Detectorists
- Serie TV
- Gran Bretagna
- 3 stagioni 19 episodi
Titolo originale Detectorists
Con Toby Jones, Rachael Stirling, Gerard Horan, Pearce Quigley, Divian Ladwa
Tag Commedia, Coppia, Vita vissuta, Amicizia, Gran Bretagna, Anni duemiladieci
Ecco com’è che si scrive una storia.
- There's no money in archaeology.
- There's no money in doing fuck all either!
- Non si fanno i soldi con l’archeologia.
- Non si fanno i soldi nemmeno facendo un cazzo!
Detectorists - Christmas Special 2022
Regìa e Sceneggiatura: Mackenzie Crook
Cast: Mackenzie Crook, Toby Jones, Rachael Stirling, Sophie Thompson, Gerard Horan, Pearce Quigley, Orion Ben, Laura Checkley, Divian Ladwa, Rebecca Callard
Direttore della Fotografia: Nick Brown
Montaggio: Colin Fair
Musiche di Johnny Flynn e Dan Michaelson
Produzione: Gill Isles
Special Thanks: the British Museum
Dalla benedizione (Padre Nostro) di Russell:
- “...and lead us not into frustration, but deliver us medieval.”
- “...e non c’indurre in frustrazione, ma consegnaci al medievale.”
Ed è così che si scrive una storia.
Un’ora e un quarto di pura, meravigliosa, concreta bellezza.
(Anche se Lance che decide di sotterrare il pezzetto di reliquiario invece di tenerselo in tasca per lasciarlo scivolare a terra al momento propiziamente opportuno mi ha fatto irritantemente sudare freddo.)
Assonanze, consonanze, risonanze: “the Dig” di Simon Stone (2021).
"Detectorists": 18 ep. + 1 special natalizio da 30' suddivisi in 3 stagioni (2014-2017) + 1 christmas special da 75' (2022).
Waiting for a Treasure.
- Stag. 1, 2014 (6 ep. da 30')
There's a place, follow me.
- Stag. 2, 2015 (6 ep. + 1 speciale natalizio da 30')
Time Travelers.
- Stag. 3, 2017 (6 ep. da 30')
“L’archeologia è il nuovo rock and roll!”
- Christmas Special 2022 (1h15')
* * * * ¼/½ – 8.75
The Quiet Girl
- Drammatico
- Irlanda
- durata 94'
Titolo originale An Cailín Ciúin
Regia di Colm Bairéad
Con Catherine Clinch, Carrie Crowley, Andrew Bennett, Michael Patric, Kate Nic Chonaonaigh
In streaming su Rai Play
vedi tutti
Struggente fulgore.
Ben poco da dire, su “An Cailín Ciúin” (“the Quiet Girl”, “la Ragazza Tranquilla/Silenziosa”, "l'Acqua Cheta" - come quella di un pozzo di risorgiva -, e nessuna epica scazzottata johnfordiana), sceneggiato – adattando “Foster”, un racconto del 2010 di Claire Keegan (classe 1968) scritto in inglese e uscito prima sul New Yorker e poi ripubblicato in una versione estesa da Faber and Faber – e diretto da Colm Bairéad (nato nel 1981, anno in cui il film è ambientato), sino al 2022 regista di cortometraggi, serie tv e documentari, e interamente recitato in gaelico, a parte catturare quello che accade.
Un paio di cose però, anche se di per loro evidenti, vanno ribadite: la recitazione della giovane protagonista, esordiente assoluta, Catherine Clinch, l'Arminuta, così come quella di Carrie Crowley e Andrew Bennet, nei panni degli zii adottivi, anzi, dei genitori di supporto, per il tempo di un’inobliabile, anche s’effimera, estate, è di sbalordente superlatività naturalistica, e la punteggiatura del comparto tecnico & artistico – la fotografia [1.37:1 (4:3) con Sony Venice] di Kate McCullough, il montaggio di John Murphy e le musiche di Stephen Rennicks ("Frank", "Room") – è di una giustezza tale da colmare l’animo intellettuale di meraviglia, ché quello sentimentale già era stato rapito dalla storia e dai personaggi abitantila.
- È il latte della madre?
- No.
- Quindi cos'è?
- Latte in polvere.
- Perché non gli dai il latte di sua madre?
- Noi lo vendiamo quel latte.
- Perché il vitello non ne prende?
- Lo fa, all'inizio.
- Per quanto?
- Abbastanza a lungo!
- Perché non beviamo il latte in polvere e lasciamo che le mucche bevano da sole?
E poi, nel serico frusciare delle stormenti ramaglie alla luce radente di un sole settembrino che alza il vento e allunga le ombre su tutto quel confortevole subisso d’infinite sfumature di verde e quel baluginante risplendere d’oro, eccolo: il declino del tardo meriggio, pronto ad accogliere un’altra, ultima corsa. E un primo abbraccio. E una sussurrata parola.
* * * * ¼/½ – 8.75
Rumore bianco
- Giallo
- USA
- durata 135'
Titolo originale White Noise
Regia di Noah Baumbach
Con Adam Driver, Jodie Turner-Smith, Raffey Cassidy, Don Cheadle, Alessandro Nivola
In streaming su Netflix
vedi tutti
Not Dark Yet.
Rumore Bianco, e Nube Nera.
