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Venti d'Inverno '23-'24
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Venti d'Inverno '23-'24

 

A prescindere dall'anno di distribuzione, i venti (+10) titoli (di film, serie e tutto quello che sta in mezzo e oltre i due estremi) migliori cui ho assistito e/o dei quali ho scritto su FilmTV.it nel periodo Dicembre 2023 → Febbraio 2024; più qualche libro, disco, eccetera.

 

 

• Film & Serie.              

- The Zone of Interest [Jonathan Glazer (& Martin Amis), 2023, GBR-POL]
Killers of the Flower Moon [Martin Scorsese & Eric Roth (& PTA?), 2023, USA]

- Fargo - 5ª stag. (Noah Hawley, 2024, USA, serie semi-antologica)
- Sulla Giostra (Giorgia Cecere, 2023, ITA)
- All of Us Strangers (Andrew Haigh, 2023, GBR)

- Den Siste Våren (Franciska Eliassen, 2018, NOR)
- Prima Facie (ripresa di uno spettacolo teatrale), A Sibila (lungometraggio), the Curse (limited/mini-serie), For All Mankind (4ª stag.), Lawmen: Bass Reeves (limited/mini-serie), Lessons in Chemistry (limited/mini-serie), Eileen (lungometraggio)...

Guilty Pleasure / Fuori Concorso: "All Creatures Great and Small" (4ª stag., 2023) - "Conoscenza, pulci e famiglia!".

 

 

• Libri.              

- Fen, Bog & Swamp” di Annie Proulx (2022) – Le Radici del Futuro. 

"Vediamo quello che vediamo, non per forza quello che c'è, e scriviamo quello che sappiamo, non per forza quello che vediamo."

"Qui […] vediamo la mentalità vittoriana in azione: molti inglesi, se durante gli ultimi anni della bonifica delle torbiere esprimevano una profonda tristezza e cordoglio, nello stesso respiro lodavano i campi di grano e mais che avevano rimpiazzato le zone umide selvatiche. Mi viene in mente il commento di uno dei pionieri del West americano, il quale riteneva che la sconfitta degli indiani fosse "essenziale, per quanto tragica". Anche questo è tipico della psiche umana: un senso bruciante di perdita irrevocabile aggiogato a un'accettazione fatalista del "progresso" e del "miglioramento" nella idea arrogante che l’“adesso” - l'epoca in cui viviamo noi - sia superiore a tutte le epoche precedenti. Le prove offerte di solito sono i "progressi" tecnologici."

 

 

- "The Zone of Interest" di Martin Amis (2014) - Cose che Sappiamo Già (Anus Mundi).

«Non mi viene in mente alcunché a proposito di “la Zona d’Interesse”.»

Resta il fatto che “the Zone of Interest” di Martin Amis, figlio del Kingsley di "the Old Devils" [Oxford, 1949; “Money: a Suicide Note”, “London Fields”, “Time's Arrow, or: the Nature of the Offence” (sullo "stesso" argomento, ma più "teorico"), “the Information”, “Night Train”, “Yellow Dog”, “Koba the Dread: Laughter and the Twenty Million”, “the Second Plane”, “The Rub of Time” e quel capolavoro di ustionante autofiction & other/over-truth ch’è il memoire “Experience”], è un eccellente romanzo --- --- --- l’intreccio di tre memorie: l’estetismo romantico (spurio) di Angelus “Golo” Thomsen (l'ingranaggio), l’ottusa logorroicità (vomitevole) di Paul Doll (il mostro) e il ciò che è stato (ritrovato) di Szmul Zacharias (l'uomo) --- --- --- che avrei preferito non leggere (perché sull’argomento sapevo già quel che si poteva sapere senza esserci stato, in un Campo di Concentramento e Sterminio) e che non fosse stato scritto: ma né l’una né l’altra cosa sono accadute, anzi è successo proprio l’opposto: e tanto vale far parlare il romanzo, allora.

 

“Mamma, cos’era quel rumore terribile?”

“C’è qualcosa che non gli facciamo?”

“Provano schadenfreude perfino per sé stessi.”

“La sconfitta è biologicamente impossibile.”

“Segreti? Quali segreti? L'intera contea si tura il naso per non sentirli.”

 

La feccia del tempo: la zolla nera che si spacca e ribalta e ribolle per i gas di decomposizione nella radura del Secolo Breve.

Bormann, lo zio del co-protagonista, Goring (il Travestito, der Transvestit), Goebbels (lo Storpio, der Kruppel), Himmler (il Ciarlatano, der Kurpfuscher), il “pericoloso” (per la carriera di Bormann) Speer… E poi GröFaZ, che non è un “coso” jacovittiano, ma un acronimo per Größter FeldHerr aller Zeiten (“il più grande condottiero di tutti i tempi”), o, per dirla con gaddiana memoria, sulla scìa del “batrace tritacco” (ed altri pedigree: Bianchi, Farinacci, Starace) riservato ai postumi di Salò, il “priapo illibato”, l’imbianchino-acquarellista austriaco, il cui nome viene scritto (accompagnato da una fotografia) solo una volta da Martin Amis in “the Zone of Interest”: nella postfazione {e l’intenzione stessa non è solo “dimostrata” dalla coda saggistica - che altro non è dall’illogicamente ontologico tentativo di giustificare con pezze d’appoggio il proprio romanzo, ed è valida quanto il resto del libro di "true non-fiction" -, m’anche esplicitamente dichiarata dall’autore in essa, ricorrendo ad esempio a Primo Levi [che alla Buna-Werke della IG Farben nel(la) Kat-Zet (il KonzentrationsLager, la Zona d'Interesse) di Monowitz (Auschwitz III) “lavorò”], cui il libro è dedicato assieme a Paul Celan, tra gli altri}, e tra virgolette (evidenziando da parte dello stesso autore questa “scorta” tipografica che “sembra” renderlo “leggermente più gestibile”). E il romanzo, in fondo, è il (vano, inutile) tentativo - svolto attraverso altri personaggi "minori" quali l’aguzzino Paul Doll aka Otto Moll / Rudolf Höß (che risulterà - come tanti altri, essendo quest’epitaffio un compendio di vari reali addii - patetico persino di fronte alla morte: “un ragazzino da incubo”), le cui autobiografie lasciamo a chi "le ha dovute leggere per forza", come per l’appunto lo stesso Primo Levi - di ribadire l’indicibile sotto agli occhi di tutti: che questo è (stato).

 

 

“In mezzo al Lager c'è la piazza dell'Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell'Appello c'è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre.” -- Primo Levi, “Se Questo È un Uomo”, Edizioni Francesco De Silva di Franco Antonicelli, Torino, 1947.

“Fratelli umani, lasciate che vi racconti com'è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo.” -- Jonathan Littell, “Les Bienveillantes”, 2006 (Einaudi, 2007, traduzione di Margherita Botto).

«È vero che Kraus scrisse: “A proposito di Hitler non mi viene in mente nulla”. Ma era la prima riga di un libro su Hitler e i nazisti.» - Jonathan Franzen, “the Kraus Project”, 2013.

 

 

• Dischi. 

Smile - "Wall of Eyes"; AA.VV. - "Stagioni - Tributo ai Massimo Volume"; Umberto Maria Giardini - "Mondo e Antimondo"; i Cani Baustelle - "Lato A (Nabuccodonosor - Essere Vivo) Lato B (Canzone d’Autore - l’Ultimo Animale); Cmon Tiger - "Habitat"; Peter Gabriel - "I/O"; IDLES - "TANGK"; Any Other (Adele Altro) - “stillness, stop: you have a right to remember”; Bachi da Pietra - "Accetta e Continua"; DeadPeach - "the Cosmic Haze and the Human Race"; NewDad - "Madra"; Paolo Saporiti - "la Mia Falsa Identità"; (Gianluca) Massaroni Pianoforti - "Maddi"; Bruce Springsteen - "Only the Strong Survive"; Sonic Youth - "Walls Have Ears" (live bootleg del 1986); CCCP - "Altro che Nuovo Nuovo" (live del 1983); Paolo Benvegnù - "È Inutile Parlare d’Amore"; Alberto Bianco - "Certo che Sto Bene": Quanto è facile sbagliare / Quando il mondo è così feroce // Quando la polizia ti fa paura / Anziché fartela passare...

 

 

E un recupero colpevolmente tradivo dallanno scorso (la Rappresentante di Lista - "Live with Orchestra"), più unaltra cinquantina (comprese Taylor Swift, Erika De Casier e Miley Cyrus) di titoli nuovi...

 

 

Ed ora provate a ritrovare voi stessi in una o più delle reazioni del pubblico "difficile" chiamato per loccasione da Paul Thomas Anderson ad assistere alla performance di Thom Yorke e soci...

 

Ed in fine, con "Vitamin C" (da "Ege Bamyasi" del 1972), già inserita da - ancora - Paul Thomas Anderson nella track-list di "Inherent Vice", un ricordo di Damo Suzuki (16/01/1950 - 09/02/2024), per un triennio (1970-1973) la voce del kraut-rock dei Can...

Playlist film

La zona d'interesse

  • Drammatico
  • Gran Bretagna, Polonia, USA
  • durata 106'

Titolo originale The Zone of Interest

Regia di Jonathan Glazer

Con Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, Stephanie Petrowitz

La zona d'interesse

In streaming su Amazon Video

vedi tutti

 

Campo. Controcampo. Fuoricampo. Ipercampo.

 

Lo sguardo – il medio-periferico campo visivo binocular-frontale umano copre all’incirca 120° sul piano dell’ascissa e poco di meno sulla verticale dell’ordinata – si può stornare con relativa discrezione dettata da una parte dalla vergogna e dall'altra da opportunismo e convenienza, aiutandosi anche con altri 90° per lato messi a disposizione grazie all’agire più evidente del collo, così come il corpo tutto ruotandolo di 180° sui talloni facendogli fare senza più alcun pudore dietro-front, oppure lo si può sbarrare completamente spalancando gli occhi sino a renderli "wide shut", apertamente chiusi, macchine da presa celibi in dote a cadaveri ambulanti, e d’altro canto si può impedire all’orizzonte stesso, oggetto della cancellazione in atto, di entrare nell’immagine in falso movimento processata dal cervello limitandone e circoscrivendone l’esperienza con paraocchi, sipari e muraglie indossati, disposti ed erette allo scopo o dotando loro di una seconda funzione derivata.   
Invece l’udito e l’olfatto no. Non esistono scuri, guarnizioni e paraventi che tengano. I suoni e gli odori viaggiano. Non danno scampo al presente (passato, odierno, futuro), al dis-interesse, incistandosi nella Storia come ripugnanti, rivoltanti, repellenti madeleine che ci riportano alla mente, impietose, cose che sappiamo già.

 

(Letteratura.)

Ed è vero quel che si dice, qui nel KL: "Nessuno conosce sé stesso." Chi sei tu? Non lo sai. Poi arrivi nella Zona d'Interesse, e lei ti dice chi sei.


• Campo.
La ragazzina col vestito infrarosso che scava nel mucchio dell'umano concime per nascondervi calorie.

I picchi picchiettano, i fringuelli fringuellano, gli usignoli usignoleggiano, gli uccelletti tutti augellano in sperticati cori di richiamo/disputa sessual-territoriale, i fiori fioriscono in primaverile florilegio celestrino (gli altri persistono oltre il lutto personale) e i treni ciufciuffano lacerando il quadro/fotogramma mentre disegnano la linea dell’orizzonte oltre un fronte di mattoni o d’alberi: οiδα.


Modern Times.
Interlacciati alle ligeti-pendereckiane musiche scritte e orchestrate da Mica Levi (collaboratrice del regista sin dai tempi di “Under the Skin”), i rumori (brulicanti ciangotii d’ingranaggi biologici in spettrale vociferazione) del sound design industriale (non poteva essere altrimenti: di fabbrica fordiana stiamo parlando: “È stato dai mattatoi di Chicago che i nazisti hanno imparato a lavorare industrialmente i corpi.” – J.M. Coetzee, "the Lives of Animals", 1999) in onnipresente background raccolto e strutturato da Johnnie Burn e Tarn Willers rendono l’esperienza (“dispiace solo che debba essercene così tanta”, per dirla col Kingsley Amis riportato dal figlio Martin nel memoire autobiografico che porta il titolo di, per l’appunto, “Experience”) ineluttabile: un close-up aclockworkorangesco.

