Premetto che questa discussione non vuole essere polemica, ma solo un modo per chiedere spiegazioni concrete. Probabilmente la risposta già la sappiamo tutti, ovvero “ognuno ha le sue idee e FilmTv è una rivista plurale e libera”, ok, ma chiedo lo stesso una risposta più esaustiva.
Su FilmTv #37 – anno 2015 ho trovato tre articoli che trattavano più o meno lo stesso tema: la forma e il contenuto. Il primo è l’intervista a Piero Messina per L’attesa (2015), il secondo è la recensione di Alberto Pezzotta proprio su L’attesa, il terzo è l’analfabetismo critico di ritorno di Roy Menarini nella sua rubrica di chiusura “Visioni dal fondo”. Seconda premessa: Pezzotta e Menarini sono due tra le firme che più apprezzo e seguo in FilmTv insieme a Sangiorgio, Bartolini, Nazzaro, Gervasini e gli ex Fittante, Bocchi, Martini.
Ora, prima di passare alla questione riporto sinteticamente i passaggi fondamentali di questi articoli.
Piero Messina dice: «Il vero problema del cinema italiano, più delle risorse e di una certa incapacità di raccontarci, è l’assenza di un pensiero realmente cinematografico. Mi sembra che quasi nessuno pensi per immagini né si curi della composizione delle inquadrature. […] Entrambi (Messina e Sorrentino, ndr.) dedichiamo moltissimo tempo allo studio dello spazio e dell’inquadratura».
Pezzotta, bontà sua, lo stronca con queste parole: «[…] ci si chiede cosa offra il film di Messina al di là di una confezione di ostentato virtuosismo. Il pretesto è pirandelliano, ma la quantità di riferimenti culturali è eterogenea». Parla di concetti didascalici e di citazioni-omaggio, lo apostrofa “esegeta di se stesso”, lo accusa di non creare senso e di fare solo tautologia e chiude con un tombale: «Tutto molto abile e professionale: ma non diciamo che è cinema d’autore».
Menarini, nella sua rubrica, accusa: «[…] non si parla più di forme. Di linguaggio, di stile, persino di grammatica». Secondo Menarini tutti ormai parlano ossessivamente di narrazione, metafora culturale, estetica contenutistica, lettura ideologica, verosimiglianza della trama e chiude sfidando i colleghi: «[…] ben pochi critici ufficiali oggi mostrano di saper analizzare linguisticamente un film o un prodotto audiovisivo».
Prima di articolare le mie domande vorrei sintetizzare il mio pensiero, in modo da non essere frainteso. Personalmente, e chi mi legge lo sa, ho sempre creduto nel mito “la forma è il contenuto”. Vengo da studi umanistici, esattamente Lingua e Letteratura Spagnola, ma alcuni miei esami e soprattutto la mia tesi magistrale erano prettamente comparatistici. Ho studiato Genette, Chatman, Bachtin, Segre, Tomaševskij e tutt’ora mi dedico individualmente allo studio critico delle forme, i generi, le strutture narrative, temi e motivi letterari, perché credo fortemente, non me ne vogliano gli idealisti, che prima del contenuto di un’opera narrativa conti la forma con cui l’opera si presenta. Quindi come apprezzo le parole di Messina, pur non avendo ancora visto il suo film, apprezzo anche quelle di Menarini perché sono io stesso tra i primi ad essere stufo di sentire commenti come “ma non ho capito…”, “ma quella scena cosa voleva dire?”, “Che film di m****, non ci ho capito un c****!” oppure le suppliche religiose per l’oltranzismo spiegazionista dove tutto deve per forza di cose quadrare e tornare al suo posto per non rischiare che la mente assonnata dell’uomo medio domestico possa svegliarsi di colpo e pretendere un aggiornamento culturale.
Un piccolo aneddoto. Non ricordo più dove, come e quando ho sentito questo racconto, ma lo ricordo benissimo proprio perché mi aveva colpito il suo significato di fondo. Vediamo: un giornalista francese ricordava a Mario Bava che Sei donne per l’assassino (1964) iniziava inquadrando l’insegna rotta di un atelier che dondolava nella tempesta e si chiudeva con la cornetta di un telefono che dondolava nel vuoto, e infine chiedeva al Maestro qual era il significato di quelle due inquadrature. Be’, Mario Bava rispose più o meno così: “non ricordo nemmeno di averle girate”.
Significato, senso, scelte autoriali, forme e contenuti. Bene. Ma di cosa stiamo parlando? Piero Messina sulla carta smaschera il vero dramma del cinema italiano, ovvero non saper pensare per immagini. Pochi sono i film che curano l’immagine e l’estetica, il profilmico come il filmico, tutto a favore solo dell’intreccio, della credibilità, della verosimiglianza, della chiarezza narrativa che qui mi pare essere soprattutto puerilità televisiva a cui va abbinata la pressoché totale assenza di mestiere attoriale – nonostante qualcuno scambi ancora la pietosa enfasi italiana come trasporto emotivo.