«È vero che Kraus scrisse: “A proposito di Hitler non mi viene in mente nulla”. Ma era la prima riga di un libro su Hitler e i nazisti.» - Jonathan Franzen, “the Kraus Project”, 2013.
Il Professor Jack Gladney (Adam Driver), invece, ci ha costruito un’intera carriera universitaria sull’imbianchino-acquarellista austriaco (altri lo hanno fatto su Elvis), e ha un sacco di cose da dire pure sul cane del Führer, anche se sta cercando solo adesso, in vista di una grande quasi conferenza colta sull’argomento, d’imparare il tedesco (“Carnoso, distorto, sputacchione, porporino e crudele.” - Don DeLillo, "White Noise", 1984, traduzione di Mario Biondi, Einaudi) prendendo lezioni da un fuoriuscito male in arnese per non dare troppo nell’occhio.
“I read the book when it came out. At that time I thought it unadaptable to film. I haven’t changed my mind.” - Paul Schrader, 31/12/’22
Gli incidenti veicolari (m’anche solo l'arrivo delle station wagon in migrazione cariche di famiglie e studenti al campus universiatario, ogni settembre) come Destino Manifesto del Sogno Americano (eros & thánatos), ovvero: “Tutto è un’automobile!”
"Godiamoci questi giorni senza finalità fintanto che è possibile, mi dissi, temendo qualche sorta di rapida accelerazione." - Don DeLillo, op. cit.
Lessi “White Noise”, un bignami della e sulla seconda metà del Novecento Occidentale, nel mio periodo delilliano, più di vent’anni fa, quando feci scorpacciata uno via l’altro di “Libra” (il libro che, assieme a “Moby Dick” e “l’Assommoire”, Primo Levi e Cesare Pavese, e più tardi “Gain”, “Blood Meridian”, “American Tabloid” e “the Human Stain”, ha modellato il mio approccio verso la letteratura), “UnderWorld”, “the Names” e “Mao II”, e quasi quarant’anni sono passati dalla sua pubblicazione: com’è cambiato il mondo, nel frattempo, e che “senso” ha traslare (¡ridurre!) al cinema un romanzo invecchiato così… bene? La tautologica risposta a una domanda retorica (che fa il verso a quelle purtroppo reali e seriose davvero poste) è, s’è vero che “1984”, scritto nel 1948, genererà modernità e contemporaneità e speculazione filosofica tanto nel 2056 quanto nel 3988 e financ'oltre, “Chi se ne fotte!” [E, tornando per un attimo a “Libra”, grazie al Dio delle Traiettorie le cartucce sparate da Barry Sonnenfeld e Michael Almereyda poco prima e poco dopo l’Y2K e l’11/9 erano... in bianco, cioè a salve, e hanno fatto ben poco... rumore.]
Di fatto, poi, e innanzitutto, Noah Baumbach, dopo il capolavoro “seventies-twenties” di “Marriage Story”, non “aggiorna” al presente il romanzo di Don DeLillo, ma lo ambienta nel tempo che gli compete, la metà degli anni ‘80, in copp’alla collina con vista sul Disastro. E sembra l’oggi che panasonicamente ci pervade: music for airport e cieli sopra l’autostrada del colore di un televisore sintonizzato s’un canale morto.
- La tua morte lascerebbe un buco più grande nella mia vita di quanto la mia nella tua.
- Starai bene. Viaggerai e vivrai una vita nuova ed eccitante. Io invece mi limiterò a sedermi su quella sedia con l'abito che ho indossato al tuo funerale per sempre.
- Ti sbagli, e non vuoi davvero morire prima. Non vuoi essere solo, ma non vuoi morire più di quanto non vuoi essere solo.
- Spero ch’entrambi vivremo per sempre.
Riassumendo.
“Big Man, Middle Age. Questo descrive la tua angoscia?”
La famiglia (o qualsiasi conglomerato di persone ) come culla della disinformazione.
- Come galleggiano gli astronauti?
- Sono più leggeri dell'aria.
Teorie del Complotto (e nozionismo utile a propalarlo: dove vanno le anatre di Central Park in inverno? E conoscere tutte le risposte renderebbe gli esseri umani più felici o più infelici? E sarebbero ancora esseri umani? E sarebbe un bene o un male? E per chi?), Paura della Morte e Nazismo Avanzato come rifugio all’inesistenza (del) trascendente e alla finitezza (dell’) immanente: “Ti amo. Ma temo la morte più di quanto ti amo. E ti amo davvero, davvero tanto.”
Concludendo.
“Forse non c'è morte come la conosciamo, solo documenti che passano di mano.”
Noah Baumbach scrive e dirige il suo film più altmaniano (“3 Woman”, “Short Cuts”), e quindi paulthomasandersoniano (“Punch-Drunk ↑ Love”, “the Master”, “Inherent Vice”, “Licorice Pizza”, col guado del fiume a fare da controcanto alla discesa "in retromarcia" col motore in folle e il serbatoio a secco) e formalmente spielberghiano (l’inverazione dello spirito, nello stile, di “Close Encounters”: i totali, i primi piani, la luce nel cielo e quella sui volti), con un prolungato momento contro-"Turist" ("Force Majeur") e ur-"Don't Look Up" e un finale demme*-moretti-weineriano. (*Come già “Marriage Story”.)