 

Fotografia (macchine fisse à la Big Dumb Brother, come già in alcuni frammenti di “Under the Skin”, e anche, però, un paio di carrellate su... binario, ché nel gorgo dell'infame tragedia ogni parola ferisce) di Lukasz Zal (“Ida”, “Loving Vincent”, “Dovlatov”, “Cold War”, “I'm Thinking of Ending Things”), montaggio (in alcuni frangenti e momenti ipercinetico) di Paul Watts (sodale del regista) e scenografie (egemonicamente/filologicamente pre-brutaliste) di Chris Oddy (che già aveva arredato/alienato “Under the Skin”).

 

• Controcampo.
L'utile idiota in giardino ad isolare le cuscute migliori.

 

LebensRaumInteressenGebiet: un'area "cuscinetto" [un alibi che la popolazione tedesca – composta (tanto quella rimasta su suolo germanico quanto quella andata ad occupare le nicchie ecologiche di quella autoctona polacca evacuata e sgomberata) non da mostri, ma da "esseri umani medi, fatti della nostra stessa stoffa", per parafrasare il Primo Levi de "i Sommersi e i Salvati", che si riferira nello specifico ai carnefici veri e propri e non ai più comuni volenterosi al meglio indifferenti, ai quali riserva però una puntualizzazione: "dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi" – non avrebbe potuto sbandierare in alcun modo] di 40 km² attorno ai confini del lager, per un raggio di circa 3,5 km.

 

Sdretsab Suoiruolgni.
“A dirti la verità non stavo prestando troppa attenzione. Ero troppo occupato a pensare a come avrei potuto gasare tutti quanti in quel salone.”


2001: a Space Odyssey. (Love Story.)
Un campo-controcampo ur-kubrickiano: come David Bowman nella settecentesca stanza rococò che osserva l’incanutito sé stesso in procinto di rinascere, Rudolf Höss [Christian Friedel (che, a latere, di suo porta in dote al pubblico italiano un’incolpevole quanto inquietante rassomiglianza lombrosiana col ministro dell’agricoltura Lollobrigida), accanto al quale spicca la prestazione corporale - a cominciare dalla mimetica andatura contadino-montanara - di Sandra Hüller (“Toni Erdmann”, “Proxima”, “Anatomie d'une Chute”), unico altro personaggio in “primo piano” del film, che in fondo altro non è che una storia d’amore (con - “Maybe Esther Silberman is over there... The one I used to clean for...” - suocera: Imogen Kogge) come tante] è sorpreso dall’altrui futuro creato(si) nell’atto di non-osservarlo da uno spioncino per interposta caterva immane di cadaveri.


• Fuoricampo.
Szmul Zacharias, che ascolta gorgogliare il ribollente (le zolle erbose che si alzano e si spaccano per la spinta sotterranea dei gas prodotti dal processo di putrefazione dei pezzi dei corpi umani - maschi e femmine, vecchi e bambini, alti e bassi, grassi e magri -  maciullati e sepolti prima di dare tutto in pasto alle bocche dei forni) Prato di Primavera.

Idí i Smotrí / Idzí i Hljadzí.
Jonathan Glazer, eliminando i PdV diretti ed empatizzabili (chi ha letto il romanzo di Martin Amis può “giocare” a immaginarseli - cercarli e ritrovarli - l’uno nelle truppe in adunata e l’altro nei gruppi in marcia forzata) di Angelus “Golo” Thomsen (la rotellina) e il sonderkommandofuhrer Szmul Zacharias (il corvo del crematorio, la cui figura, insostenibilmente tragica in assoluto, risulta in generale letteralmente e in particolare cinematograficamente "irrappresentabile", se non per l'appunto leggendone e "quindi" filtrandola attraverso il proprio processo di interpretazione, ricostruzione ed immaginazione), crea il vuoto: tocca allo spettatore riempirlo col materiale più bello e terribile: un po’ di sé. Ciò che ne sgorgherà (con radici ben piantate nel passato: "Das Weiße Band - Eine Deutsche KinderGeschichte") è il futuro.

 

La Grande Bouffe.
Una vertebra lombare sul fondo della Sola/Vistola.


(Cinema.)
- Che cos’ha fatto?
- Litigava per una mela, Comandante.
- Annegatelo nel fiume.

 

(Letteratura.)

- Stavo pensando... C'è qualcosa che non gli facciamo? Non li stupriamo, immagino.
- Piú o meno. In compenso facciamo qualcosa di molto più brutto. Dovresti imparare a portare un po' di rispetto ai tuoi nuovi colleghi, Golo. Qualcosa di molto, molto piú brutto. Prendiamo le belle donne e ci facciamo degli esperimenti medici. Sugli organi riproduttivi. Le trasformiamo in un branco di vecchine. Poi la fame le trasforma in un branco di vecchietti.
Ho detto: - Sei d'accordo che non potremmo trattarli peggio?
- Oh, andiamo. Non li mangiamo mica.
Ci ho pensato un momento. - Sí, ma loro non avrebbero niente in contrario. Salvo se li mangiassimo vivi.
- No, quello che facciamo è spingerli a mangiarsi tra loro. Su questo sí che hanno qualcosa in contrario... Golo, chi, in Germania, non pensava che gli ebrei andassero rimessi a posto? Però, cazzo, questo è ridicolo.


Schindler's List / Saul Fia / FairyTale.
Gli umanoidi (semi/para-cannibali) di “Under the Skin” - che già era, a suo modo, un’opera su di un (altro) olocausto in farsi: l'occhio-incipit di quel film è lo spioncino-excipit di questo, in cui la posttenebrasluxiforme lallazione ha lasciato il posto a un emetico...

 

[nonostante l'etimo (conatus: azione diretta a conseguire un obiettivo difficile, il cui esito non è scontato), qui applicato al vomito, il rapporto di causa-effetto operato dal montaggio tra la breccia apertasi verso il futuro e l'attacco di rigetto gastrico a stomaco vuoto pare troppo diretto ed esplicito: resta un finale ovviamente ambiguo e multinterpretabile (escludendo a priori ogni riferimento a "barlumi di coscienza", quando persino l'opzione "burnout" derivata dal lavoro a cottimo lo umanizzerebbe troppo), ma il fatto che abbia scorto sé stesso penzolare dal proprio patibolo mi pare, ecco, "preferibile"]

 

...silenzio - hanno vinto e dominano il mondo facendone macello. A combatterli, oltre agli Alleati, anche, tra gli altri, Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una moderna Gretel grimmiana, sineddoche partigiana di una possibile salvezza in caso di Giorno del Giudizio Universale, che trova un foglio di carta piegato e ripiegato varie volte a fisarmonica sino a renderlo stretto, sottile e "invisibile": è un componimento poetico accompagnato da uno spartito musicale fuoriuscito dal Lager.

 

Ma è poi la medesima ragazzina quella che lo suona al pianoforte? Logica e "buon senso comune" voglion far creder di sì (il forzato campo medio non aiuta a decifrarne l'identità), ma le due abitazioni paiono un bel po' diverse dalla notte al giorno... Il dubbio promana e permane. Certo è che il frammento è giunto sino a noi, assieme al suo autore, Joseph Wulf [la cui voce reale è, forse per (troppo?) pudore herzoghiano (Grizzly Man, the White Diamond), traslata a scritte sovrimpresse sullo schermo], soppravvissuto al campo di concentramento e sterminio, ma, come tanti altri temporaneamente "salvati", non al "postumo" suicidio, all’essere "sommerso" comunque: “Raggi di Sole” - Oswiecim, Auschwitz III (Monowitz), 1943: https://collections.ushmm.org/search/catalog/irn671467.

 

(Letteratura.)

È il fuoco, capite, è il fuoco.
Come farli bruciare, i corpi nudi, come fare in modo che prendano?
Abbiamo cominciato con cumuli assai modesti, servendoci di assi di legno, senza concludere granché, ma poi Szmul... Sapete, ora capisco perché il Sonderkommandofuhrer ha una vita fortunata. È stato lui a dare una serie di suggerimenti che di fatto si sono rivelati determinanti. Li metto per iscritto, per futura consultazione.
1) Il rogo dev'essere uno solo.
2) Il rogo deve ardere ininterrottamente, per 24 ore.
3) Il grasso umano liquefatto dev'essere usato per favorire la combustione. Szmul ha organizzato i canali di deflusso e le squadre di aggottamento, il che oltretutto si è tradotto in una notevole economia di benzina. (Promemoria: notificare questo risparmio a Blobel e Benzler).
A questo punto c'è un'unica difficoltà tecnica cui periodicamente occorre far fronte. Il fuoco è talmente caldo che non ti puoi avvicinare, nicht?
Ora, ditemi voi, questo è davvero esilarante, questo, questo davvero «vince la palma». Tutt'a un tratto il telefono si fa rovente: Lothar Fey della Difesa Aerea, che protesta furioso, pensate un po', contro le nostre conflagrazioni notturne! C'è da stupirsi se vado fuori di testa?

[...]

Quanto al miglior modo di contarli, il Sonderkommando-fuhrer aveva ragione. Non i teschi. Pressoché tutti i pezzi sono stati liquidati con il consueto Genickschuss, ma spesso in modo maldestro o frettoloso, per cui il colpo gli ha frantumato il cranio. I teschi sono quindi inaffidabili. La procedura piú scientifica, abbiamo accertato, è quella di contare i femori e dividere per 2. Nicht?

 

• Ipercampo. (Chissà.)

 

«È vero che Kraus scrisse: “A proposito di Hitler non mi viene in mente nulla”. Ma era la prima riga di un libro su Hitler e i nazisti.» - Jonathan Franzen, “the Kraus Project”, 2013.

Shoah/Austerlitz.
Rimane il rumore bianco degli aspirapolvere del tempo (W.G. Sebald & Sergei Loznitsa). E poi verrà la Pace di Presburgo, la Conferenza di Jalta e il Piano Marshall. O invece, chissà, un altro gran bel Trattato di Versailles. E forse un po’ di vernice s/di-lavabile lanciata a monito climatico-ambientale contro le vetrine delle teche a protezione del mucchio di cascami, lacerti e rigaglie depredate, raccolte e conservate da qualche futuro in attesa, chissà.

Nuit et Brouillard / Pasazerka.
Sono solo grato che ad un certo punto sia finito.
Ma chissà che un giorno (non) possa rivederlo accadere/capitare/succedere ancora una volta, di riflesso, proiettato nuovamente nel reale, chissà.

 

E che infine - al di qua dello schermo, fuori dalle sale, per le strade e al di là dei mur(etti)i con le tegoline che ci riparano dall'Oltre - scenda l'oblio (non) possa costituire un'opzione valida per la Soluzione Finale al problema costitutivo della & costituito dalla specie umana...

 

 

Campo. La ragazzina col vestito infrarosso che scava nel mucchio dell'umano concime per nascondervi calorie. Controcampo. L'utile idiota in giardino ad isolare le cuscute migliori. Fuoricampo. Szmul Zacharias, che ascolta gorgogliare il ribollente Prato di Primavera. Ipercampo. Gli umanoidi di “Under the Skin” hanno vinto e dominano il mondo facendone macello.
  

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Killers of the Flower Moon

  • Drammatico
  • USA
  • durata 206'

Titolo originale Killers of the Flower Moon

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Jesse Plemons, Pat Healy, Tantoo Cardinal

Killers of the Flower Moon

In streaming su Amazon Prime Video

vedi tutti

 

“Can you find the wolves in this picture?”