Con parole diverse Menarini conferma l’intuizione di Messina, accusando anche il popolo accademico di non saper più leggere e analizzare formalmente il linguaggio di un film. E in questo mi trovo perfettamente d’accordo e ringrazio Menarini per aver dato un nome a tutto questo nostro slancio critico-poetico: la “politica dei significati” – e aggiungerei dei “significanti”. Mi sento solo di dire, nel caso la “narrazione” di cui parlava Menarini fosse la struttura narrativa, che è in realtà un elemento importante nella costruzione di un racconto. La narrazione, intesa come l’espressione dell’istanza narrativa, determina la qualità dell’opera articolando i temi e i motivi, le azioni e gli avvenimenti, le cause e gli effetti, le analessi e le agnizioni, il piacere della scoperta e il gusto per il segreto. Una modulazione narrativa ben organizzata e ben pensata non è nulla di banale o trascurabile. Ovviamente, se la “narrazione” di cui parlava Menarini fosse più un’istanza spettatoriale, quel spiegazionismo oltranzista di cui prima, allora continuo a concordare.
Pezzotta invece, di cui non perdo mai un “Leggo, dunque sono” – e di cui possiedo il castoro su Mario Bava (che forse sia lì che ho letto quell’aneddoto?), accusa proprio Messina, fautore di “forma è contenuto”, di ostentato virtuosismo, di spicci riferimenti didascalici, di citazioni sterili fini a se stesse perché solo omaggi, di essere esegeta di se stesso – come dire “te la tiri e basta” – e addirittura epiteta “pigri” quei colleghi che hanno invece apprezzato e applaudito il film del siciliano. Che l’abbia criticato così energicamente proprio perché anche Pezzotta, difensore della forma (?), non ha visto un uso intelligente di questa, ma solo uno sfoggio estetico?
Ora, quello che mi chiedo: si può avere un’opinione oggettiva sulla questione forma e contenuto? Meglio un brutto film fatto male, diciamo pure “televisivo” la cui storia però è edificante, chiara, spiegazionista e che va incontro alle esigenze culturali di un pubblico non acculturato, privo di strumenti critici e di un incentivo all’informazione libera (non è un mistero che molti giovani e molti under40 privilegino vestiti alla moda, belle macchine, scarpe e mutande firmate, muscoli, palestra, tatuaggi, alta tecnologia, comodità e privilegi di casta, stipendi consistenti a fronte di un lavoro di merda, oggetti di lusso, alberghi di lusso, escort di lusso, invece che privilegiare semplicità, essenzialità, cultura, giudizio critico incondizionato, libertà e onesta intellettuale)? O forse meglio un film che magari non va da nessuna parte, non ti spiega nulla, ti lascia un sacco di domande, poco credibile narrativamente (mostri, squali assassini, avventure nella wilderness), ma adotta un linguaggio grazie al quale i suoi contenuti diventano intelligibili e raggiungono un significato profondo e duraturo nel tempo?
Piano espressivo o piano contenutistico? Qualcuno direbbe: “Perché non tutti e due insieme, questo è cinema!”, certo dico io, ma è solo quando il contenuto si concretizza e articola nella forma che le due componenti di forma e contenuto possono essere considerate valide. O almeno è quello che credo io.
Poi, sfatiamo un mito: quanti film discreti se non addirittura mediocri nella loro confezione finale, vuoi per una regia poco ispirata, una sceneggiatura piena di buchi, errori di continuità, errori nel montaggio, etc., restano però film di tutto rispetto perché affrontano temi come il razzismo, le lotte sindacali, la lotta alla mafia, l’omofobia, il fascismo mai morto, i danni del consumismo, la politica corrotta, i vizi e gli scandali della Chiesa e così via? Lunga vita anche a loro, non vi pare?
In conclusione: chi mi vuol spiegare se i tre interventi di Messina, Pezzotta e Menarini dicono infine la stessa cosa e sono io quindi che non ho capito nulla, oppure effettivamente ci sono posizioni dissonanti? E, pur sapendo che non può esistere una verità assoluta, quale delle due posizioni confermerebbe una saggia, vera, concreta e credibile conoscenza del cinema: forma o contenuto?
PS: mi piacerebbe anche sapere quale percorso formativo si deve fare per essere critici cinematografici. Mi pare non ci sia un corso di laurea apposta. Ci sono solo corsi come quelli recenti di Menarini (1)? Come si ottiene il patentino per essere critici e poter far valere e pesare il proprio giudizio rispetto a quello di un altro?
Spiegato anche questo cavillo si può iniziare a mettere tutto al suo posto e accettare l’esistenza e la compresenza di critici ufficiali e di opinionisti autodidatti, curiosi o semplici appassionati, o come direbbe Menarini “cinefilia barbarica”.
Vi faccio il mio esempio. A parte una formazione individuale di cui lascio una schiacciante prova fotografica qui sotto ehehe, nell’arco dei miei studi universitari ho dato due esami di Storia e Critica del Cinema (con De Berti, che saluto) e ho scoperto tramite la casa editrice Il Castoro che due annualità di questo esame sono vincolanti per poter lavorare nel settore. Quindi io “sarei autorizzato” a parlare di cinema ufficialmente? E chi no?
La mia sezione di critica cinematografica (vi sfido a riconoscere i volumi).
;)
Note.
(1) http://www.cinetecadibologna.it/studiare/critica_ritrovata
Date un occhiata anche anche a questo post che ho trovato molto stimolante perchè chiama in causa due tiplogie di strutturazione del racconto, quella televisiva e quelle cinematografica.
//www.filmtv.it/post/32020/sulla-critica-cinematografica-in-reazione-a-visioni-dal-fond
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