E un momento d’intercalare filmico, questa volta fortuitamente, nuovamente morettiano (stessa forma significante, dovuta ad una evoluzione parallela del costruire cinematografico, con esiti divergenti, quella in cui il protagonista cerca e trova conforto e speranza nella spazzatura; e a tal proposito si consideri anche quel “romantico” capolavoro satirico di “the Cloud Is Coming”, grazie e attraverso il quale “White Noise” celebra la propria mitopoiesi in corso nel mentre del farsi, al cospetto d’un focolare di ombre cinesi e pupi siciliani).
“Tutti gli intrighi tendono alla morte. È la loro natura, intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi dei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo alla morte. È come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell’intrigo.
È vero? Perché l'ho detto? Che cosa significa?”
Don DeLillo - op. cit.
Adam Driver (qualche Star Wars e poi “Paterson”, “Silence, “Midnight Special”, “Logan Lucky”, “BlacKkKlansman”, “the Man Who Killed Don Quixote”, “the Dead Don’t Die”, “Annette”, “the Last Duel” e, in attesa del “Megalopolis” coppoliano, qui alla quinta collaborazione con Noah Baumbach dopo “Frances Ha”, “While We're Young”, “the Meyerowitz Stories” e “Marriage Story”) non sbaglia una virgola, e Greta Gerwig (“Lady Bird”), dopo più di un lustro di assenza davanti alla MdP (gl’inizi con Joe Swanberg, il sodalizio artistico-amoroso con Noah Baumbach – “Greenberg”, “Frances Ha”, “Mistress America” - e “To Rome with Love” e “Wiener-Dog”), convince assai.
Chiudono il cast Don Cheadle, Raffey Cassidy, Sam Nivola, May Nivola, Lars Eidinger, Barbara Sukowa, (alla quale è riservato l'acme del climax: “I non credenti hanno bisogno dei credenti. Hanno un bisogno disperato che qualcuno creda.” - Don DeLillo, op. cit.), Jodie Turner-Smith, Bill Camp, Kenneth Lonergan e Danny Wolohan.
"Nel corridoio di sopra si mise in azione il rivelatore di fumo, per informarci o che le batterie si erano scaricate o che la casa era in fiamme. Finimmo di pranzare in silenzio." - Don DeLillo - op. cit.
Fotografia di Lol Crawley (“Utopia”, “the Childhood of a Leader”, “the OA”, “Vox Lux”, “Dau”, “the Devil All the Time”), montaggio di Matthew Hannam (“Enemy”, “James White”, “InTo the Forest”, “Swiss Army Man”, “the OA”, “It Comes at Night”, “WildLife”, “Vox Lux”, “Possessor”) e musiche di Danny Elfman. Produce, tra gli altri, A24, e distribuisce Netflix.
The Cloud Is Coming! (By Dean Wareham & Britta Phillips on set, collaboratori di lungo corso di Noah Baumbach.)
The Nyodene dogs are here to stay
The government knows more than they say
UFO sightings in Farmington town
Widespread looting all around
Three live deer at the Kung Fu Palace are dead
Those pretty clouds ain't what they seem
How come I'm never in the mood?
They're putting something in the cafeteria food
I see no difference between the blue and the red
The cloud is coming for us all
Korean Airliner in the Japanese sea
Can't you see those blinking lights?
West of Sakhalin, a SU-15
Had them in his sights
German shepherds from New Mexico
Coming down by parachute
See the men in their Mylex suits
Coming here to burn and loot
There's no difference between the blue and the red
The cloud is coming for us all
Behind the curtain in East Berlin
They engineered a freak
They put a human brain into a chimp
They say the simian tried to speak
Two of the men at the switching yard are dead
Exactly as we feared
Chopper flew inside the toxic cloud
And never reappeared
I see no difference between the blue and the red
The cloud is coming for us all
“White Noise” è un film che coglie lo zeitgeist: pandemie e complottisti, riscaldamento globale e negazionisti, guerricciole e tornacontisti: è il film perfetto non tanto per perculare la brulicante massa informe di babbei, cacciari, citrulli, orsini e pisquani che pervade l’aere terracqueo, quanto per agire da richiamo in chi è già autodotato di vaccino culturale contro gl’idioti in marcia.
“Resumé” di Dorothy Parker.
Razors pain you;
Rivers are damp;
Acids stain you;
And drugs cause cramp.
Guns aren’t lawful;
Nooses give;
Gas smells awful;
You might as well live.
“White Noise”, data l’impossibilità attuale di mettere in pratica l’immortalità (la Singolarità del transumanesimo kurzweiliano, oppure, per altri versi, più “grezzi”, lo stesso, recente “Zero K” di Don DeLillo) in quest’Era della Protesi (il migliore dei mondi possibili… a parte tutti quelli futuri), non può che (s)finire in musical (by LCD SoundSystem), rassegnandosi alla speranza. New Body Rhumba! (Una sfinente scena in sfinendo straniante quasi quanto - e forse più - quella post/during burn-out presente in "the Hurt Locker" di Kathryn Bigelow & Mark Boal.)
“Non sapevo potesse esserci così tanto da dire sul cane di Hitler.”
* * * * ¼ - 8.5
TÁR
- Musicale
- USA
- durata 158'
Titolo originale TÁR
Regia di Todd Field
Con Cate Blanchett, Mark Strong, Sydney Lemmon, Julian Glover, Nina Hoss, Noémie Merlant
In streaming su Netflix
vedi tutti
L’acufene rivelatore. (Marcia funebre in allegretto.)
