È ormai noto come gli animali siano stati fin dalle origini dell’umanità il primo specchio deformante con cui l’uomo ripensava a se stesso. L’animale, da quello domestico a quello selvatico e a quello mostruoso, nella sua rappresentazione diventa l’immagine di un contenuto psichico, «la rappresentazione di qualcosa che si situa sulla soglia di conscio e inconscio. Sarebbe quindi non rappresentazione in senso stretto, ma realtà a se stante, simbolo di qualcosa che non è né uomo né animale, né dentro né fuori, o entrambe le cose (1)».
Dal cavallo al cane, al toro, alla mucca, al gatto e agli animali selvaggi come il lupo, l’orso, la volpe, il leone, la tigre, la iena, il coccodrillo, lo squalo e così via, ogni società, ogni comunità territoriale umana, quindi ogni cultura, ha i suoi animali totemici. Sono animalità che vivono nella domesticazione, a stretto contatto con l’uomo, oppure popolano le terre selvagge e incontaminate, non più dominio dell’uomo, ma della bestia. Questo porta, per motivi e sistemi relazionali diversi, a vedere nel toro o nel cavallo o nel cane come nel lupo o nell’orso immagini dell’umano.
Il racconto zooantropico, delirante, indotto da trance o narrativizzato attraverso la pratica folklorica e letteraria, è quindi una delle vie più affascinanti per un percorso psicanalitico a stretto contatto con la materia da cui originiamo: la natura selvaggia.
Da questo privilegiato punto di vista, l’animale-uomo può indagare se stesso attraverso l’immagine dell’uomo-animale, ovvero della bestia ridotata e riconnotata delle peculiari caratteristiche umane.
Le favole di ogni popolo, le leggende del folklore, la letteratura moderna, il cinema, il fumetto, la musica e l’arte grafica, ma anche la moda, lo sport e chissà quanti altri ambiti della vita, hanno utilizzato e sempre utilizzeranno il referente animale per meglio raccontare l’uomo in ogni sua sfaccettatura, prediligendo in particolar modo il tema del doppio, la dualità della natura umana, l’eterno scontro tra cultura e natura, tra umanità e bestialità.
Come una sorta di Jekyll e Hyde biologico, lo Yin e lo Yang su cui si regge l’universo innerva le varie narrazioni il cui fulcro conflittuale è la minaccia animale e il suo conseguente scontro con l’essere umano. I due generi in cui si possono raggruppare queste tipologie narrative sono: l’animal attack movie, a volte detto anche eco-vengeance, ma è un termine fuorviante e impreciso; e il wilderness-drama, che spesso utilizza l’incontro/scontro con l’animale solo come uno dei tanti moduli narrativi topicizzati.
Tra le fiere bestie che hanno stimolato in quest’ottica la fantasia dell’uomo c’è il re plantigrado, l’orso. Il cinema è stato effettivamente un po’ avaro con la figura dell’orso, preferendovi serpenti, squali, coccodrilli o cani assassini, ma la letteratura può vantare invece pagine di una certa importanza.
Innanzitutto andrebbero ricordare le leggende del folklore di ogni popolo. Considerando l’orso un animale ampiamente distribuito su tutta la terra non è difficile trovare racconti tribali che hanno per protagonista un orso, soprattutto nei racconti di tipo cosmogonico, sulla creazione del mondo e dell’uomo, come è altrettanto battuto il topos del rapimento di una donna da parte dell’orso.
Dopotutto, sia l’orso che il lupo sono storicamente gli animali totemici per eccellenza, almeno per i popoli settentrionali dell’Europa, dell’Asia e dell’America del Nord, e la loro iconografia ha caratterizzato praticamente ogni aspetto delle comunità pre-cristiane. L’arrivo del cristianesimo, si sa, ha demonizzato gli animali a favore del culto di un solo ed unico dio.
Emblematica è per esempio la leggenda medioevale di Valentino e Orsone, tradotta in italiano nel XVI secolo, dove uno dei due gemelli separati alla nascita, Orsone, porta nel nome la caratteristica bestiale che lo metterà contro il civilizzato fratello. Non ci sono orsi, ma il parallelo è più che evidente. Momenti letterari celebri sono per esempio L’orso grigio (1916) di James Oliver Curwood, in originale The Grizzly King e che sarà alla base de L’orso (1988) di Jean Jacques Annaud. William Faulkner scrisse scene di caccia all’orso in La grande foresta (1955) e soprattutto in Go Down, Moses (1942) il cui capitolo per l’appunto titolato “L’orso” è uno dei suoi brani più celebri e distintivi. Nel 1954 Frederick Manfred è finalista al National Book Award con Lord Grizzly, la storia di sopravvivenza e vendetta del mountain man Hugh Glass, a cui ha dato nuovo respiro The Revenant, scritto nel 2003 da Michael Punke e divenuto poi un film nel 2015 diretto da Alejandro González Iñárritu e interpretato da Leonardo DiCaprio. Inoltre va citato un testo tra i fondamentali dell’immaginari ursino, a firma di chi all’epoca plasmò anche il mito del vecchio, lontano e selvaggio west come mitologia della nascente nazione americana: Theodore Roosevelt, 26° Presidente degli Stati Uniti che tra i suoi vari scritti molti furono dedicati al re delle foreste americane. Nel 1983, Paul Schullery raccoglie questo materiale in American Bears: Selection from the Writings of Theodore Roosevelt.
