie, altro covo misterioso e materno, quindi femminile.

A parte le prime serie televisive, e una commedia white chick capitanata da Lindsay Lohan (Mean Girls, 2004), il primo film con un ruolo completo e funzionale alla trama è Alpha Dog (2006), anche se non va dimenticato l’impegnato American Gun (2005) al fianco del gigante Donald Sutherland. E se questi ruoli non l’avevano ancora fatta diventare icona carnale del nuovo millennio americano, ci penserà la serie cult Veronica Mars (2004-2006) nel cui ruolo in linea diretta con la Laura Palmer di Twin Peaks (1990-1991), Amanda dà vita al corpo-oggetto e poi cadavere, revenant succubus della protagonista Kristen Bell, che innesca ogni tensione e ogni pulsione, sia essa sessuale o omicida, nel sistema dei personaggi. Chi ha seguito e gradito la serie, come il sottoscritto, sa bene quale sia il valore iconico e poi narrativo del personaggio di Amanda Seyfried, nonostante non fosse serialmente onnipresente.

Nei successivi film per il grande schermo, la Seyfried continua ad accelerare la sua rincorsa verso un immaginario candido e rassicurante con ruoli come quelli in Solstice (2008), dove è comunque l’oggetto proibito – novella Clarissa – delle attenzioni maschili degli altri personaggi nello scenario erotico e misterioso della vulvale foresta sureña, ma soprattutto in Mamma Mia! (2008) che la fa conoscere al grande pubblico. Qui, complici una fotografia sensuale, satura di colori stuzzicanti e gradevoli, una storia semplice, antica quanto sempre piacevole nel suo rappresentarsi, e una colonna sonora magnetica, Amanda viene letteralmente divinizzata dal contesto e assume i tratti eterei di una madonna. Pur restando energicamente corpo sensuale, le riesce pure di ispirare equilibrio e normalità. Pellicole come Dear John (2010) e Letters To Juliet (2010) continuano su questa strada, rendendo la bionda attrice l’immagine più cauta dell’amore etereo, quell’eterno femminino che da Dante in avanti ispira poeti e sognatori.

Grazie invece a Chloe (2009) il suo corpo comincia a trasformarsi in qualcosa di diverso. Se non fosse stata Megan Fox la ferale protagonista di Jennifer’s Body (2009) – come la Jess Weixler di Teeth. Questa Figa Morde (2007), bellissimo esempio di riflessione sul corpo – la Seyfried avrebbe incarnato letteralmente, sovrapponendo mito e realtà, il dangerous body monito di tutta una cultura cristiana che dalle streghe, alle diavolesse e alle pattarie con il diavolo,  colpevolizza ancora oggi la bellezza provocante del corpo femminile. Purtroppo è solo l’amica della protagonista assassina, che ha comunque qualche attenzione lesbica per la bionda compagna di scuola, confermando l’imprescindibilità del valore catalizzante della Seyfried. In Chloe finalmente il suo corpo diventa l’arma con cui è possibile e facile uccidere un uomo nel bel mezzo della sua virilità. Il film si apre con un close-up dei seni maestosi di Amanda Seyfried e continua conturbando lo stoico Liam Neeson quanto la di lui gelosa moglie interpretata da Julianne Moore con ogni singola parte del suo corpo che si presta al gioco erotico, libidinoso, trasgressivo.

Questa funzione ossessiva della sua fisicità come oggetto proibito di un desiderio sessuale irrefrenabile continua, anche se in forme, pesi e funzioni narrative diverse in Cappuccetto Rosso Sangue, In Time (2011), Les Misérables (2012) e Gone (2012), dove è preda e cacciatrice, erotizzata dal soggetto plagiante, che tra metropoli e selva reincarna nuovamente il corpo richardsoniano della preda virginale. Il percorso continua con Lovelace (2013) – guarda caso i nomi ritornano – dove Amanda Seyfried iconizza nuovamente il proprio corpo attraverso l’icona già immortale di Linda Lovelace, giocando per sovrapposizione e perpetuandosi così come corpo femminile del nuovo millennio.

Pur continuando il suo percorso professionale tra commedie non convenzionali come quelle dirette da Seth MacFarlane, Un milione di modi per morire nel West (2014) e Ted 2 (2015), Giovani si diventa (2014), film per ragazzi come Pan (2015) e il mucciniano Padri e figlie (2015), la east girl più procace, impegnata e social di questo inizio secolo, non perde la sua carica erotica, pur deludendo quel pubblico che la vorrebbe più in linea con i personaggi di Chloe, Lovelace, Alpha Dog, In Time o Mamma Mia!

La gatta sul tetto che turba ha quindi le caratteristiche per diventare la maggiore icona del corpo femminile oggi, in controtendenza con la saturazione di immagini di bellezze patinate che tanto fanno tirare incassi, passaggi internauti e gossip. La dirompente carnalità di Amanda Seyfried non è l’algida perfezione proporzionata della fotomodella anoressica. Occhi giganteschi che rimandano ad altrettanto giganteschi seni, come fianchi vistosi su una vita da vespa che intriga solo a scorgerne il delta. Capelli, labbra, gambe, tutto in Amanda Seyfried istiga all’eros. Dalla sua ha anche un talento notevole, più esuberante della collega Jennifer Lawrence, ma molto più trascinante e coinvolgente. Non va confuso l’istrionismo di facile lettura con una recitazione grossolana da manuale. La Seyfried è attrice di razza e sa scegliere anche ruoli interessanti e mai banali, brillando là dove una semplice bellezza non farebbe altro che apparire e scomparire.

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