Com’è noto alle moltitudini d’ogni latitudine e longitudine, “2001: a Space Odyssey” doveva se non iniziare almeno contenere al suo interno una parte documentaria: quel che Stanley Kubrick espulse (rintracciabile nelle “Interviste Extraterrestri” effettuate dallo stesso regista newyorkese del Bronx naturalizzato inglese dell’Hertfordshire, volume curato da quello che fu il suo assistente personale per più di trent’anni, Anthony Frewin: "Are We Alone? - the Stanley Kubrick Extraterrestrial Intelligence Interviews") lo sceneggiattore, produttore e regista Todd Field [“In the Bedroom”, “Cheyenne, WY” (il 10° ep. della 2ª stag. di “Carnivàle”), “Little Children” e poi 15 anni di silenzio aka cazzi propri], il Nick Nightingale di “Eyes Wide Shut”, lo reintegra nel quarto d’ora iniziale di “Tár” (un film che dialoga stilisticamente con “Birth” e contenutisticamente con “Vox Lux”, oltre che, per forma e sostanza, col Polanski degli ultimi... trent'anni) per interposta persona di Adam Gopnik del New York Times: il tema ovviamente qui non è la xenovita su esopianeti, ma le desinenze di genere, la traslazione dallo spartito all’orchestra e la Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler (registrata con i Wiener Philharmoniker da Leonard Bernstein, il mentore di Lydia Tár): più in là, durante le prove, la musicista, direttrice d’orchestra e compositrice dirà ai suoi strumentisti: “Visconti, così famigliare a tutti qui, davvero non vi aiuta a conoscere meglio questo pezzo!” (il riferimento ovviamente è a “Morte a Venezia”).
“Non essere così ansioso di essere offeso.”
Y2K: erano i tempi, mezzo secolo fa, dei “ghosts” (traslati in italiano con “zulù”) di Coleman Silk e Nathan Zuckerman aka Philip Roth: «[Era] l’estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo minimo e mortificante dettaglio. L’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia.» – Philip Roth - "the Human Stain" - 2000 ("la Macchia Umana", Einaudi, 2001, trad. di Vincenzo Mantovani).
Oggi le destre sventolano davanti agli occhi bovini dei loro elettori lo spauracchio dell’inesistente Cancel Culture.
E quant’è colonialista questa dicitura - “Made on Location in New York, Germany and East Asia” - dei titoli di coda, in cui una metropoli vale quanto uno stato-nazione che vale quanto un sub-continente, eh?2?2?
Guida come un uomoh!1!1!
Non sa cos’è l’8 marzoh!1!1!
Dice che la parità di genere su ampia scala verrà conseguita quando sarà comune e normale avere donne mediocri al potere: √ fatto! Ma lasciamo la politica italiana e concentriamoci sul bigottismo americano, nell’accezione di statunitense (qui nella Bassa Vecchia Europa così ben rappresentato da quegli pseudopodi della trash tv a stelle e strisce che sono gli scoli fognari di Antonio Ricci e Davide Parenti: il video girato in verticale con lo smartphone e montato con Windows Movie Maker prima di metterlo su Instagram e YouTube e l’articolo del New York Post in odor di Ronan Farrow), e mitteleuropeo, sul fesso-piagnone PanGender BIPoC [Black, Indigenous and People of Color: non proprio femmina etero islandese di pura razza Thorvaldsdottir - che cinematograficamente sta a “la Région Centrale” di Michael Snow (resosi defunto pochi giorni fa) come «4’33’’» di John Cage sta a “Empire” di Andy Warhol e “Blue” di Derek Jarman -, insomma] vs. Johann Sebastian Bach, sui coppoliani coccodrilli alloctoni che fanno concorrenza agli autoctoni bukarot filippini (Crocodylus mindorensis), sul desiderio sessuale di chi potere dispone e crea sperequazione nella distribuzione delle cariche in base al merito effettivo: Lydia Tár, una dei 22 EGOT (Emmy, Grammy - che, sarà contenta l’ex direttrice dei Berliner Philharmoniker, ora autrice per “Monster Hunter”, dal 2022 hanno introdotto la “Best Score SoundTrack for VideoGames” -, Oscar e Tony Award), 15 maschi e 7 femmine, non solo è, proporzionando e contestualizzando il termine, “cattiva come un uomo”, ma è pure, in varie occasioni, altrettanto stupida: ché non puoi, davvero, non puoi far troppo incazzare il tuo segretario personale, assistente speciale e braccio destro (un po' di rispetto per i mancini!1!1!) tuttofare pensando poi di cavartela.
Invece di Krista Sides Taylor (Sylvia Flote), suicidatasi a 25 anni, l’unica immagine non onirica (e quindi ricordata/reinterpretata da Lydia Tár) che “Tár” concede è un obituary.
Due frame: il momento in cui i lacerti del sogno pervadono ancora la realtà: “Eyes Wide Shut”, “Under the Skin” e “Phantom Thread”. Sino al "Blonde" di Andrew Dominik.
Karma / 1.
- Non sono un misogino!
- “Misogamia”! È l’odio per il matrimonio!
- Nostalgia?
- Notalgia, nessuna “s”.
Minoranze e categorie protette in quota algoritmo Netflix, Amazon, HBO, Apple, Disney? Ah, già: no.
Karma / 2.
- Mi spari gli MP3?
- Sì, certo, ma non vuoi i file WAV?