Anche in Italia, nonostante le polemiche inutili sulla presenza degli orsi sulle nostre montagne che hanno messo in cattiva luce l’immagine dell’orso, è uscito recentemente un romando di Matteo Righetto, edito da Guanda, La pelle dell’orso (2013). Purtroppo, se l’idea sulla carta era interessante, a conti fatti il veloce romanzo dell’autore padovano risente di una trama fin troppo lineare, che per il sottoscritto è un bene, una manna, un valore aggiunto, ma qui sa più di mancanza di idee e di una struttura complessiva che ricorda il tema studentesco. Peccato, occasione persa, anche se resta una piacevole lettura.
Il grande schermo invece, nonostante il forte appeal della figura ursina per tutto ciò che riguarda il riflesso dell’uomo nell’animale selvatico che più gli rassomiglia (2), non ha utilizzato l’orso tanto quanto squali, serpenti e coccodrilli, ad oggi gli animali più cinematografati.
Il bear-attack-movie prende realmente le mosse dopo il successo planetario de Lo squalo di Steven Spielberg (1975). È infatti del 1976 Grizzly – L’orso che uccide, di William Girdler, che nonostante una fattura di molto inferiore al film modello riesce comunque ad azzeccare una serie di scene da brivido: su tutte, quella iniziale dove due campeggiatrici vengono letteralmente dilaniate dal grizzly riallacciandosi così al topos dell’orso dalla sfrenata libido sessuale.
Esattamente dieci anni prima, un orso grizzly apparve già al cinema come motore narrativo minaccioso. Era il 1966 e Joseph Pevney dirigeva un western vero e proprio in cui la minaccia non arrivava dagli indiani o dai banditi, ma da un feroce orso grizzly che terrorizzava gli allevatori della zona. La valle dell’orso, benché lontano da quello che oggi chiamiamo animal-horror, merita comunque una visione perché l’assenza del digitale ha permesso di giocare molto sul non detto, o meglio il non visto, e ci regala anche un feroce combattimento corpo a corpo tra l’orso e il protagonista.
È comunque il film di Girdner a iniziare le danze, anche se il suo sequel del 1987, Grizzly II – The Predator, non fu mai distribuito e si dice che nel 2007 abbia cominciato a circolarne un versione bootleg. Claws (1977), film completamente autonomo e slegato dal precedente, venne invece distribuito in alcuni paese e spacciato come sequel ufficiale, ma il vero secondo capitolo, conosciuto anche come Grizzly II – The Concert, non fu purtroppo mai distribuito. Si sa soltanto, oltre all’apparizione in ruoli di supporto di George Clooney, Charlie Sheen e Laura Dern, che i nuovi attacchi dell’orso assassino sarebbero andati a scapito di un raduno musicale rock sul modello di Woodstock. Idea geniale che incuriosisce anche per l’indiretto cavillo politico: madre natura che uccide i figli dei fiori perché “sbagliati” oppure orso castratore a simbolo di un governo repressivo?
Ma gli anni ottanta saranno tutti appannaggio del capolavoro di Jean Jacques Annaud, tratto da Curwood, L’orso, favola forse un po’ troppo antropomorfizzata del grande re plantigrado, ma sicuramente di grande effetto narrativo e visivo. Visto al cinema da bambino, proprio il giorno di Natale dell’anno in cui era uscito, l’88, L’orso è diventato, insieme a titoli come Baby – Il segreto della leggenda perduta, Explorers, Mississippi Burning, Grosso guaio a Chinatown, E. T. e molti altri tra cui le avventure di Indiana Jones, di Fantozzi, di Trinità e di tutti gli altri film della coppia Spencer-Hill , uno dei capisaldi del mio immaginario in formazione.
Negli anni novanta invece, a parte L’urlo dell’odio (1997), diretto da Lee Tamahori, e interpretato da Anthony Hopkins e Alec Baldwin braccati da un feroce kodiak come simbolo di una virilità bestiale che attanaglia i due rivali in amore, si registrano un tv movie del 2000, Wild Grizzly, e un film dal taglio avventuroso-bucolico come Grizzly Falls (1999). In Vento di passioni (1997) invece, la minaccia di un feroce grizzly è soltanto uno dei moduli narrativi della lunga pellicola di Edward Zwick, ma è centrale nella caratterizzazione del personaggio ribelle e selvaggio interpretato da Brad Pitt che rinverdisce il mito dell’Uomo Selvatico, già illustrato nella leggenda di Valentino e Orsone, attribuendo al giovane ribelle, in una sorta di rituale di caccia, lo spirito del grande orso. L’incontro con il grizzly, va detto, è anche una scena terrificante e perfettamente resa dalla regia. Una curiosità: ad interpretate l’orso c’è Bart the Bear celebre kodiak dell’Alaska che ha interpretato numerosi film tra cui appunto L’orso, Zanna Bianca – Un piccolo grande lupo (1991), Sfida tra i ghiacci (1994), e L’urlo dell’odio (1997); mentre l’erede del titolo Bart the Bear, ovvero Little Bart o Bart II, un grosso grizzly allevato e addestrato dallo stesso trainer del precedente, Doug Seus, è intervenuto in altri film come Il vento del perdono (2005), Into the Wild (2007) e Into the Grizzly Maze (2015), l’unico di questi film appartenente al genere horror.