 

In tempi nei quali chi non ha alcunché da dire sbraita uggiolando che le narrazioni letterarie, cinematografiche, musicali, pittoriche, fotografiche, scultoree postmoderno-massimaliste sono in crisi quando in realtà lo stato dell’arte è costituito, ad esempio, da scrittori di science-fiction che diventano mainstream, e viceversa, Martin Scorsese, nella forma, tra Robert Altman (“A Prairie Home Companion”) e, casualità dello zeitgeist, Wes Anderson (“Asteroid City”), e, nella sostanza, tra Kevin Costner (“Dances with Wolves”), Steven Spielberg (“Schindler's List”, “Saving Private Ryan”), Clint Eastwood (“Unforgiven”, “Letters from Iwo Jima”, “J. Edgar”), Terrence Malick (“the New World”), Paul Thomas Anderson (“There Will Be Blood”) e Taylor Sheridan (“YellowStone”, “1883”, “1923”), gira – scrivendo il copione con Eric Roth (“the Onion Field”, “Forrest Gump”, “the Postman”, “the Horse Whisperer”, “the Insider”, “Ali”, “Munich”, “the Good Sheperd”, “the Curious Case of Benjamin Button”, “Luck” e il prossimo “Here” sempre di Zemeckis da McGuire) - o con lo stesso PTA? - basandosi sulla quasi omonima non-fiction novel di David Grann (“the Lost City of Z”, “the Old Man & the Gun”) del 2017, “Killers of the Flower Moon: the Osage Murders and the Birth of the FBI” – il suo metamediale “Tristram Shandy”, “Mobi Dick”, “les Rougon-Macquart”, “la Cognizione del Dolore”, “Gravity’s Rainbow”, “Horcynus Orca”, “Suttree”, “the Counterlife”, “Seven Dreams”, “Underworld”, “Infinite Jest”, “Plowing the Dark” e lo stesso “Here”, anticipando contro-storicamente di un quarto di secolo (in quel periodo Edith Wharton, anche lei reduce dalla Prima, Grande, Guerra Mondiale, vista dal fronte francese, scrive e pubblica d’altre tribù, newyorkesi, attraverso “the Age of Innocence”, che Scorsese metterà in scena, a seconda del PdV, più di 70 anni dopo rispetto al romanzo, ambientato mezzo secolo prima del sistematico massacro degli Osage diluito nel tempo camuffandolo da cronaca nera, o giusto 30 anni fa, rispetto all’oggi di “Killers of the Flower Moon”) l’uso anacronistico (mentre “ebreo” è sempre un insulto sulla cresta dell’onda e le amerinde Gray Horse War Mothers sfilano forzatamente col Ku Klux Klan in una non-ancora-selvaggia parata di veterani: ma il sangue del massacro, le macerie della distruzione e le braci degl’incendi di Tulsa del 1921 erano roba fresca) del termine genocidio (coniato da Raphael Lemkin nel 1944 per colmare un vuoto descritto da Winston Churchill nel 1941 quale “un crimine senza nome”) per raccontare di un’ulteriore sopraffazione perpetrata dai vincitori contro gli sconfitti (il massacro di Wounded Knee, pietra tombale delle American Indian & Frontier Wars, durate 300 anni, fu commesso trent’anni prima, nel 1890, allorché la Nazione Osage iniziò a trasferirsi, a causa della pressione colonizzatrice dei caucasici e degli incessanti scontri a fuoco derivati - iperbolicamente: il futuro non esiste, è solo la Storia che si ripete -, dai territori del MidWest di Missouri, Arkansas e Kansas in quelli del confinante West South Central, in Oklahoma - la canna della pistola che disegnano i confini di quello stato è una striscia neutrale -, a partire dal 1870) che la subiscono come diretta conseguenza dell’aver ricevuto dal Big Country una riparazione palliativa che si rivelerà essere una non preventivata e difficile da gestire in assenza di un distaccamento non corrotto del potere central-federale idrocarburica manna dal sottosuolo che per contropartita attirerà subumani mafiosi.

 

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Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che ogni cosa realmente costa all’uomo che vuole procurarsela, è la fatica e l’incomodo di ottenerla.
Adam Smith – “la Ricchezza delle Nazioni” – 1776

Il risultato di tutte le nostre invenzioni e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono investite di vita spirituale e l’esistenza umana viene istupidita e degradata a forza materiale.
Karl Marx - “Discorso per l’Anniversario di «The People’s Paper»” - 1856

Il sogno e l’azione non sono così diversi come molti pensano. Tutte le azioni degli uomini sono sogni all’inizio. E alla fine le loro azioni si dissolvono nei sogni.
Theodor Herzl – “Vecchia Terra Nuova” – 1902

(A proposito di Corsa all’Oro - giallo, nero, bianco, rosso, verde, blu che sia -, le citazioni sopra riportate sono ricavate dall’esergo di “Salt - A World History” di Mark Kurlansky del 2002, edito in Italia da Nutrimenti nel 2023.)

 

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Leonardo DiCaprio (Ernest Burkhart) corre il rischio, camminando sul filo di un crinale purgatoriale che divide il gigioneggiare dal macchiettsmo, di scindersi e rotolare giù da entrambe le parti, ma ne esce vincitore danzando perennemente in bilico, con la grazia naturalmente ricercata di un James Dean (“Giant”) e con quella più selvaggiamente impostata di un Marlon Brando (da “the Chase” a “the Missouri Breaks”). Rober De Niro (William King Hale), che con Marlon Brando non ci ha lavorato, ma lo ha... interpretato, si diverte un mondo a scudisciarlo con una mazza da cricket, ma soprattutto incarna non tanto la banalità del male, quanto soprattutto la sua facilità (ripetendo in tutte le salse al nipote avido e tonto che gli osage sono predestinati a perdere: il Sogno Americano "distorto" e pretestuosamente veicolato dal, per l'appunto, Destino Manifesto a guisa di - sineddoche per atto violento e criminale - polvere da sparo e compagnia).

 

Lily Gladstone (“Certain Women”, “Buster’s Mal Heart”, “First Cow”, “the Unknown Country”) del film è l’anima (Mollie Kyle), punto. Poi arriva Jesse Plemons (“the Master”, “Breaking Bad”, “Olive Kitteridge”, “Fargo - 2”, “Black Mirror: USS Callister”, “the IrishMan”, “El Camino”, “I'm Thinking of Ending Things”, “Judas and the Black Messiah”, “the Power of the Dog”, “WindFall”), nel ruolo di Thomas Bruce White Sr. (che già fu, parafrasato, di James Stewart in “the FBI Story” di Melvin LeRoy da Don Whitehead), in missione per conto di una mazzetta, pardon, per conto di un mai inq.to J. Edgar Hoover (allora col BoI e poi con l’FBI dedito a combattere il gangsterismo prima di dedicarsi al controspionaggio durante la WW2 e successivamente al KKK, e non ancora sopraffatto dall’invasione comunista, afroamericana ed omosessuale, povero tapino) su mandato del 30° Presidente degli U.S.A., il repubblicano Calvin Coolidge, inq.to di spalle.

 

Una menzione a parte la merita un indimenticabile cameo del country-bluesman Charlie Musselwhite: “Mio genero dice che dovrei tenere la bocca chiusa, o quella banda ucciderà anche me. Ma il mio tempo sta per scadere, quindi voglio dire chi è stato.”

 

(Blooper: fotoritocco: nell'ingrandimento della 2ª foto - l'originale ritrae, da sx a dx, le sorelle Minnie, Anna, Mollie e Reta - la spalla dx di Reta e quella sx di Anna, sedute al fianco di Mollie, vengono espunte dall'immagine: di loro non rimane altro che un'ombra.)

 

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Killers of the Flower Moon” (200 minuti che paiono 20, e 200 milioni di dollari che si vedono tutti, specie nelle minuzie) termina con un mandala (the Last Temptation of Christ → Kundun → Silence) umano.

 

“Non ricorderanno. Non gl’interessa.” - William Hale a Ernest Burkhart a proposito delle persone e delle ingiustizie.

 

Kyrie eleison.

 

Recensione.

 

Bonus track...

 

    

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Fargo

  • Serie TV
  • USA
  • 5 stagioni 51 episodi

Titolo originale Fargo

Con Allison Tolman, Allan, Carrie Coon, Colin Hanks, Ewan McGregor

Tag Poliziesco, Storia corale, Crimini, Storie di vita, USA, Vari

Fargo

In streaming su Amazon Prime Video

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[This is a (True)] Story.

 

2019: gli U.S.A. ai tempi di donaldtrump (pardon: intendevo 2025, certo...).

                       la tigre.
Non la vedi
                       la tigre.

 

Da mangia-peccati gallese plurisecolare (non pre-colombiano come Madoc, ma comunque in sentor di semi-dio gaimaniano) a mangia-biscotti (cereali e gocce di cioccolato) casalingo il passo è “breve” per Ole Munch che - non con un urlo, ma attraverso un’epifania - compie - per mano ferma di Nadine/Dorothy (la cui Yellow Brick Road è macchiata di sangue e zucchero a velo) - l’agnizione di sé, e da Lupus Dei (e “nemesi” di Lorne Malvo e V. M. Varga) salva il Mondo (o, insomma, quel che ancor ne rimane, perché l’universo umano che produce questi sicari, compagni di strada di Anton Chigurh, è quello in cui ci dobbiamo accontentare di vivere, quello in cui una chioccia-tigre consegna un fioco lume - non già d’ideale giustizia, ma - di più accessibile speranza).

 

“Non ti colpiscono quando va tutto a modo loro, ma quando sono deboli e fingono di essere forti; quando si aggrappano a qualcosa di piccolo per sentirsi grandi.”

 

E quel cazzo di fienile sta per crollare, sceriffo. 

 

Recensione alla quinta stagione.

 

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Sulla giostra

  • Commedia
  • Italia
  • durata 105'

Regia di Giorgia Cecere

Con Claudia Gerini, Lucia Sardo, Alessio Vassallo, Paolo Sassanelli, Lucia Zotti

Sulla giostra

In streaming su Rai Play

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...típota rheî...

 

- “Ti posso abbracciare?”
- “E sia, oggi è giornata.”

 

Acqua diversa, stesso fiume. Niente passa, mai.

 

Recensione.

 

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Estranei

  • Fantasy
  • USA, Gran Bretagna
  • durata 105'

Titolo originale All of Us Strangers

Regia di Andrew Haigh

Con Jamie Bell, Paul Mescal, Andrew Scott, Claire Foy, Cameron Ashplant, Guy Robbins

Estranei

 

“God, is not mad?”

 

Una necessaria caterva non pletorica di precisi e ben amalgamati elementi costitutivi è organizzata a guisa di significativa materia collante (adattando il romanzo “Estate con Sconosciuti” che Taichi Yamada, nato nel 1934 e venuto a mancare pochi mesi fa, pubblicò 35 anni fa, a metà anni ottanta, e già trasposto al cinema a ridosso della sua uscita dal Nobuhiko Obayashi di "Hausu") dal regista e sceneggiatore Andrew Haigh (“WeekEnd”, “Looking - la Serie”, “45 Years”, “Looking - il Film”, “Lean on Pete”, “the OA”, “the North Water”) per creare questo piccolo, immenso, tenebroso, lucente, radioso, tragico e struggente gioiellino umanamente prezioso:
      • Quattro meravigliosi attori: Andrew Scott (“Sherlock”, “FleaBag”, “1917”, “Catherine Called Birdy”, “Ripley”), Paul Mescal (“Normal People”, “AfterSun”, “Foe”), Claire Foy (“the Crown”, “Unsane”, “the Girl in the Spider’s Web”, “Women Talking”) e Jamie Bell (“Billy Elliot”, “Undertow”, “Flags of Our Fathers”, “Snowpiercers”, “Nymphomaniac”, “Shining Girls”).

      • L’indefessamente quasi costante luce radente degli omerico-malickiani rosy-fingered sunrise/sunset metropolitani e suburbani catturata e restituita (montaggio di Jonathan Alberts e scenografie di Sarah Finlay) con grazia perturbante da Jamie D. Ramsay (“See How They Run” e sodale di Oliver Hermanus).
      • Lininterrotto e dosato alla perfezione filo conduttore rappresentato dalle musiche - riverberi di corde, archi, fiati e percussioni molto manipolati e non sempre facilmente identificabili - di Emilie Levienaise-Farrouch (già apprezzata in “Censor”) che – in cronosismatica combutta a-temporale coi sintetizzatori di Frankie Goes to Hollywood, Pet Shop Boys e Fine Young Cannibals (più the Housemartins) e un onirico utilizzo di “Death of a Party” dei Blur magnificamente straziante – punteggiano il fluire dei ricordi intrecciati.
      • Il fatto che l’elemento fantasy (“I’m Thinking of Starting Things”, “Adam Is Not Afraid”, “Eternal SunShine of the OverWritten Mind”) s’instauri repentinamente (forse ancor più nettamente che nel romanzo di partenza) e con smaccata franchezza, m’al contempo del tutto naturalmente, nel tessuto della trama in dipanarsi.

 

 

- Non è stato abbastanza, non ci è andato nemmeno vicino con l’essere durato abbastanza.
- Lo so, ma non potrebbe mai farlo, vero?