- No, penso solo a ciò che le persone ascolteranno effettivamente in streaming.
“What’s Up?”, by WhatsApp (cit. & sic!).
“hows she doing”
“trotted out divinity bit”
“fuck me if she uses allegory”
"Tár and her fresh meat", by Twitter.
“Tár wants me dead”, by client e-mail.
E fuori, oltre il pianerottolo, altre prevaricazioni, sfruttamenti e violenze.
Cate Blanchette [già doppiatrice di Abigail Good, la “misteriosa donna mascherata”, in “Eyes Wide Shut” (traccia registrata dopo la morte di Kubrick), e poi: “the Lord of the Rings”, “Coffee and Cigarettes”, “the Life Aquatic with Steve Zissou”, “the Aviator”, “Babel”, “the Good German”, “I’m Not There”, “Blue Jasmine” (in quella ch'è forse la sua interpretazione più vicina a questa: meravigliosa, respingente, totalizzante), “Knight of Cups”, “Carol”, “Song to Song”, “Nightmare Alley”] sposta l’asticella più in su: quanto mi piacerebbe un suo buddy-buddy con Rhea Seehorn.
Nina Hoss, Noémie Merlant, Sophie Kauer, Julian Glover, Allan Corduner, Mark Strong, Zethphan Smith-Gneist e la piccola Mila Bogojevic completano il magnifico cast.
Fotografia di Florian Hoffmeister (“the Deep Blue Sea”, “A Quiet Passion”), montaggio di Monika Willi (sodale collaboratrice di Michael Haneke da più di vent’anni) e musiche originali di Hildur Guðnadóttir (solista al violoncello per Denis Villeneuve in Prisoners, Sicario e Arrival).
Music supervisor: Lucy Bright; music consultant: Natalie Murray Beale; music advisory: John Mauceri.
Repertorio: Bach, Mahler, Elgar, Wagner, Verdi, Tchaikovsky, Fernandez, Thorvaldsdottir, Burke & Van Heusen. E poi “Barbarian”, scritta da Jamahl Blokland & Bessam Witwit e suonata da Besomorph & Jurgaz.
Marcia funebre in allegretto, ovvero: l’acufene rivelatore.
* * * * ¼ - 8.5
Weirdos
- Drammatico
- Canada
- durata 85'
Titolo originale Weirdos
Regia di Bruce McDonald
Con Dylan Authors, Julia Sarah Stone, Molly Parker, Allan Hawco, Max Humphreys
Con Andy Warhol (Rhys Bevan-John) in testa a gironzolare e a proiettar consigli, Elton John (“Caribou”) appeso sulla parete accanto al letto nella cameretta, “Mother, Jugs & Speed” (Peter Yates, Tom Mankiewicz, Bill Cosby, Raquel Welch, Harvey Keitel) in cartellone al cinema e Alice (Julia Sarah Stone: “Allure”, “Come True”, “Before the World Set On Fire”) lì accanto, nel cuore, Kit (Dylan Authors: “Falling Skies”, “the Husband”, “the Mist”) saluta il padre (Allan Hawko), considerandolo - come si "scoprirà" a metà narrazione - irrimediabilmente omofobo per via di prove indiziarie, e la nonna (Cathy Jones) paterna e di soppiatto (ma mica troppo bene, facendosi scoprire da un finitimo bimbogigi qualsiasi) si mette in viaggio con Alice per - oltre a un sacco d’altre cose - andare a trovare la madre (Molly Parker: “WonderLand”, “the Five Senses”, “Trigger”, “DeadWood - la Serie”, “SwingTown”, “American Pastoral”, “House of Cards”, “1922”, “WormWood”, “Lost in Space”, “Goliath”, “DeadWood - il Film”, “Madeline’s Madeline”, “Pieces of a Woman”, “Jockey”) nella cittadina di Sidney (Nova Scotia, Canada), lungo la rotta Toronto ↔ New York ↔ Mondo, "convinto" - per un errore commesso dalla genitrice - di poter stare (aka vivere) da lei a tempo pieno e indeterminato, incrociando in quest’estate del 1976 varie persone, fra le quali Mr. Po (Vi Tang), in fuga dal genocidio cambogiano perpetrato dai Khmer Rossi (col supporto ipogeo degli U.S.A., che appoggiano sempre la qualunque a destra e a manca, ma solo quella manca talmente poco manca d’aver fatto il giro completo e diventare destra piena) e soggetto dell’ultimo dei due scatti rimasti nella micro-macchina fotografica ultra-compatta (16mm) di Alice, John Dunsworth, alla sua ultima interpretazione, e Stephen McHattie, direttamente da “PontyPool”, mentre nell’aria…
…danzano Harry Nilsson, LightHouse, Gordon Lightfoot, Rush, Edward Bear, the Stampeders, Crowbar, Andy Kim, FM, Patsy Gallant, Labi Siffre, Murray McLauchlan, Anne Murray, the Shire e Leon Dubinsky.
- Tu piaci a tutti.
- Non m’interessa.
- Vorrei piacere a tutti come te.
- Vorrei che non t’importasse.