È il terzo millennio a scegliere il furore ursino come motore narrativo per survival movie strettamente legati all’animal attack movie. Si comincia nel 2007 con Grizzly Rage, diretto dal pessimo David DeCoteau che abbandona le atmosfere cripto-queer e butta due ragazzi e una ragazza nel bel mezzo del nulla inseguiti da una mamma orsa a cui hanno ucciso il piccolo. Il film non è nulla di che, ma si guarda piacevolmente nonostante le improbabilità e la pochezza di idee e di mezzi.
Un anno più tardi arriva Grizzly Park (2008) dove un orso Grizzly fa piazza pulita di una serie di giovani teppisti reclutati per pulire un parco nazionale dopo la chiusura estiva. Non svelo altro, ma è un film spassoso e truculento.
Nel 2005 Werner Herzog riporta l’attenzione sul mito-problema-fascino dei grossi orsi grizzly rielaborando il materiale di Timothy Treadwell, il folle affetto da titanismo che volle sfidare la natura e la sua stessa salute mentale vivendo per più di dieci anni a stretto contatto con i grizzly. Nel 2003 verrà attaccato e sbranato da un orso insieme alla ragazza che lo accompagnava in quell’ultima avventura, Amie Huguenard. Con Grizzly Man, il grande maestro tedesco rispetta la morte di Treadwell e si inchina al suo coraggio, ma condanna questa inutile sfida che lui ben conosce, memore delle sue sfide alla natura che hanno costellato il suo cinema, una su tutte Fitzcarraldo (1982).
Seguono Bear (2010) di John Rebel, Backcountry (2014) di Adam McDonald - il cui efficace trailer lascio dopo la filmografia - e Into the Grizzly Maze di David Hackl. Il primo segue più o meno il plot di DeCoteau con due giovani coppie a cui si rome la macchina in una terra selvaggia, territorio di un grosso grizzly. Il film di McDonald è invece il capolavoro del filone. Autoriale e autorevole, mette una giovane e felice coppia di città nel bel mezzo di una wilderness autunnale, indifferente ed inquietante nella sua assenza di limiti e confini umanamente tangibili e attraverso la presenza ferina di un enorme orso nero canadese ne mina il rapporto (link più approfondito: //www.filmtv.it/film/71167/backcountry/recensioni/831540). Mentre il film diretto da Hackl, spreca un cast di prestigio composto da Thomas Jane, Billy Bob Thorton, Scott Glenn e James Marsden e confeziona un filmetto incapace di giocare con il mito e i topoi del genere. Va detto però che il lungo finale ci regala tre combattimenti corpo a corpo con il grosso grizzly che ci fanno dimenticare il bruttissimo uso del digitale di cui il regista ha abusato e fatto scempio.
Se l’orso, per le sue affinità con l’essere umano, simboleggia l’uomo selvatico o più profondamente la natura bestiale dell’uomo, storie di uomini e orsi non possono certo finire qui. Il grande re plantigrado è là fuori che ci aspetta, va tutelato e difeso, non demonizzato, ma la sua ferocia e la sua imponenza continueranno ad essere uno specchio in cui l’uomo rivedrà se stesso con il pelo di fuori.
Note.
(1) RIBOLA Daniele, L’orso e i suoi simboli, Edizioni Scientifiche Ma. Gi., Roma, 2013, pp. 11-12.
(2) «[…] dalla coda corta al sonno invernale, dal pelo folto al modo di grattarsi il dorso contro gli alberi, dalla proverbiale golosità alle dimensioni dei cuccioli, dall’incontenibile foga sessuale alla madre che lecca e nutre i cuccioli, tutto è dotato di poteri magici, tutto diventa proverbio e leggenda». Ribola, op. cit., p. 21.
FILMOGRAFIA.
1966 – The Night of the Grizzly
1976 – Grizzly, l’Orso che Uccide
1977 – Claws
1983 – Beasts
1987 – Grizzly II The Predator
1988 – L'Orso
1994 – Legends of the Fall
1997 – L’Urlo dell’Odio
2000 – Wild Grizzly
2005 – Grizzly Man
2006 – Savage Planet
2007 – Grizzly Rage
2008 – Grizzly Park
2010 – Bear
2014 – Backcountry
2015 – Into the Grizzly Maze
2015 - Unnatural
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