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Backcountry

Regia di Adam MacDonald vedi scheda film

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La recensione su Backcountry

di scapigliato
10 stelle

Backcountry è, con ogni buona probabilità, il più realistico, inquietante e spaventoso animal attack movie di sempre. Con una modulazione narrativa semplice e lineare, il regista Adam McDonald, attore al suo esordio nel lungometraggio, ci porta all’interno di un orrore atavico e primordiale fatto di immagini evocative e nuclei tematici archetipali.

Una giovane coppia di città, Alex e Jenn, interpretati da Jeff Roop e Missy Peregrym, decide di inoltrarsi in una regione remota, appunto il backcountry, di uno dei tanti parchi provinciali canadesi per raggiungere un lago incantevole dove Alex era solito passare gli anni dell’adolescenza. Già da questa rapida sinossi risaltano alcuni elementi narrativi che radicano nel racconto popolare, nelle leggende e nelle fiabe: attraversamento di una foresta per raggiungere un luogo incantato che faccia da scenario a una storia d’amore.

Simbolicamente la foresta è l’intrico dell’inconscio, soprattutto di matrice femminile, ed è storicamente il luogo deputato all’incontro con mostri o creature sacre. La letteratura medievale, da quella cortese a quella cavalleresca, rappresenta la foresta come una delle tappe fondamentali del percorso eroico del cavaliere. Nelle fiabe del folklore europeo raccolte dai fratelli Grimm, la foresta era il luogo magico per antonomasia, scenario immancabile per i riti di iniziazione e di passaggio. Basti pensare alla fiaba di Hansel e Gretel, che per certi versi ricorda l’impianto iniziale di Backcountry, per rivedere nella foresta il teatro di uno psicodramma di gender improntato sulla conflittualità dei sessi. Proprio come i due fratelli portati nel bosco dal padre perché si perdessero e non tornassero più indietro, anche i due protagonisti di questo stupendo wilderness drama si perdono nella “selva oscura”, e non proprio a caso: il ragazzo è infatti consapevole della minaccia orsina e sa che non avrebbe mai dovuto allontanarsi dal sentiero principale.

Anche i personaggi secondari, dalle veloci caratterizzazioni, sembrano essere usciti proprio da un fiaba nera. Il ranger che i due protagonisti incontrano al centro visitatori del parco per sbrigare le questioni formali, funge da donatore. L’uomo prepara l’eroe della storia, dandogli alcuni consigli e dritte, in più gli fornisce “l’oggetto magico”, ovvero il kit di sopravvivenza. È comunque un donatore sui generis. Il ranger difatti, mette in guardia la giovane coppia dall’allontanarsi dal sentiero principale, ma silenziosamente già prevede la tragedia e la comunica non con le parole e i gesti, dato che è molto socievole e sorridente, quanto piuttosto con uno sguardo traditore. Un personaggio di contorno, con poche battute, ma carico di una potenza inquietante tanto da connotarlo come il primo agente di terrore e destabilizzazione della narrazione.

Il secondo di questi agenti è il falso eroe o anche il mandante, per restare sempre all’interno dello schema di Propp. Interpretato da Eric Balfour, il suo Brad è un ambiguo escursionista che non sembra raccontarla giusta. È irlandese, dice di conoscere il posto, pesca un sacco di pesci senza licenza e dice di prendere un mucchio di soldi facendo da guida ai turisti che voglio uscire dai sentieri canonici. La sua presenza destabilizza definitivamente la coppia nella lunga scena della cena intorno al fuoco e non solo crea attrito tra i due giovani amanti, ma insinua anche una lotta di virilità tra i due maschi: uno, Alex, cittadino, civilizzato, pieno di comodità e accessori vari; l’altro, Brad, selvatico, rozzo, seducente, avventuriero.

Uscita di scena anche la figura destabilizzante del mandante che “interrompe” l’eroe e gli procura il trauma, il ghost direbbe John Truby, e che ipoteticamente lotta per prendersi la principessa e i meriti dell’eroe, entra poco alla volta l’agente principale di terrore di tutta la storia: l’orso. Non un orso qualsiasi e nemmeno il celebre grizzly, ma un orso nero canadese, più grosso e più aggressivo del cugino americano, il baribal che si trova spesso in moltissime pellicole, soprattutto western. Neanche a farlo apposta, questo spaventoso canadian black bear è il mostro del bosco, l’orco, il drago, l’antagonista vero e proprio o meglio ancora, una proiezione del vero antagonista: ovvero Alex, il ragazzo che coscientemente porta la sua ragazza in bocca a un pericolo chiaro e imminente per poi trovare proprio quella fine che Werner Herzog ha voluto tenere fuori campo in Grizzly Man (2006).

Altre simbologie, oltre alla foresta, l’intrico femminile, le caratteristiche fiabesche, il passaggio dall’adolescenza al mondo adulto, la minaccia animale e il serpente edenico che si interpone fallicamente tra i due amorosi, sono per esempio i segni della morte, come la pestilenziale carcassa di un cervo in mezzo al bosco e il cadavere di un corvo sul sentiero, che oltre ad essere proiezioni deformate dei protagonisti che vanno incontro a smembramento certo, sono anche gli indizi di una presenza ferale che poco alla volta si impossessa degli interi nuclei narrativi.

Anche la notte è un elemento narrativo di non poco conto. Fin dal primo accampamento lo spettatore si aspetta l’arrivo della mostruosità, invece il regista, sapientemente, adotta la tecnica dello squalo di Spielberg e per diverse notti all’addiaccio ci regala piccoli genuini spaventi: un’immersione nell’incubo efficace e narrativamente produttiva di senso. La bravura di McDonald è confermata anche da una regia curatissima che punta tutto sul montaggio restando ampiamente e inquietantemente nei canoni del realismo e concedendosi solo verso il finale alcune scene antinaturalistiche per descrivere l’orrore che da esterno, l’orso, diventa interno, la ragazza in fuga dal mostro.

Allo stesso modo, l’arrivo in cima all’affioramento roccioso da cui ammirare il lago tanto cercato e scoprire che non c’è nessun lago e che quindi ci si è persi, è un’ottima trovata narrativa che segna il punto di non ritorno dopo aver precedentemente superato e trasgredito il monito fiabesco: il cambio di sentiero. Non solo: i protagonisti si incontrano anche con un bed bear, il letto di un orso, ovvero una grossa buca nel terreno dentro la quale l’animale si rifugia nei momenti di riposo. Ergo: hanno violato il suo territorio e pur vedendo un segno inequivocabile della sua presenza continuano la loro escursione. L’incomprensibile tensione suicida della coppia può indicare, ad un livello inconscio, il desiderio di rottura di un amore che forse non era, e quindi anche la rottura di un legame e di una sere di vincoli che incatenavano i due giovani amanti contro ogni loro plausibile volontà.

La furia animale che si scatena nel terzo atto del film è la perfetta e logica chiusura di un percorso narrativo estremamente archetipale che attraverso simboli, topoi e figure narrative consolidate ha saputo veicolare tematiche moderne e attuali come l’incomunicabilità, l’inadeguatezza dell’uomo moderno in natura, il trauma virile e il suicidio catartico restando allo stesso tempo ben radicato nella struttura classica del film di genere e rispondendo al modello narrativo della tragedia: allontanamento, allocuzione, infrazione, punizione.

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