E che si fotta tutto questo poco tempo a disposizione, che si fotta, davvero.

“Posso abbracciarti adesso?” Ma quand’è adesso? E dove? Qui e ora, e non è ancora irrimediabilmente troppo tardi, forse.

Finale annichilente ed estatico. (E le stelle stanno a guardare.)

 

Recensione.

 

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Sister, What Grows Where Land Is Sick?

  • Drammatico
  • Norvegia
  • durata 80'

Titolo originale Den siste våren

Regia di Franciska Eliassen

Con Ruby Dagnall, Keira LaHart

Sister, What Grows Where Land Is Sick?

 

Farsi carico dei dolori del mondo.

In questo bellissimo lavoro, dolente e vivissimo, il livello di glitter (¡microplastiche!) e porporina per fotogramma supera la soglia massima di sopportazione, ma ciò non toglie che “den Siste Våren” (che letteralmente significa “la Scorsa Primavera”, ma intesa come "Ultima") sia un gran film abitato e mosso da ideali ed istanze eco-femministe veicolate dalle eccellenti prestazioni delle due giovanissime attrici principali e dalla sensibilità della mettitrice in scena.

 

Penso spesso che sto morendo. Ancora più spesso dimentico di essere viva.

 

Recensione.

 

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The Curse

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 10 episodi

Titolo originale The Curse

Con Emma Stone, David Zellner ... (3 episodes

Tag Commedia, Coppia, Sovrannaturale, Storie di vita, USA, Anni duemilaventi

The Curse

In streaming su Paramount Plus

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Inesistenzialismo. 

 

Sgradevoli e respingenti, tutti, dai protagonisti ai comprimari, vuoi perché stupidi e impreparati/inetti/inadatti (alla vita?), vuoi perché egoisti, indifferenti, inani o ammantati d’una folta schiera di sfumature di cattiveria, eccoli: sono i personaggi che muovono le loro traiettorie incrociate/intrecciate lungo il dipanarsi di “the Curse”, una serie che non concede alcuno scampo all’irreale, all’implausibile, all’inconcepibile, almeno sino ad allorquandecco che si tuffa letteralmente nell’Elevation kinghiano, saccheggiandone l’assunto di premesse, sviluppo e soluzione.

 

In estrema sintesi: c’è una coppia eterosessuale d’idioti che fa progettare e costruire (coi soldi “sporchi” dei genitori di lei) ecosostenibili case termopassivamente autonome (la cui principale caratteristica è quella d’essere ricoperte di specchi così da praticamente trasformarle in roccoli per la cattura dell’uccellagione, con passeri e volatili vari che si schiantano quotidianamente sulle vetrate spezzandosi l’osso del collo) in una porzione in via di gentrificazione della valle del Rio Grande in New Mexico, e la cosa meravigliosa è che gli autori attendono il 2° ep. per far sapere agli spettatori che frotte di pennuti si sfracellano su di esse come se non ci fosse un domani: la maggior parte - o così almeno si spera - di essi (degli spettatori, non degli uccelli) già lo sapeva per esperienza e buon senso e così può godere dell’ignoranza di quella parte minoritaria - o così almeno si spera che sia - che dalla rivelazione rimane stupita imparando qualcosa, e poi tutto va, costantemente, progressivamente, indefessamente a rotoli com’è giusto che sia.

 

"Qualche ora o qualche anno di attesa è lo stesso, quando si è perduta l'illusione di essere eterno." — Jean-Paul Sartre, "le Mur", 1939.

 

Recensione.

 

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For All Mankind

  • Serie TV
  • USA
  • 4 stagioni 40 episodi

Titolo originale For All Mankind

Con Ronald D. Moore, Ben Nedivi, Matt Wolpert, Noah Harpster, Sonya Walger

Tag Fantascienza, Storia corale, Esplorazione, Spazio, USA, Anni duemiladieci

For All Mankind

In streaming su Apple TV Plus

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Iridium Interplanetary Rush/Fever: le magnifiche sorti, e progressive, non sono, mai, gratuite.

 

Nel corso di questa 4ª stag. di “For All Mankind” che si svolge (con una consueta postilla/cliffhanger ambientata due lustri più tardi) in un 2003 alternativo appartenente all’unica ed autentica linea spazio-temporale che l’umanità avrebbe dovuto meritarsi, quella di “2001: a Space Odyssey”, e non invece la distopia che stiamo vivendo (voglio dire: “A.I.” e “Napoleon” portano la firma di Steven Spielberg e Ridley Scott e non quella di Stanley Kubrick), quella in cui, più di mezzo secolo dopo l’ultimo allunaggio con equipaggio umano, il ritorno estemporaneo, quindi nemmeno in pianta semi-stabile, sul satellite in rotazione sincrona del terzo da Sol continua ad essere rimandato ad libitum sine die/fine, Marte (comunque ben lontano dall’essere terraformato anche solo nel pensiero) passa – mettendo in scena una delle più accurate rappresentazioni cinematografiche dell’Homo sapiens caelestis/martianus che sino ad ora quasi solo la letteratura Hard-SF aveva saputo creare e descrivere – da House ad Home (ed Happy Valley per un lungo momento fa le veci di Guantanamo Bay), descrivendo ed attuando un cambiamento di paradigma radicale ed epocale.

 

Recensione alla quarta stagione.

 

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A Sibila

  • Drammatico
  • Portogallo
  • durata 79'

Titolo originale A Sibila

Regia di Eduardo Brito

Con Maria João Pinho, Joana Ribeiro, Sandra Faleiro, João Pedro Vaz, Ana Padrao, Diana Sá

A Sibila

 

Preparativi per un commiato, ovvero: "Omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam inmortales concupiscitis." (Come mortali temete tutto, come immortali desiderate tutto.) - Seneca, "Sulla Brevità della Vita", 49 d.C. (dai "Dialoghi", 64 d.C.).

 

A Sibila”, un lavoro complementare e corollario rispetto a “O Gebo e A Sombra”, è la messa in atto di una sistematica eradicazione d’ogni sorta di speranza lungo cui si svolgono i destini di tre generazioni incentrati sul feroce accumulo fine a sé stesso tanto di denaro liquido, frusciante e sonante quanto di proprietà immobiliari e terriere: sterile eredità materiale, “terribile, estenuante lascito d’aspirazione umana” che le giovani generazioni di grado secondario o acquisite (quella di mezzo, diretta, s’è estinta, dispersa o non è, mai, nata) dovranno riuscire a non sperperare né frazionare, valorizzandolo e facendolo rinascere e risorgere riempiendo le mura e i dintorni con qualche cosa che rassomigli alla vita, e intanto gli scuri si serrano sul mondo, in attesa che passino questi tempi nuovi, nati orfani da chi non seppe che fare della propria esistenza.

 

Recensione.

 

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National Theatre Live: Prima Facie

  • Drammatico
  • Gran Bretagna

Titolo originale National Theatre Live: Prima Facie

Regia di Justin Martin

Con Jodie Comer

National Theatre Live: Prima Facie

 

La "prima impressione" del titolo che diventa senso comune e trattato giuridico: il cambio di paradigma verrà vissuto sulla propria pelle.

 

Tessa (una magnifica Jodie Comer, che mette in scena col proprio corpo, per la regìa di Justin Martin, la pièce teatrale di Suzie Miller) è una giovane e brillante avvocato penalista (“A lawyer’s job is not to know. It’s to not know!”) proveniente dalla classe operaia, una purosangue del suo mestiere che si è fatta strada nella vita e nel lavoro per meriti acquisiti sul campo e che ora si trova di fronte a un evento inaspettato (ma non sconosciutole, in teoria: “This is not love!”) che la costringe a muoversi in un territorio in cui il potere patriarcale del diritto e della legge, l’onere della prova e la morale divergono, collidendo e mettendo in discussione l’eticità delle regole del gioco: ritrovandosi dall’altra parte della sbarra di un’aula di tribunale.

 

In somma, da “La difesa non deve dimostrare che lei ha acconsentito. Bisogna solo precisare che lui non sapeva che non esistesse il consenso!” a “Il viso di mamma. Non posso fare a meno di pensare che lei sappia cosa vuol dire essere violata in qualche modo. Non glielo chiederò, mai.”

Uno yogurt, un archivio (allestimento di props - raccoglitori e portadocumenti - luminosi che per sinestesia può ricordare la mente-coscienza di HAL 9000), una voce: si comincia: un palcoscenico, una scenografia, una donna.
Una manciata di cambi d’abito; vomito, sputo, sperma; pioggia che cade, e un corpo ritto ben in piedi.

The Queen vs. “a” Man.
In fondo, si tratta di un’educazione sentimentale alla vita. (Dove gi studenti sono gli spettatori.)
Non un capolavoro da Olimpo teatral-cinematografico, ma un’opera imprescindibile dall’oggi e all’oggi necessaria.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Lawmen - La storia di Bass Reeves

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale Lawmen: Bass Reeves

Con Chad Feehan, David Oyelowo, Dennis Quaid, Bill Dawes, Joaquina Kalukango

Tag Western, Maschile, Esplorazione, Storie di vita, USA, XIX secolo

Lawmen - La storia di Bass Reeves

In streaming su Paramount Plus

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“Quanto può essere cattivo un brav’uomo?”

 

Con gli stivali levati ai morti come trofeo a guisa di moneta (merce & segno) e controvalore al posto degli scalpi viaggia a dorso di Pistol, il suo cavallo bianco, Bass Reeves, portando il nome del nonno e il cognome del padrone attraverso le brulle pianure collinose dell’Arkansas, ai confini del Texas, punteggiate di boschetti lungo il Red e l’Arkansas River, prima in fuga dalla schiavitù e alla ricerca del suo perduto amore (con la parentesi d’un’altra possibilità di reciproco conforto seminole lungo la strada) e poi, dopo il focolare domestico ricostituito e ampliato e dopo il Tredicesimo Emendamento (in perenne non-attesa di una controriforma restauratrice: il vero cliffhanger della serie) e la libertà consegnatagli assieme a una pistola nera e a una stella d’argento, alla caccia di ricercati dalla Legge con gli stivali levati ai morti come trofeo a guisa di moneta (merce & segno) e controvalore al posto degli scalpi viaggia a dorso di Pistol, il suo cavallo bianco, Bass Reeves, portando il nome del nonno e il cognome del padrone attraverso le brulle pianure collinose dell’Arkansas, ai confini col Texas, punteggiate di boschetti lungo il Red e l’Arkansas River…

 

Lawmen: Bass Reeves”, pre/side-quel distaccato dal filone principale dell’universo espanso, attualmente in contrazione, di “Yellowstone” (comprendente, oltre alla serie madre, anche - quell’autentico capolavoro di - 1883, conclusasi, e 1923, attualmente in corso, oltre a “6666”, “1944” e “2024”, per ora in fase di lavorazione), tratto da “Follow the Angels, Follow the Doves” e da “Hell on the Border”, i primi due romanzi della trilogia dedicata da Sydney Thompson alla reale figura storica del primo Deputy U.S. Marshal afroamericano ad ovest del Mississippi, e creato, con la produzione esecutiva di Taylor Sheridan, da Chad Feehan, rispetto alle altre serie del filone YS (il punto di contatto maggiore con la "capostipite" è rappresentato dai... dinosauri) rimane un passo indietro, ma ripaga comunque del tempo speso per assistervi e, pur essendo sulla carta una limited/mini-serie, una seconda stagione – a prescindere dal fatto che questa termina semi-compiutamente sfumando, con una netta cesura a nero in medias res del futuro in farsi nell’aura di luce di un sole basso all’orizzonte che verdeggia d’oro i boschi e i campi d’intorno la casa, in un’atmosfera d’idilliaco sentor d’eternità raggiunta in vita venata dalla disciolta nell’aria presenza di un (im)preciso pericolo sommessamente costante – pare logica oltre che necessaria, e del resto “the Forsaken and the Dead”, il terzo romanzo della trilogia, è giusto lì anche per quello.

 

Neri che inseguendo il Sogno Americano si accodano al Destino Manifesto dei bianchi per rubare la terra ai rossi.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Lezioni di chimica

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale Lessons in Chemistry

Con Brie Larson, Stephanie Koenig, Aja Naomi King, Lewis Pullman, Patrick Walker

Tag Drammatico, Femminile, Lavoro, Formazione, USA, Anni '50

Lezioni di chimica

In streaming su Apple TV Plus

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I chimici fanno chimica. (Uscire all’amore, cedere all’aprile.)