Sceneggiato dal drammaturgo, attore e regista Daniel MacIvor (1962), che per Bruce McDonald aveva già scritto “Trigger”, fotografato (B&N, 2.35:1) da Becky Parsons, al suo esordio nel lungometraggio, montato da Duff Smith (“Algonquin”, “the Husband”, “River”, “Sweet Virginia”, “DreamLand”, “StanleyVille”), qui alla sua prova più matura dopo i praticantati sui set di “PontyPool”, “Year of the Carnivore” e “Defendor”, e musicato da Asif Illyas in sintonia con la playlist di cui sopra (e, fra gli “strambi onorari”, Atom Egoyan e Don McKellar), questo “Weirdos” illumina uno squarcio di realtà, devastando lo spettatore con una pacificazione furibonda.
- Ho sempre saputo che non volevi baciarmi mentre lo facevi.
- Lo volevo! Volevo… volerlo.
Un giorno di questi bisognerà affrontare seriamente la filmografia di Bruce McDonald (1959), prima (1985-2007: “Knock! Knock!”, “RoadKill”, “HighWay 61”, “Hard Core Logo”, “Picture Claire”, “the Tracey Fragments”) e dopo (2009-2023: “This Movie Is Broken”, “Trigger”, “My Babysitter's a Vampire”, “Music from the Big House”, “the Husband”, “Hellions”, “DreamLand”, “Switched at Death”) il capo d’opera “PontyPool” (2008), ma per ora godiamoci “Weirdos” (2016): un film in bianco e nero che si merita quattro stelle piene, anzi più che abbondanti, e pure colorate:⭐⭐⭐⭐ (¼) - 8.25.
Con due occhi qualunque e il terzo occhio inconfondibile e speciale.
The Meyerowitz Stories
- Commedia
- USA
- durata 110'
Titolo originale Yeh Din Ka Kissa
Regia di Noah Baumbach
Con Adam Sandler, Ben Stiller, Emma Thompson, Dustin Hoffman, Candice Bergen
In streaming su Netflix
vedi tutti
The drip of life.
Primo tassello, anno 2017, della proficua collaborazione tra Noah Baumabach e Netflix, cui seguiranno i fondamentali “Marriage Story” e “White Noise”, questo “the Meyerowitz Stories (New and Selected)”, interamente scritto e diretto dal regista e sceneggiatore, grazie anche, ma non solo, alla sua connotazione, come da titolo, episodica (e, “quindi”, letteraria: da “the Royal Tenenbaums” di Wes Anderson del 2001 a “Listen Up Philip” di Alex Ross Perry del 2014), mantiene un ritmo pacatamente indiavolato dall’inizio alla fine, mai adagiandosi o spegnendosi: il montaggio della sodale Jennifer Lame impagina a dovere la messa in scena del copione e, pur con un’evidente sorta di abuso dei tagli anticipati che mai ne storpiano l’andatura, consente allo stile di veicolare il contenuto, dando forma alla sostanza; Adam Sandler (che, occorre sempre ricordarlo, ha fatto anche cose buone: qui, ad esempio, valga la carrellata/zoom in avanti de/ri-costruita con una manciata di jump-cut: “I love you. I forgive you. Forgive me. Thank you. Goodbye.”) e Ben Stiller (che tiene botta e conferma il talento senza stroppiare durante il periglioso monologo pre-finale), Dustin Hoffman (che restituisce alla perfezione il “ritratto” che ne fa il figlio maggiore: “You know, sometimes I wish dad had done one horrible, unforgivable thing, something specific I could be angry about... But it isn't one thing, it's tiny things every day. It's drip, drip, drip.”) ed Elizabeth Marvel (“I'm glad you guys feel better. Unfortunately, I'm still fucked up. You want to take a swing? I could smash every car in this parking lot and burn the hospital down and it wouldn't un-fuck me up. You guys will never understand what it's like to be me in this family.”), Emma Thompson e Grace Van Patten, Candice Bergen e Judd Hirsch, Adam Driver e Rebecca Miller, più il cameo di Sigourney Weaver, abitano i racconti di questi giorni della schiatta Meyerowitz, dal patriarca alle nuove leve, chiudendo il cerchio, a mo’ di fionda gravitazionale, prendendo abbrivio dal passato verso il futuro, nel deposito à la Amazon del Whitney Museum of American Art; e la naturale fotografia blandamente iperrealistica di Robbie Ryan (che troverà compimento nel successivo e già citato “Marriage Story”) e le inconfondibili musiche di Randy Newman (testi suoi, di Sandler e di Baumbach) completano il quadro.
Impagabile, poi, tutta la costruzione delle dinamiche instauratesi irreciprocamente fra i parenti del paziente e (l’imprinting con) la prima infermiera.
* * * * (¼)
1923
- Serie TV
- USA
- 2 stagioni 9 episodi
Titolo originale 1923
Con Taylor Sheridan, Harrison Ford, Helen Mirren, Colt Brown, Brandon Sklenar
Tag Western, Storia corale, Famiglia, Storie di vita, USA, XX secolo
In streaming su Paramount Plus
vedi tutti
Epica Etica Etnica Pathos.
"Devo" ammettere che per un paio di episodi (tra “Green Hills of Africa”, “Hatari!” e “White Hunter, Black Heart”) ci ho sperato: ho sperato che Taylor Sheridan (e con lui John e Art Linson, e Ben Richardson, e tutti gli altri) riuscisse(ro) nell’intento (perché allestire un worldbuilding che comprenda “YellowStone”, “1883”, “Bass Reeves”, questo “1923” e, forse, “6666”, e poi chissà - oltre agli sganciati “Mayor of KingsTown” e “Tulsa King” -, è evidentemente un intenzionale tentativo di autosabotare la propria carriera… o, al contrario, di diventare il Balzac o lo Zola statunitense del XXI secolo…) di soccombere alle immense ambizioni che caratterizzano questa Storia d'America, degli U.S.A e del Montana; e invece: e invece.
