Non so quanto la nuova guardia della critica cinematografica (o, forse, più genericamente “audiovisiva”) sia impreparata e improvvisata, proprio per la natura costitutiva del mezzo informatico e della sua diffusione che attivano la scrittura ancor prima della formazione, l’istinto sulla consapevolezza. Spero sempre che la descrizione succeda alla visione e che questa sia almeno comparativa di una molteplicità, e la recensione derivi da una riflessione e non da una semplice empatia o da una simpatia spontanea.
Ma nel suo recente “Visioni dal fondo” lei pone soprattutto l’accento sulla mancanza di una riflessione sulle forme e sul linguaggio a favore della sola e semplice considerazione della narrazione, soprattutto nell’ambito della critica televisiva. Però, in effetti, la materia principe della comunicazione seriale televisiva americana è proprio la narrazione, tanto che lo showrunner e gli sceneggiatori sono il vero motore creativo di una serie, a discapito della resa visiva. È la stessa variabilità della firma registica, cangiante ad ogni episodio, porta ad una forte discontinuità stilistica, pur nel rispetto dei capisaldi e dell’imprinting visivo imposto dall’episodio pilota (di solito diretto da un nome riconosciuto o da un artigiano dal solido curriculum). Ma si tratta pur sempre di “familiarità” tra gli episodi, di generica coerenza, il cui senso più profondo risiede pur sempre e solo nell’apparato narrativo. È così che serie come Lost o Alias (per rimanere nell’ambito del medesimo creatore televisivo, nonché sceneggiatore e regista cinematografico) possono se non rivoluzionare almeno innovare la narrazione seriale con la radicalità dell’imposizione del colpo di scena, ma non molto (se non nel pilota, a firma dello stesso Abrams in entrambi i casi) fanno dal punto di vista visivo. O, comunque, sono, come tutte le espressioni seriali, estremamente discontinue nella resa. Il nucleo autorale non risiede nell’aspetto visivo bensì in quello narrativo, non nella regia, sempre anche se non esclusivamente funzionale, ma nel racconto. La diffusione e prevalenza recente della serialità, soprattutto americana, hanno portato “la critica” a concentrarsi sulla sola “fabula” anche da un punto di vista cinematografico; ma, in fondo, nel sistema degli studios, il regista non ha l’importanza che detiene nell’ottica critica europea: prevale, ancora, la sceneggiatura, la leggibilità di un film in sede preliminare e decisionale più che la sua definitiva espressione audio-visiva, tanto che il final cut rimane quasi sempre inaccettabile.
È pertanto più difficile prendere in considerazione il dato visivo nell’espressione seriale, anche per la fruizione settimanale, la ripetitività necessaria degli episodi, la cui base costitutiva di ogni serie essendo rappresentata dalla variazione sul tema, almeno nella sua forma classica (procedurale). La progressiva serializzazione e la conseguente importanza di una narrazione lineare e continuativa hanno portato ad una maggiore stringatezza narrativa che, nel migliore dei casi, comporta anche una compattezza visiva di un racconto che procede, per sua natura, pezzo per pezzo. E la prima stagione di True Detective ne è un esempio chiaro quanto sorprendete, con un’unica firma registica (Cary Fukunaga) associata ad una sola direzione creativa (Nick Pizzolatto). Ed è proprio questo l’aspetto di maggiore debolezza della seconda stagione, con la regia affidata a diversi artigiani e la sola sceneggiatura nelle solide mani del vero e ormai unico autore (soluzione frutto proprio delle tensioni e divergenze artistiche tra i due responsabili della precedente edizione).
Cinema e serialità condividono un medesimo linguaggio audiovisivo, che li apparenta per familiarità e percezione, ma la rispettiva specificità è definita non solo dal mezzo di diffusione (la sala o lo schermo di casa) o dalla possibilità di fruizione (sporadica o con reiterazione, settimanale o con il binge watching delle serie nate per internet), che incidono sulla costruzione dell’immagine (prevalenza dei primi piani sui campi lunghi) e sui tempi del racconto (narrazione tripartita per serie generaliste; tempi dilatati ed episodi separati per quelle cable). Ma la fondamentale distinzione è data dalla univocità della forma cinematografica e dalla sua necessità del prototipo (sempre più negata, però, dall’industria americana), rispetto alla costrizione alla ripetizione della serialità che impone una scansione ebdomadaria e la riconferma incessante di un medesimo appuntamento, noto e riconoscibile.
La confusione tra i mezzi che la parentela linguistica suggerisce dovrebbe essere compensata da una consapevolezza critica che ponga le sue basi nella distinzione delle due forme di comunicazione, apprezzando le contaminazioni e valutandole proprio nell’apporto innovativo reciproco all’interno nel rispettivo ambito. La preminenza della forma seriale, però, comporta una prevalenza del “tubo” (più o meno catodico) sulla sala, e poco si ragiona (Daney escluso, ai suoi tempi) sulla modifica del senso in base al mezzo, sulle trasformazioni che la forma e la fruizione impongono ad un ambito espressivo nato altrove. Ciononostante, la moderna serialità americana è un catalogo di sperimentazioni, almeno narrative, che non si riscontrano più al cinema, si arricchisce di suggestioni e di echi filmici con una crescente ricchezza di immagini e di immaginario, tra spettacolarità visiva e citazioni (anche se spesso solo “nobilitanti”), di cura fotografica e recitativa. Ma soprattutto, nei casi migliori, impone, per l’esuberanza e stratificazione di apporti e significati, la necessità (e, quindi, la rivalutazione) della concentrazione da parte dello spettatore, dell’attenzione nella fruizione sia sul piano visivo che narrativo, che contraddice la dissipazione della tensione e l’uso distratto che sembravano accompagnare ogni espressione televisiva, sottofondo quotidiano e indistinto rumore senza interesse, per riavvicinarsi almeno concettualmente alla natura del cinema, racconto audiovisivo latore di senso.
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