 

Physical” ai tempi di “the Marvelous Mrs. Maisel”.

 

È praticamente impossibile, per chi possegga un minimo d’infarinatura in storia della scienza e dintorni, assistere a “Lessons in Chemistry” senza, vuoi per gli argomenti trattati legati alla biochimica del DNA (e tralasciando la parentesi televisiva del racconto), vuoi per il preciso periodo (mentre il luogo è il South California) in cui la storia si svolge, i primi anni ‘50 del XX secolo (con estremi che vanno dai primi anni ‘30 ai primi anni ‘60), e quindi, giocoforza, con particolare riferimento, per l’occasione, alle questioni socio-politiche di genere sessuale (e, a “corollario”, razziale), non attivare un paio di piccole e precise scosse elettrochimico-sinaptiche fra due coppie di neuroni fatti brillare sfregandoli assieme e quindi pensare alle figure – in consistente parte, né dirimente né preponderante, tragiche – di Rosalind Franklin (Londra e Cambridge) e Martha Chase (dal MidWest alla WestCoast, passando per la East Coast di New York e Washington), e la serietà con cui, sotto ogni aspetto, il progetto viene sviluppato [a parte qualche topos che si potrebbe pure definire trucchetto o colpo basso, se non fossero - oltre che, comunque e ovviamente, già presenti nel romanzo di partenza (nel quale viene esplicitamente citato, tra i nomi di persone realmente esistite, quello del doppio premio Nobel per la chimica Frederick Sanger), e qui tutto sommato non estremizzati troppo - ben eseguiti e non costituissero dei twist cardine], sia dal PdV della scienza dura (abiogenesi, biosintesi, trasmissione dei caratteri ereditari, eccetera) che da quello più “soft” della reazione di Maillard, con, nel mezzo, argomenti quali, tra gli altri, le lotte per i diritti civili, come già evidenziato, di genere sessuale (dagli assorbenti mestruali - Tampax vs. Campbell Soup - alla già menzionata, ed elemento cardine, emancipazione femminile) e, in trama secondaria, ma importante, razziale, rende la mini-serie in questione un esemplare distintivo (di fascia medio-alta) dell’attuale onda lunga della Complex/Peak/Prestige TV (dalle cable allo streaming), appartenente alla Terza Golden Age (post-2000) della serialità statunitense (semplificando all’estremo, la prima prese vita dal brodo primordiale degli albori e fu poi rimescolata e smossa intersecandosi con la spiraliforme doppia catena di basi azotate generata dal Norman Lear di “Sanford and Son” e “the Jeffersons” e la seconda visse brevemente, preparando l’avvento a “the Sopranos”, “Mad Men” e “the Wire”, rifulgendo degli sporadici apogei raggiunti da David Lynch e Matt Groening), potendone quasi costituire, a posteriori, un possibile olotipo/specimen.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Eileen

  • Giallo
  • USA
  • durata 96'

Titolo originale Eileen

Regia di William Oldroyd

Con Anne Hathaway, Thomasin McKenzie, Jefferson White, Shea Whigham, Marin Ireland

Eileen

In streaming su Amazon Video

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Feu Froid.

 

"Eileen" è un film compatto (opprimente) e al contempo permeabile (empatico) che, confermando, senza incrementarne la resa, le talentuose capacità del regista espresse nell’opera precedente, "Lady Macbeth", raduna in un fagotto la speranza residua (i cascami, i lacerti e le rigaglie - e un mucchio straccio di verdoni messi da parte in un lustro fantasma - di scarto dall’implosione dell’irreparabile compiuto) e si spinge per inerzia verso il futuro (che del resto comunque arriva lo stesso, e allora tanto vale andargl’incontro) lasciandosi trascinare dalla corrente di una highway.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Il mondo dietro di te

  • Drammatico
  • USA

Titolo originale Leave the World Behind

Regia di Sam Esmail

Con Ethan Hawke, Julia Roberts, Kevin Bacon, Mahershala Ali, Myha'la Herrold

Il mondo dietro di te

In streaming su Netflix

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The Plot Against America. (Kaputt Hill.)

 

“Io me compravo i CD senza averci il lettore CD, e che ci facevo? Potevo compra’ le musicassette, però io volevo sentirla bene la musica.” - Antonio Rezza, da “Tintoria #186”.

 

No, Sam Esmail (esordiente scrivendo e dirigendo “Comet”, creatore/demiurgo di “Mr. Robot”, regista della 1ª stag. di “HomeComing” e co-produttore esecutivo di “Gaslit”, “Angelyne” e “the Resort”), non puoi iniziare un film facendo pronunciare, e pure male, a Julia Roberts, rivolgentesi a Ethan Hawke (moglie e marito nella finzione), l’imbarazzante frase “Questo è stato un anno infernale per noi, come ben sai”: ma come “come ben sai”? Ma chi cazz’è che parla così nella vita reale? Esatto: un inutile, sesquipedalico cacacazzo. In questo caso, collateralmente, una misantropa, ma non del tutto nichilista. E da questo PdV la scena è giusta. Però, dicevo: non puoi, a prescindere, non puoi iniziare un film a questo modo. A meno che… a meno che… Di nuovo, esatto: a meno che tu non cambi immediatamente registro in chiusura di scena con un bel twist, non caratteriale, ma di tono e senso della scena stessa, facendo dimenticare allo spettatore quel “glitch” che disinnesca la sospensione dell’incredulità, e ci metti una postilla in sottotono e a contraltare quale “I fucking hate people”, accompagnata da “the Rev3nge” di Joey Bada$$ su questo bel cartello qua.

 

Leave the World Behind”, commissionato da Netflix, dopo aver acquisito i diritti dell’omonimo romanzo di Rumaan Alam (“Rich and Pretty”, “That Kind of Mother”) del 2020, a Sam Esmail, che lo ha sceneggiato e co-prodotto con la stessa Julia Roberts e per l’appunto con, esecutivamente, i succitati Barak & Michelle Obama, è una soft-apocalypse che principia quindi nel solco del cinema mainstream-militante di Jordan Peele (“Us”, “Nope”) per poi innestarsi e prosperare sulla falsariga di quello di Night M. Shyamalan (“Signs”, “the Happening”, “Knock at the Cabin”), con elmintiche venature middle-upper class da Bong Joon-ho (“Parasite”), senza scomodare il Michael Haneke di "Funny Games" e "WolfZeit": quel che non solo lo salva dall’esser “meramente” buono, ma lo premia pure aggiungendovi un bel “molto”, è la scorrevolezza, il ritmo, l’incedere dettato da qualche acuta idea tanto di script quanto di regìa: dopo i summenzionati titoli di testa, da segnalare il naufragante arenarsi della – spoiler – petroliera spiaggiata, la nube rossa di – spoiler – volantini di contro-contro-disinformazione in stile “North by Northwest” + “Red Dawn” e lo schiantarsi sul litorale dell’ – spoiler – aereo di linea, la MdP che s’ostina ad attraversare i vetri (presumibilmente ricostruiti in CGI) delle finestre delle abitazioni e dei finestrini delle auto (e la memoria ritorna a quella celeberrima e proverbiale scena in “Children of Men”) per poi alla fine passare... per un buco.

 

Certo, la sceneggiatura (e probabilmente nel romanzo tutto ciò funziona meglio, chissà), per sviare l’appetito precognitore dello spettatore, apre troppe pretestuose strade, che a volte, spesso, rimangono senza uscita (mentre vari belvederi su Manhattan - o su Firenze - dalla provincia boscosa rimangono inutilizzati dai personaggi - voluta o meno dal copione la manifestazione della totale incapacità di comprenderne la possibilità dell’esistenza - per capire cos’è che sta accadendo oltre-Hudson e Long/Block Island Sound) lasciando domande inevase lungo il percorso, ma soprattutto, in fondo, il film, tra fenicotteri herzog-sorrentiniani e simpsoniani cerbiatti mannari, non è altro che un – post assalto al Congresso U.S.A. nel Campidoglio di Capitol Hill, Washington, D.C. – “documentario d’anticipazione” su quel che potrebbe accadere più o meno tre anni dopo quell’evento, ovvero all’incirca fra un anno da oggi… (Rimanendo in attesa del "Civil War" di Alex Garland.)

 

Peccato in fine che la scena finale – e premesso che se mi ritrovassi nelle medesime condizioni con la collezione completa di “Buffy” e poco altro a disposizione dal PdV cinematografico potrei dare veramente di matto e iniziare a parteggiare per l’olocausto atomico, e sottolineando l’ovvia considerazione che l’improvvida coincidenza con la dolorosa dipartita di Matthew Perry è questione a parte e da non considerare in ambito critico – sia condizionata come facilmente intuibile, telefonata e chiamata da lontano, ma detto ciò riesce comunque a risultare ricca di empatia.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The End We Start From

  • Drammatico
  • Gran Bretagna
  • durata 96'

Titolo originale The End We Start From

Regia di Mahalia Belo

Con Jodie Comer, Katherine Waterston, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Gina McKee

The End We Start From

 

“It could be a disaster.”

 

Vien giù che Dio la manda tutta d’un botto, dopo che da tempo immemore manco una goccia, tanto che persino gl’indispensabili lombrichi muoiono asfissiati annegando lentamente...

 

Con questo "The End We Start From", un lavoro a suo modo solar-punk, se pur abbastanza cupo, Mahalia Belo esordisce alla regìa sulla lunga distanza cinematografica mettendo in scena l’adattamento dell’omonimo romanzo di debutto di un lustro prima di Megan Hunter (“the Harpy”) ad opera di Alice Birch (“Lady Macbeth”, “the Wonder”, “Dead Ringers”) senza particolari guizzi, ma con una classicità particolarmente apprezzabile che non scade nell’inutilmente innocuo.

 

Il neonato, adagiato s’una copertina posta sull’erba alta d’una radura di fronte all’Arca, una casetta di legno immersa nel bosco, emette un gorgoglio velare.
I neuroni specchio agiscono d’impulso: i genitori si sorridono a vicenda.
Ma la madre (la Jodie Comer di “Killing Eve”, “the Last Duel”, “Talking Heads: Her Big Chance”, Help, “Prima Facie”, “the BikeRiders” e la prossima “Big Swiss”, accompagnata da, tra gli altri picareschi compagni d'avventura, una magnifica Katherine Waterston) è una cittadina (nel primario senso letterale del termine, con l’accezione rivolta alla metropoli e non allo stato-nazione), e se varie House sono sparse tra la Britannia e la Caledonia, è solo là, tra le acque oleosamente marce di Londra, la sua Home.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Si salvi chi può!

  • Commedia
  • USA
  • durata 93'

Titolo originale Save Yourselves!

Regia di Alex Huston Fischer, Eleanor Wilson

Con Sunita Mani, John Reynolds, Amy Sedaris, John Early, Ben Sinclair, Jo Firestone

Si salvi chi può!

In streaming su Amazon Video

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Un'incruenta trappola per conigli. 

 

Certo, i protagonisti middle-class dell’agrodolce commedia romantica di fantascienza “Save Yourselves!” [un astemio contraltare - dipende ovviamente da quale PdV si adotta, se quello umano o quello alieno - all’etilico “Grabbers” (Jon Wright & Kevin Lehane, 2012) e un tribol-pouffoso omaggio a “the Trouble with Tribbles”, il mitopoietico 15° ep. della 2ª stag. (1967-‘68) di “Star Trek: tOS”, mentre “Significant Other” (Dan Berk & Robert Olsen, 2022) può essere considerato una sua successiva versione horror-drammatica], questo carinissimo film d’esordio (in attesa del prossimo e forse ancor più strambo “Wicker”) del 2020 – aperto da Andromeda di Wyes Blood (Natalie Mering) e chiuso da Chinatown di Wild Nothing (Jack Tatum), con in mezzo "Tropic of Cancer" di Panda Bear (Noah Benjamin Lennox degli Animal Collective) – per la coppia artistica (e sentimentale) di sceneggiatori e registi composta da Alex Huston Fischer ed Eleanor Wilson, sono stupidi e inadeguati proprio come quelli di “Gæsterne” (letteralmente “Ospiti”, conosciuto con l’anglofono titolo internazionale di “Speak No Evil”; Christian Tafdrup, 2022) e di “the Curse” (Nathan Fielder & Benny Safdie, 2023-‘24), ma per lo meno sono consapevoli di esserlo e quindi risultano in larga parte simpaticadorabili [specialmente Sunita Mani (“Mr. Robot”, “GLOW”, “Servant 3”), ma pure John Reynolds (“Stranger Things 1”, “Horse Girl”, “YellowJackets 2”), via] e soprattutto, anche alla luce di ciò, ma non solo, è un lavoro che dialoga a distanza (ravvicinata) col coevo cinema, semplificandolo un po’, dell’Andy Siara di, in particolar modo, “Palm Springs” (Max Barbakow, 2020) ed anche di “the Resort” (Ben Sinclair - che qui, da trait d’union, è presente in un cameo -, Rania Attieh & Daniel Garcia e Ariel Kleiman, 2022).