A fare da tratto d’unione fra questa seconda (terza) epopea e “1883” è la voce – più che narrante – punteggiante di Elsa (l’indimenticata perché indimenticabile Isabel May), l’eredità fantasmatica, mitopoietica e storicistica dei fatti avvenuti quarant’anni prima, sul filo della frontiera in farsi espansionistico: dall’orizzonte alle piste: così come gl’indigeni viaggiano di notte per recuperare tempo sui pretastri che invece s’accampano per dormire, i “pinkerton” viaggiano col treno per recuperare tempo sugl’indigeni che viaggiano a cavallo.
«“Rubare l’erba.” L’uomo non possiede l’erba. Le montagne possiedono l’erba. Dio possiede l’erba. E tu non sei Dio, Jacob Dutton. Non sei Dio!» - Banner Creighton (Jerome Flynn)
«Devi capire qual è il più grande nemico di questo ranch. Non sono i lupi o la siccità o le tormente di neve o la Febbre del Texas. Sono gli altri uomini. Preferiranno sempre toglierti ciò che hai costruito piuttosto che provare a costruirsi qualcosa da soli. Ogni civiltà in questo mondo è cresciuta sopra a un’altra che è stata conquistata. Vai a Roma o Gerusalemme o Parigi, in Francia: sono città costruite sopra a cittadine edificate in cima a villaggi sorti sulla casa di un uomo eretta sulla caverna di un altro uomo. {♦} Vorrei che non fosse così, ma lo è. I tuoi nemici devono essere terrorizzati. La loro paura deve essere più forte della loro avidità. Ho dato una possibilità a quegli uomini perché volevo che raccontassero al mondo cosa è successo quando mi hanno incrociato osando sfidarmi. Ora dormiamo un po’, ragazzi. Non sappiamo cosa ci riserverà il domani.» - Jacob Dutton (Harrison Ford)
Jack Dutton (Darren Mann): - “Calvin Coolidge ha fatto catturare due orsi grizzly in Messico liberandoli sul prato della Casa Bianca.” Perché li ha portati dal Messico? Può prendere tutti i grizzly che vuole proprio qui!
Jacob Dutton: - Di tutte le cose disturbanti in quel titolo, da dove vengono gli orsi è l’unica cosa che ti colpisce?
Jack Dutton: - Sto dicendo che è molta strada da fare per un grizzly.
Jacob Dutton: - Non ti dà fastidio che li abbia lasciati liberi nel prato di fronte alla Casa Bianca?
Cara Dutton (Helen Mirren): - Non vorrei essere l’uomo che deve rimetterli nuovamente nella loro gabbia.
Jack Dutton: - “Disoccupazione ai minimi storici, scesa al 2,4 per cento.” Dove?
Jacob Dutton: - Non qui.
Jack Dutton: - “Nuova commissione formata a Washington per regolamentare l'attività mineraria. Il CEO di Anaconda Copper Mines è stato nominato presidente.”
- Jacob dutton: - Whitfield.
Jack Dutton: - “Donald Whitfield, amministratore delegato di Westfield Silver Mining, vicepresidente…” Hanno messo i boss delle compagnie minerarie a capo della commissione incaricata di regolamentare le miniere?
Jacob Dutton: - Questo dovrebbe dirti tutto quello che devi sapere sulla politica, figliolo.
Jack Dutton: - Tu sei in politica.
Jacob Dutton: - Io sono nelle forze dell'ordine.
Jack Dutton: - Tu applichi le leggi che loro fanno passare.
Cara dutton: - Jack…
Jack Dutton: - Non mi sto lamentando, dico solo che è la stessa cosa. Tu sei un allevatore incaricato di regolamentare il bestiame. Sbaglio?
Jacob Dutton: - C’è questa teoria che questi scienziati hanno elaborato dopo aver studiato le tribù in India, in Africa e in Sudamerica. Le tribù più piccole non hanno alcun governo. Non ne hanno bisogno. Possono sedersi e parlare dei loro problemi, decidere dove piantare i raccolti, cacciare. Sono solo una grande famiglia, davvero. Ma quando il numero delle persone sale a circa cinquecento, se non c’è un governo, le persone più forti approfittano dei più deboli. Ogni volta. Senza eccezione. Schiavizzano, violentano, depredano. Arricchire la propria vita a scapito della vita di altre persone. Il governo è il modo che hanno inventato gli uomini per provare a controllare il nostro comportamento. Ma non può essere controllato, è quello che siamo. Prima o poi, il tipo di persone che farebbe queste cose, arricchirsi a tue spese, userà il governo per farlo. E segnati le mie parole: un giorno creeranno delle leggi per controllare ciò che diciamo, come pensiamo. Metteranno fuori legge il nostro diritto di non essere d’accordo, se glielo permettiamo. Ho creato la commissione per proteggere il modo in cui questa famiglia provvede a sé stessa, il modo in cui preserva la terra. {♦}
Jack Dutton: - Whitfield non sta facendo la stessa cosa?