 

E poi sì, tornando a Star Trek & C., “Save Yourselves!” non è altro che il post-preambolo a “People Are Alike All Over”, il 25° ep. della 1ª stag. (1959-‘60) di “the Twilight Zone” e, ancora, a “the Cage”, il pilot (1965) di “Star Trek: tOS”, che sarà poi quasi interamente fagocitato, con una minima e sostanziale variazione sul finale, per la realizzazione “post-preventivamente aggiustatrice” di un doppio ep., l’11°/12°, “the Menagerie”, della 1ª stag. (1966-‘67), senza scordare i diversi omaggi effettuati da “the Simpsons” e “Futurama”: una trappola incruenta per conigli.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Bottoms

  • Commedia
  • USA

Titolo originale Bottoms

Regia di Emma Seligman

Con Ruby Cruz, Dagmara Dominczyk, Kaia Gerber, Ayo Edebiri, Nicholas Galitzine

Bottoms

In streaming su Timvision

 

"The Holocaust. It happened."

 

Bottoms” (le “passive”, qui lesbiche incel), la stringata e veloce opera seconda, dopo l’esordio (corto e lungo) con “Shiva Baby” (2020), di Emma Seligman (1995), che qui si fa aiutare in sede di sceneggiatura dalla sua co-protagonista Rachel Sennott (1995; Tahara, Bodies Bodies Bodies, the Idol, I Used to Be Funny, Finalmente l’Alba), che di quel film precedente già era la one-woman-show, mentre l’altra, Ayo Edebiri (1995; How It Ends, Big Mouth, Dickinson, the Bear, Abbott Elementary, Mulligan, Clone High, Black Mirror: Joan is Awful), ci mette del suo portando in dote on-set il proprio di corredo da stand-up (da segnalare poi ch’entrambe già collaborarono insieme per la web-serie “Ayo and Rachel Are Single”, titolo che in sé letteralmente potrebbe andare a costituire un perfetto flano per “Bottoms”), rispetta alla perfezione il canone dell’adolescere-movie (più o meno, a seconda del periodo, scollacciato, e in questo caso il prefisso “non-” è d’obbligo e procede alla formazione di una litote per “pudico”), ma innestandolo s’un contesto ambientale satiro-grottesco, socio-distopico e fanta-demenziale che progressivamente prende il sopravvento rendendolo allegorico attraverso un’auto-metaforizzazione continuata ed estenuata sino allo spasimo tanto che da questo PdV lavori quali “SuperBad” (Mottola/Rogen/Goldberg, 2007) – e pure qualsiasi “Pierino”, “Porky’s”, “Revenge of the Nerds” o financo “Do Revenge” – e i più affini e dialoganti oltre che coevi tra loro “BookSmart” (Olivia Wilde, 2019) e “Plan B” (Natalie Morales, 2021) – che a sua volta è la versione comedy (sic!) di “Never Rarely Sometimes Always”, così come “Bottoms” potrebbe essere definito la risoluzione di “Bowling for Columbine” ed “Elephant” con una (anzi, spoiler, due) gag – al confronto risultano quasi (al netto del fatto che tanto Sennott/Edebiri quanto Dever/Feldstein e Moroles/Verma, parimenti per necessità e per semplicità, interpretano delle 17/18enni essendo mediamente più vicine ai 30 che ai 20 se non ai 25) iperrealistici.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Paesaggio con mano invisibile

  • Fantascienza
  • USA
  • durata 94'

Titolo originale Landscape with Invisible Hand

Regia di Cory Finley

Con Kylie Rogers, Tiffany Haddish, Michael Gandolfini, William Jackson Harper, Josh Hamilton

Paesaggio con mano invisibile

 

Invasione morbida: acrilico su mattone (lavoro in corso).

 

Il profluvio di metaforizzazione (la Storia la ri/sovra-scrivono i colonizzatori/vincitori) è palesemente esibito, ma ben strutturato, e colpisce con il giusto stile senza sbagliare tono (il gusto per la buona SF si sente tutto) e così "Landscape with Invisible Hand", il terzo film di Cory Finley, da lui scritto (traendolo dall’omonimo romanzo d’un lustro prima di M. T. Anderson che non ho letto, ma si percepisce chiaramente come e quanto l’adattamento sia stato rispettoso e capace di restituirne caratterizzazione, atmosfera, impianto ed essenza) e diretto come per l’esordio di “ThoroughBreds”, mentre per “Bad Education” s’era limitato alla messa in scena, segna un deciso passo in avanti nella carriera del regista, convincendo del fatto che una certa crescita artistica, essendo lui ancora “relativamente giovane”, ovvero poco più che trentenne, sia avvenuta.

 

"Landscape with Invisible Hand", inserendosi nell’ormai non minuscolo sotto-filone del post-"Parasite", ci parla di un’invasione morbida, a mezza via tra la schiavizzazione non genocidiaria e la temperatura di ebollizione delle rane: acrilico su mattone (lavoro in corso). 

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Saltburn

  • Thriller
  • USA
  • durata 127'

Titolo originale Saltburn

Regia di Emerald Fennell

Con Barry Keoghan, Carey Mulligan, Rosamund Pike, Jacob Elordi, Richard E. Grant

Saltburn

In streaming su Amazon Prime Video

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Sapore di Sale.

 

Un film (scritto da Guadagnino e diretto da Ozon/Trier), quest’opera seconda di Emerald Fennell (“Killing Eve 2”, “Promising Young Woman”), che non “sembra un romanzo di Evelyn Waugh”, consapevolmente ri/stra-colmo di omaggi, citazioni, rimandi, riferimenti, derivazioni ed interlacciamenti nascosti...


– “the Go-Between”, ribaltato; “Teorema”, inconsapevole; “A ClockWork Orange”, stilisticamente formale; “Barry Lyndon”, naturalmente sostanziale; “the Shining”, ingombrante; Percy Bysshe Shelley e Georg Friedrich Händel, scopertamente impalpabili (il subliminale doppelgänger di Felix che a un terzo di film passa attraversando da sx a dx lo specchio della finestra che dà sul giardino alle spalle di Venetia e “Oliver Quick (and Nathan the Prophet anointed Solomon King)” al posto di “Zadok the Priest” prima del “God Save the King, Long Live the King” tra un “Amen” e un “Hallelujah” durante il titoli di testa) –


...in bella evidenza, ma forse involontariamente risaputo (e meccanicamente improbabile), e che alla fine - sembrando sempre sul punto di rivelarsi quale un revenge-movie (cosa che alla fine forse è, ma dal PdV stiracchiato della classe media piccolo-borghese), ma fermandosi sul podio dell’emancipazione subdolamente rapace - convince senza esaltare.


La storia, e chi la visse. 2006, Inghilterra indie-slaze fashion-style. Oliver Quick, Teseo & Minotauro (il Barry Keoghan di “the Killing of a Sacred Deer”, “Dunkirk”, “the Green Knight”, “the Banshees of Inisherin”, “Masters of the Air”), nella terra dei Catton/Minosse, quel che resta della talassocrazia dell’Impero Britannico (RosamundPike, Richard E. Grant, Jacob Elordi, Alison Oliver, Carey Mulligan, Archie Madekwe), rigovernata dal maggiordomo interpretato da Paul Rhys (fresco Talleyrand nel “Napoleon” di Ridley Scott).


Fotografia (35mm in 1.37:1) di Linus Sandgren (Promised Land, American Hustle, Joy, La La Land, First Man, No Time to Die, Don’t Look Up, Babylon), montaggio di Victoria Boydell (“Southcliffe”) e musiche di Anthony Willis (“Promising Young Woman”). Producono Amazon (attraverso MGM), che distribuisce in tutto il Resto del Mondo al di fuori del Regno (all’interno del quale agisce Warner), assieme alla LuckyChap di Margot Robbie & C., alla stessa Emerald Fennell e ad altri.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

True Detective

  • Serie TV
  • USA
  • 4 stagioni 35 episodi

Titolo originale True Detective

Con Nic Pizzolatto, Matthew McConaughey, Colin Farrell, Woody Harrelson, Rachel McAdams

Tag Giallo, Storia corale, Serial killer, Crimini, USA, Vari

True Detective

In streaming su Now TV

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Un gran bel buco nel ghiaccio.

 

Tanto comfortzonevole & user-friendly quanto sperevolmente (citofonare Nic Pizzolatto) fanservizievole, la 4ª stag. di “True Detective”, interamente scritta (con lo sporadico apporto di altre 5 firme su 3 dei 6 ep. da circa 55’/65’ in media che la compongono) e diretta da Issa López (“Vuelven - Tigers Are Not Afraid”) e con una protagonista principale del calibro di Jodie Foster, sin dal sottotitolo aggiunto all’uopo, “Night Country”, che rimarca formalmente l’allontanamento consensuale del succitato creatore sancendone la temporanea scomparsa in fase di sviluppo e stesura dei copioni, si scosta dalle tre precedenti annate (al netto dei rimandi “tecnici” e anagrafici con la primigenia ancor chambers-ligottiana) personalmente curate, showrunnerizzate e quasi interamente sceneggiate in solitaria dal suddetto futuro autore di “Easy’s Waltz”, qui relegato di comune accordo a produttore esecutivo (e critico cinematografico deluso via social network instagram-twittante) assieme a Woody Harrelson, Matthew McConaughey, Cary Joji Fukunaga, Barry Jenkins e le stesse Issa López e Jodie Foster (qualsiasi cosa possa significare “executive producer” senza specificarne meglio le varie gradazioni e competenze, tipo i Presidenti della Repubblica Italiana che per Costituzione firmano la Qualunque), soprattutto per via del fatto che, paradossalmente, si limita a mettere in scena il titolo della serie, senza voler/saper/poter spingere un po’ più in là le ambizioni narrative come sempre ha fatto (a conti fatti comunque non proprio invano) la trilogia trascorsa, riuscendo almeno, però, nell’intento di chiudere a modo l’indagine grazie a una risoluzione investigativa che completa il cerchio oggettivamente senza sbavature di senso, pur se la strada per arrivarci è costellata da derive fantasy semplicistiche quando non di mera belluria e di possibilità fantascientifiche mai sfruttate a dovere e anzi proprio solamente accennate o declinate (il femminismo ecologista che “vince” contro la scienza dura e pura anch’essa manovrata e sfruttata, come gli inuit iñupiat e il loro territorio, dal dio denaro) a mcguffin (insomma si resta ben lontani da lavori quali - tralasciando il più letterale e guiltypleasurevole "30 Days of Night" - le seminali versioni di “the Thing” e il recente “the Terror”, e si preferisce un approccio più soft, da questo PdV, comunque passando parimenti a indebita distanza da “il Sesto Senso della signorina Smilla per la Neve”, mastodontico capolavoro del suo tempo, e forse anche oltre, di Peter Hoeg).

 
Kali Reis ("Catch the Fair One"), campionessa mondiale di boxe nei pesi medi e nei pesi welter leggeri che attraverso le stesse piattaforme ha risposto per le rime a Nic Pizzolatto: ma non mi chiedete di scegliere - intanto rotolano i rotolacampo - ché per me sono simpaticerrimi entrambi, è un’ottima co-protagonista, mentre un magnifico John Hawkes ("Me and You and Everyone We Know", "Winter's Bone", "Martha Marcy May Marlene", "DeadWood", "the Driftless Area") riesce a mettere in scena (oltre a una splendida "No Use") un personaggio che rimbalza costantemente tra le creste del ripugnante e del patetico (anche se alla fine il suo INRI sarà il picconare la crosta ghiacciata cercando di anticipare la corrente per poter ripescare il figlioletto) e come sempre Fiona Shaw (“the Black Dahlia”, “the Tree of Life”, “Killing Eve”, “Ammonite”) è garanzia di qualità.

 

Fotografia di Florian Hoffmeister (“the Deep Blue Sea”, “A Quiet Passion”, “the Terror”, “Pachinko”, “TÁR”) e musiche di Vince Pope (“Misfits”) e Tanya Tagaq, mentre l’Alaska interpreta sé stessa aiutata dall’Islanda. 

 

“Siamo soli, e anche Dio”, è l’ammonimento, mentre - in zona Frittole, quasi mill’e cinque - “Everybody dies / Surprise, surprise!” ci ricorda il memento mori di Billie Eilish e “Twist and Shout” gira in loop torturale intervallata da the Bones of J.R. Jones ("Sing Sing"), Chris Avantgarde & Red Rosamond ("Inside"), Florence + the Machine ("Seven Devils") e Moby ("This Wild Darkness").

 

 
Detto ciò, rimaniamo in attesa dell’idea “really, really wild” che Nic Pizzolatto aveva in mente pre-CoViD per “True Detective”.

 

Recensione alla quarta stagione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

No One's with the Calves

  • Drammatico
  • Germania
  • durata 116'

Titolo originale Niemand ist bei den Kälbern

Regia di Sabrina Sarabi

Con Saskia Rosendahl, Rick Okon, Godehard Giese, Anja Schneider, Enno Trebs, Anne Weinknecht

No One's with the Calves

 

"Tutti sanno essere buoni in campagna", diceva quello.

 

Christin (eccellente prestazione in tour de force della Saskia Rosendahl di Lore, Werk ohne Autor, Prélude, Fabian, Babylon Berlin e A Thin Line) è una giovane donna che sogna di aprire un negozio in città (“Un negozio di cosa?” - “Non importa...” - “Sì che importa!”) anche se per ora è di stanza controvoglia a tempo indeterminato nel campagnolo entroterra agricolo-pastorale tra Schleswig-Holstein e Meclemburgo-Pomerania, quand’ecco che il biglietto (che nel mentre del primo passaggio motorizzato sembrava possedere un valore di sola andata, per poi al contrario essere tramutato, al giro di boa e con cambio di mezzo, in A/R, ed infine trasformato in un abbonamento periodico con tragitto ridotto al fienile) per andarsene da lì e da loro (il compagno indifferente, scostante e para-violento, il suocero epitome soft del patriarcato e il padre ubriacone, abbandonato dalla moglie e col cazzo in mano) si concretizza nell’endotermica metafora d’un minivan lanciato verso il tramonto a bucare l’orizzonte (che si rivelerà essere un parcheggio nella zona industriale di Amburgo), col prezzo a contropartita costituito dal provarci – e ovviamente riuscirci, con reciproca soddisfazione – col tecnico che lo guida lavorando per l’azienda che lo possiede, la Wintec, una società di manutenzione d’impianti elettro-meccanici di turbine aerogeneratrici tripala che gestisce parchi eolici attraverso tutta la terra emersa che fu dei cimbri, muovendosi da una fattoria del vento (le wind-farm non allevano bovini, suini, equini, ovini o caprini, ma catturano direttamente dall’aria avicoli e chirotteri vari, stanziali o migratori, diurni e notturni, in questo caso una comune poiana (Buteo buteo), stordendoli e abbattendoli a colpi di collisioni dirette e variazioni di pressione atmosferica, anche se non con l’abilità messa in atto dalle trappole costituite dalle finestre a specchio degli edifici, dagl’impattanti veicoli di trasporto merci e persone e dalle linee elettriche aeree non ancora interrate; di difficile comprensione e collocazione resta però la morte del cervide) all’altra. Fedifraga (per necessità), sadomasochista (per convenienza), semi-alcolizzata (ma ha pure dei difetti), piromane (per divertimento) e canicida (cattivella forte, sì), passerà dal sedile del passeggero a quello del guidatore. E nessuno rimarrà coi vitelli. Happy end.

 

"Anybody can be good in the country. There are no temptations there." - Oscar Wilde, "the Picture of Dorian Gray", 1891.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Mr. e Mrs. Smith (2024)

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale Mr. & Mrs. Smith (2024)

Con Donald Glover, Simon Kinberg, Francesca Sloane, Maya Erskine, Paul Dano

Tag Poliziesco, Coppia, Lavoro, Crimini, USA, Anni duemilaventi

Mr. e Mrs. Smith (2024)

In streaming su Amazon Prime Video

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Guilty Pleasure di Complex/Peak/Prestige TV.

 

Che bisogno c’era di rivisitare, rinverdire, reboottare a vent’anni di distanza il format non originale sviluppato (con variante: dalla coppia di sposi reciprocamente inconsapevoli del fatto di svolgere entrambi il lavoro di spia alla coppia di sposi venutasi a creare contrattualmente proprio per via del fatto d’essere entrambi delle spie: da questo PdV la serie Amazon è molto più simile alla serie CBS di metà anni novanta con Scott Bakula e Maria Bello che, oltre ad essere stata cancellata dalla messa in onda giunta al nono ep. dei tredici in totale, fu base ispiratrice del film hollywoodiano di un decennio dopo) per Doug Liman e la coppia Jolie/Pitt a metà anni zero da Simon Kinberg, già allora in quota Marvel / X-Men?

Ovviamente nessuno, ma se a farlo sono Donald “Childish Gambino” Glover (“Community”, “Atlanta”, “Guava Island”) e Francesca Sloane (“Atlanta - 3 & 4”, “Fargo - 4”; che, già presente sin dall’inizio nel progetto in qualità di co-creatrice/showrunner, ha sostituito in fase di scrittura Phoebe Waller-Bridge, uscita consensualmente dalla realizzazione per divergenze creative con l’autore di "This Is America" e "Feels Like Summer" e rimpiazzata attorialmente dalla Maya Erskine di “PEN15”), beh, allora gatta ci cova e il gioco vale la candela.

 

(Es)Temporanei comprimari di lusso - ognuno metaforizzante un elemento o un momento della vita di coppia, a cominciare dal "colpo di fulmine" a base di C4 - in ordine di “importanza più prestazione fratto due”: Paul Dano (superlativo), il tradimento di lei; Michaela Coel (come sempre - "Chewing Gum", "Black Mirror: Nosedive & USS Callister", "Black Earth Rising", "I May Destroy You", "Black Panther: Wakanda Forever" e il prossimo "Mother Mary" di David Lowery - brava), il tradimento di lui; Ron Perlman (il "figlio" pre-adolescente); Wagner Moura & Parker Posey (gli amici); John Turturro (il "figlio" neonato); Sarah Paulson [la terapi(st)a di coppia]; Alexander Skarsgård (che già aveva lavorato con Glover in “Tarrare”, l’ep. finale della 3a stag. di “Atlanta”, e qui in un altro “cameo mortuario” come quello avuto nel pilot di “On Becoming a God in Central Florida”); e, ultima non ultima, la vera madre del co-protagonista/creatore/showrunner, Beverly Glover: bra-vis-si-ma (nota: in “PEN15” la vera madre di Maya Erskine, Mutsuko Nigatawa, interpreta sua madre nella finzione). E le lariane location di quell’altro ramo del lago di Como (vale a dire quello di Como). Alle regìe: Hiro Murai ("Atlanta", "Legion", "Station Eleven"), Amy Seimetz, (“Sun Don’t Shine”, “She Dies Tomorrow”), Karena Evans, Christian Sprenger (anche principale direttore della fotografia; "Atlanta", "GLOW", "Guava Island", "the Rental", "Station Eleven") e lo stesso Donald Glover.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Time Trap

  • Fantascienza
  • USA
  • durata 87'

Titolo originale Time Trap

Regia di Mark Dennis, Ben Foster

Con Andrew Wilson, Cassidy Gifford, Brianne Howey, Reiley McClendon, Olivia Draguicevich

Time Trap

In streaming su Netflix

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Fugge tuttavia, accelerando.

 

Ogni racconto che comporti l’utilizzo dei viaggi attraverso il tempo (tralasciando per semplicità l’altra faccia inscindibile della medaglia, ovvero le tre dimensioni dello spazio, per l’occasione non applicandola alla questione in esame) non può prescindere dall’instillare nell’ascoltatore-lettore-spettatore una fonte di melancolia relativa alla thanatosinderesi (un termine che ho inventato in questo dato istante passato che ha già raggiunto il futuro), vale a dire la consapevolezza della morte, la contezza dell’epilogo, la coscienza della finitezza, in questo caso vicendevolmente rapportata a una coppia di genitori e ad un cane.

 

Il tempo (che tanto separa quanto unisce) è l’ossaturale meccanismo della trappola (fontana della giovinezza “a parte”) ch’è la vita: dura più (che non significa "è migliore") un labirinto o la retta via?   

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

A Murder at the End of the World

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 7 episodi

Titolo originale A Murder at the End of the World

Con Zal Batmanglij, Zal Batmanglij ... (4 episodes

Tag Giallo, Storia corale, Crimini, Mistero, USA, Anni duemilaventi

A Murder at the End of the World

In streaming su Disney Plus

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“Il colpevole è sempre il mgaigoromdo” in versione 2.0, ovvero: “Macchine che sbuffano nel buio.”

 

“Li pubblicizzano come mini-computer, cosa che sono… Non sono più dei telefoni, non è per quello che li usiamo… Non li avremmo accettati così facilmente... Se guardi le foto dei cinema degli anni ‘40 fumano tutti, proprio tutti: c’è un’enorme nuvola di fumo sopra alla gente. Le guardi adesso e pensi “Cazzo, fa schifo!”, ma se scatti una foto ora tutti sono attaccati al telefono, ed è la stessa dipendenza, anzi è peggio: almeno con una sigaretta distruggi lentamente i tuoi polmoni, ma sei ancora te stesso… Con questi ci stiamo perdendo. Li odio.”

 

Tutti i pregi e tutti i difetti di AMatEotW che già erano riscontrabili in quel progetto mozzato sul compiersi (non è stato rinnovato, vale a dire è stato cancellato, da Netflix dopo la 2ª stagione) che porta(va) il titolo di “the OA” sono riproposti paro paro qui: prendere (ma cum grano salis) o lasciare (e forse sarebbe un peccato).

 

 

“Perché costruire un ponte levatoio per il castello, quando siamo già nella sala del trono?”

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Royal Hotel

  • Thriller
  • Australia, Gran Bretagna
  • durata 91'

Titolo originale The Royal Hotel

Regia di Kitty Green

Con Julia Garner, Jessica Henwick, Hugo Weaving, James Frecheville, Toby Wallace

The Royal Hotel

In streaming su Amazon Video

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Una tensione palpabile che, per quanto giochi su "improbabili" ribaltoni comportamentali riguardanti gli stereotipi ambulanti d'ambo i sessi mossi sulla scacchiera del bush australiano, si fa percepire pesantemente: e ciò è (in generale e in particolare) quasi sempre un bene.

 

Cameriere ↔ Minatori.   
Hanna/Louise (Julia Garner: “Martha Marcy May Marlene”, “Everything Beautiful Is Far Away”, “Ozark”, “Waco”, “Maniac” e "the Assistant") e Liv/Thelma (Jessica Henwick: “Game of Thrones”, “Underwater”, “Love and Monsters”, “Glass Onion: A Knives Out Mystery”), due statunitensi inconsapevoli aspiranti incendiarie in vacanza-fuga in Australia finiscono i soldi a Sidney e perciò decidono di accettare un lavoro in pieno outback, e l’entroterra machista/maschilista – con l’alibi di una dea madre del focolare aborigena (Ursula Yovich) posto a contrappeso dallo zeitgeist di un genius loci furbacchione – sigillerà la loro avventura di genere (scontro sessuale e mash-up cinematografico: siamo parimenti lontani tanto da “WalkAbout” di Nicolas Roeg e “Picnic at Hanging Rock” di Peter Weir quanto da “Wolf Creek” di Greg McLean) con un bel “Let her rip!” che risolve tutto.


Femmine ↔ Maschi.    
Se per la massa muscolare il discorso è abbastanza intuitivo (quando un maschio di 90 kg e una femmina di 45 kg, coetanei e di pari esperienza - alta o bassa che sia - nella lotta corpo a corpo, si contendono normalmente com’è d’uopo in seno alla civile società l’uso-scettro di un’ascia in legno e ferro, è molto probabile che, se pur involontariamente, a farsi male sia la 2a in vece del 1°), forse non è così immediato assimilare e processare il fatto che a parità di g/L di composti organici con atomo di carbonio legato a un gruppo funzionale idrossilico/ossidrilico assunti in rapporto al peso corporeo l’organismo umano femminile produce e possiede una minor quantità di enzima ADH (alcol deidrogenasi) per catabolizzare l’etilicità del sangue, ma, per contro, anche - stando all’Università del Kentucky o del Kansassity, adesso non ricordo bene - una maggior capacità di tradurne gli effetti in “rilassamento sedativo” piuttosto che, come invece la controparte maschile, subire ed esprimere un grado di “stimolazione, aggressività, confidenza e perdita di inibizione” maggiore.


Australiane ↔ Britanniche ↔ Statunitensi (sedicenti canadesi).   
Kitty Green (nata a Melbourne nel 1984), dopo tre documentari militanti (i lunghi “Ukraine Is Not a Brothel”, sul movimento femminista di protesta Femen, e “Casting JonBenet”, una variazione arty sul real/true crime, e il corto “the Face of Ukraine: Casting Oksana Baiul”), un primo lungometraggio di finzione ("the Assistant") e due episodi di “Servant”, con questo “the Royal Hotel” (fotografia di Michael Latham, montaggio di Kasra Rassoulzadegan, musiche di Jed Palmer e resto del cast principale completato dall’Hugo Weaving di “Lord of the Rings” & “the Hobbit” e dal Toby Wallace di “Pistol” e “the Bikeriders”), da lei come sempre scritto, qui con Oscar Redding (attore in “Top of the Lake”), traendolo dal documentario antipodicamente alquanto fondamentale “Hotel Coolgardie” di Pete Gleeson di un lustro prima, prosegue con pedissequa urgenza il suo discorso femminista in zona Sundance (ma è stato presentato in concorso al 48° e al 50° Festival di Toronto e di Telluride assieme ai lavori di Jonathan Glazer, Hayao Miyazaki, Bertrand Bonello, Aki Kaurismaki, Yorgos Lanthimos, Alice Rohrwacher, Errol Morris, Hirokazu Kore-eda, Wim Wenders, Andrew Haigh, Jeff Nichols, Alexander Payne, Atom Egoyan, Michael Winterbottom, Lukas Moodysson, Viggo Mortensen, Emerald Fennell, Steve McQueen, Michel Franco, Pablo Larraín, Justine Triet, Warwick Thornton, Ryusuke Hamaguchi, Ethan Hawke, Mahalia Belo, Ellen Kuras, Ava DuVernay, Saverio Costanzo & C.) verso un catartico/epifanico locus amoenus che nasca dalle mataforiconcrete ceneri (che danzano nell’aria sulle vibrazioni del noise-punk-hardcore-jazz dei Party Dozen di “the Worker”) di un locus horridus/terribilis.

 

 

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Manodrome

  • Thriller
  • USA, Gran Bretagna

Titolo originale Manodrome

Regia di John Trengove

Con Jesse Eisenberg, Adrien Brody, Odessa Young, Sallieu Sesay, Philip Ettinger

Manodrome

In streaming su Apple TV

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Sostegno.

 

Un film abitato per lo più da generosamente stupidi, sinceramente egoisti e impreparati/inadatti alla vita inquadrata nei ranghi della comune società impostata così-come-la-conosciamo (“maschi, femmine, cantanti”, cit., che siano questi attanti) non è per forza un film stupido, egocentrico e involontariamente inconsapevole di sé, degli altri e del mondo, e quest’imperfetta e respingente, ma a suo modo “urgente”, e certamente non perversamente crudele né disumanamente atroce né spietatamente sadica, seconda prova diretta, un lustro dopo “Inxeba” (“the Wound”), che in parte trattava di medesimi argomenti (a cominciare dalle pulsioni omosessuali autoingannevolmente irriconosciute e represse dal protagonista – un imminente padre, prima convivente semi-celibe volontario e poi incel per forza nonché genitore single, che persiste nel suo essere disfunzionalmente monodromo rispetto alle variabili che lo scorrere dell’esistenza gli suggerisce addosso, interpretato da Jesse Eisenberg in versione Luca Traini della Rust Belt, e che viene descritto dal patriarca della famiglia androide, impersonato da Adrien Brody in versione Gio Evan di supporto in un manodromo syracusano, come “un brutale, tenero gigante, che tira pugni contro il cielo”, sic! – in relazione agli altri da sé che compongono l’umana società), dal sudafricano-newyorkese John Trengove (1978), e da lui come al solito anche scritta, per l’occasione in solitaria, è qui a dimostrarlo.

 

Accanto ai già citati Jesse Eisenberg ("Night Moves"), che si scolpisce il fisico del ruolo, e Adrien Brody, completano il cast Odessa Young (“Shirley”), Sallieu Sesay, Ethan Suplee (“the Hunt”), Philip Ettinger (“First Reformed”) e il cestista rumeno Gheorghe Muresan, al quale è affidato il para-cormacmccarthyano finale. Fotografia di Wyatt Garfield (“Resurrection”), montaggio di Julie Monroe (O.Stone, J.Nichols) e Matthew Swanepoel ("Inxeba") e musiche di Christopher Stracey ("FingerNails"), che ha anche curato l’arrangiamento della splendida cover ad opera del sudafricano-londinese Nakhane - già attore principale in “the Wound” - del già eccellente gospel psichedelico di “Holy Are You” degli Electric Prunes posta sui titoli di coda.

 

“So che tutti e due abbiamo una vita di merda. Condividere il dolore non è più sufficiente. O forse non lo abbiamo mai fatto davvero. E, amore mio, se andiamo avanti così, forse non mi riconoscerai più, perché non vedrai più neanche il dolore dentro di me.”

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Requiem

  • Cortometraggio
  • Gran Bretagna
  • durata 24'

Titolo originale Requiem

Regia di Em J. Gilbertson

Con Bella Ramsey, Safia Oakley-Green, Simon Balcon, Sean Buchanan, Jack Norris, Juliet Dante

Requiem

 

Senza requie.

 

Evelyn (Bella Ramsey), la giovane figlia del ministro del culto cristiano anglicano/protestante di un piccolo villaggio dell’entroterra rural-campagnolo inglese, e la sua coetanea Mary si amano, ma siamo agli inizi del XVII secolo, nel pieno della Caccia alle Streghe, e quando il segreto custodito dall’anarchica irruenza adolescenziale mostra presto le sue carte... il banco vince.

 

Compitino egregio i cui pregi superano i difetti, "Requiem" è a suo modo un encomiabile/memorabile racconto di (tras)formazione senza tempo (e senza levitazione à la “the VVitch - a New England FolkTale”), e perciò più che mai attuale, senza per forza dover essere anche mitopoietico.

 

Recensione.

 

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Goodnight Mommy

  • Drammatico
  • Austria
  • durata 99'

Titolo originale Ich seh, Ich seh

Regia di Severin Fiala, Veronika Franz

Con Susanne Wuest, Elias Schwarz, Lukas Schwarz

Goodnight Mommy

In streaming su Apple TV

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Com’emotigeno trattatello psicanalitico e psicofisiologico “Ich Seh, Ich Seh” [ovvero “Io Vedo, Io Vedo”, vale a dire “oiδα”, il supremo (auto)inganno del “vedo dunque so”, ch’è niente di più falso, null’al mondo] è – oltre alla rappresentazione di un caso di sindrome di Capgras [patologia psichiatrica già al centro di "the Echo Maker" (2006), un magnifico romanzo di Richard Powers liberamente ispirato alla figura di Oliver Sacks] post-traumatica enfatizzata da estetico-patriarcal-capitaliste circostanze collateral-congiunturali – un lavoro caruccio e dagli appropriati interpreti, ma abbastanza “inutile” e che muore lì (di buono c’è che non poggia/punta tutto sul twist finale, ma, anzi, organizza lo svelamento in maniera che non si compia con un colpo di scena, bensì con una costruzione progressiva a rilascio esponenziale d’indizi - praticamente mai contraddittori, anche in quel postittizzato "mama" dolentemente quanto "incredibilmente" irriconosciutosi - che proseguono sino a raggiungere la massa critica), senza rinascere.

 

Recensione.

 

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Villain

  • Cortometraggio
  • Gran Bretagna
  • durata 10'

Titolo originale Villain

Regia di Sparky Tehnsuko

Con Isla Gie, Bella Ramsey

Villain

 

Nelle campagne della Britannia della tarda Età del Ferro non ancora romanizzata (anche se le montagne create in CGI – tra le quali una simil-Erebor a far da tana per il simil-Smaug – sembrano posizionare l'azione ben oltre i Valli di Adriano e Antonino, ai piedi delle Scottish Highlands) un’adolescente prende la radicale decisione di vendicarsi del drago che, incenerendo la sua casa, l'ha resa orfana uccidendo sua madre; tuttavia, dopo aver seppellito il genitore dandole un cumulo di pietre come lapide, una volta raggiunta la tana della bestia scoprirà qualcosa di ulteriormente sconvolgente...

 

Coincidenza del tutto priva di alcun nesso causale, “Villain”, il cortometraggio che - distribuito attraverso YouTube dalla come sempre encomiabile DUST - segna il ritorno di Sparky Tehnsuko dietro alla macchina da presa e sulla macchina da scrivere (fotografia di Andreas Neo, montaggio di Sarah Bowden, scenografie di Collette Creary-Myers e musiche di Jo Quail) dopo le iniziali esperienze in questo senso della prima metà degli anni dieci culminate con la realizzazione di “They Call Me the Kid” (fruibile per mezzo di Vimeo direttamente dal sito della casa di produzione co-fondata dall’autore stesso, la Cowboy Funfair) e poi integrate facendo dal tuttofare/factotum all’assistente di produzione/regìa (“the Levelling”) per il successivo decennio, può apparire come l’apparentemente diretto prosieguo dal PdV “incendiario” di “Requiem”, il precedente short con protagonista Bella Ramsey [qui affiancata da Isla Gie, un’altra possibile attrice bambina prodigio - solo il tempo lo dirà, in “attesa” delle avventure di "Flavia De Luce" -, già appartenente però a una (mezza) generazione successiva], ma in realtà, ovviamente, se pur girate più o meno una appresso all’altra, le due opere sono del tutto indipendenti l’una dall’altra, e anzi “Villain”, pur difettando maggiormente nel computo generale (gli effetti speciali sono professionali, ma non eccellentemente utilizzati: un tocco di artigianalità e di sgamata esperienza in più non avrebbero fatto male), si discosta da “Requiem” – svolgendosi a grandi linee negli “stessi” luoghi, ma grosso modo durante la tarda Età Antica dei metalli pre-romanizzata di 1.500 anni prima, ben lontano dall’auto-incensantesi periodo rinascimental-illuminista post-secoli “bui” (sic) medioevali che, tra l’altro, produsse anche la Caccia alle Streghe – sotto l’aspetto ellittico dell’inspiegato, tra il non detto e il non mostrato (c’è tutto un prima - il lavoro prende il via in medias res - e un dopo da esplorare ed ampliare in un lungometraggio che non superi l’ora e mezza: chissà): un’ipotesi potrebbe essere quella che entrambe le ragazzine siano una specie di variazione sul tema “Daenerys Targaryen”, la non-bruciata (in questo caso) figliastra (e non matrigna) dei draghi valyrian-essosiana: o la “sorellastra/cugina” maggiore adottata/rapita da una madre umana o la minore adottata/rapita da un genitore drakonico: ma la questione fondamentale è quella della spirale uroborica del ciclo azione-reazione & offesa-vendetta: ora toccherà alla bambina “regolare” i conti con la ragazzina reclamando rivalsa (punto di domanda).


Dopo l’età dell’Osso venne quella della Pietra cui seguirono quelle del Rame, del Bronzo, del Ferro, della Polvere da Sparo, del Petrolio e dell’Atomo: poi, si sa, come diceva quello, ossa & pietre e arco & frecce uroboricamente reclameranno cavalcando il tempo ciclico dell’eterno ritorno il loro ius sanguinis sull’umana stirpe.

 

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