Jacob Dutton: - La stessa identica cosa. Purtroppo per lui, ciò che va bene per il suo stile di vita non va bene per il nostro.
Jack Dutton: - E che dire a proposito di cosa è giusto e sbagliato?
Jacob Dutton: - Niente. Non posso pensare in questo modo. Si può solo pensare a ciò che è meglio per questo ranch. Ciò che è buono per la tua famiglia. E questo è tutto. Quindi usa le loro regole per farlo.
Cara Dutton: - Un orso alla Casa Bianca! Di tutte le cose che accadono nel mondo ogni giorno, perché sarebbero queste le notizie da dare? “Cosa non ti stanno dicendo?”, questa è la domanda. Questa non è una notizia, Jack. Questo è camuffamento. Noi non parliamo di politica a tavola! Se sai cos’è bene per te, allora te lo ricorderai.
Jack Dutton: - Come siamo finiti entrambi nei guai?
Jacob Dutton: - Banner in carcere non risolve nulla. Questa lotta non è finita, è appena iniziata. Lei non è arrabbiata: è spaventata.
Donald Whitfield (Timothy Dalton): - [Sterminare il clan dei Dutton] È davvero quello che vuoi?
Banner Creighton: - Puoi scommetterci ch’è quello che voglio, cazzo.
- Non preferiresti essere ricco?
- Sono già ricco.
- Hai dei soldi. Questo non ti rende ricco. Lo Yellowstone ti renderà ricco. La vera ricchezza è generazionale. Io non riuscirei mai spendere tutti i soldi che ho guadagnato. E quello che sto facendo ora garantirà il fatto che neanche i miei pronipoti possano. Se ci pensi, la ricchezza generazionale è la cosa più vicina all'immortalità che un uomo potrà mai avere. Quando su un edificio c’è il tuo nome, quella è l’immortalità. {♦} E non la ottieni dalla prigione. Se chiedi a una gang di attaccare la sua casa, la prigione è dove ti manderanno. La vendetta non ti farà mai guadagnare. Devi fissare un obiettivo, quindi formulare un piano per raggiungerlo. E poi eseguirlo senza pietà. L’emozione dei sentimenti alimenta ogni decisione presa da Dutton. Lui ama la sua terra. La ama. E noi gliela prenderemo. Non avrai bisogno di una pistola, Banner. Possiamo ucciderlo con questa. [Mostra una penna stilografica.]
Completano il cast Brandon Sklenar (Spencer Dutton: cacciatore bianco, cuore nero), Aminah Nieves (Teonna Rainwater: un altro inizio di genealogia leggendaria), James Badge Dale (John Dutton, Sr.), Brian Geraghty, Michelle Randolph, Michael Greyeyes, Marley Shelton, Robert Patrick, Jennifer Ehle, Sebastian Roché, Bruce Davison, Currie Graham e le comparsate marinaresche di Joseph Mawle e Peter Stormare.
Taylor Sheridan scrive interamente da sé questa prima stagione (delle due previste in totale), mentre le regìe sono affidate a Ben Richardson (1-4 e 7-8), che con altri cura anche la fotografia, e Guy Ferland (5-6).
Musiche di Brian Tyler e Breton Vivian.
Poi, ecco che il testimone, in una qualche maniera, la più naturale del mondo, passa da Elsa ad Alexandra (una magnifica Julia Schlaepfer), che pone le fondamenta di carne per il futuro: “L’unica famiglia a cui sto pensando è quella che sto fondando.”
{♦} Intanto, sotto alla caldera estesa del supervulcano si accumula potenza nella camera magmatica in vista dell'appuntamento eruttivo fissato più o meno ogni 650.000 anni (ed è già in ritardo...).
- https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/2014GC005469
- https://www.vox.com/2014/9/5/6108169/yellowstone-supervolcano-eruption
* * * * (¼) - 8.25
La Tamburina - The Little Drummer Girl
- Serie TV
- Gran Bretagna
- 1 stagione 6 episodi
Titolo originale The Little Drummer Girl
Con Park Chan-wook, Florence Pugh, Gennady Fleyscher, Clare Holman, Daniel Litman
Tag Poliziesco, Storia corale, Crimini, Intrighi, Gran Bretagna, Anni duemiladieci
“Sono un’Attrice”, ovvero: Benvenuti sul Palcoscenico della Realtà.
Germania Ovest, 1979.
Ed è subito un profluvio di lampade Space Age da collezione.
“Credi di poter cambiare il mondo. Dimenticatelo. I tuoi amici inglesi lo hanno già fatto.”
Chan-wook Park all’eccellente regìa [in questi 6 episodi da poco meno di un’ora l’uno si respira aria - risonanza stilistica & formale - di “Bakjwi/Thirst”, “Stoker” e “Agassi” (in attesa di "Decision to Leave") piuttosto che (nell'unica accezione del termine: quella disgiuntiva) della Trilogia della Vendetta, con panoramiche a schiaffo A/R montate su carrello, zoomate lente & veloci, focali corte ad inserire i personaggi negli ambienti interni e medie ad integrarli nei paesaggi esterni] e Michael Lesslie & Claire Wilson (qui alla loro prima prova importante da “solisti in coppia”) alla calibratissima e stratificata sceneggiatura rispettano l’humor, la ferocia, lo spaesamento e l’overlook onnisciente in sottrazione, oltre a una certa “compassione” per l'umano, di John le Carré, qui produttore esecutivo (insomma: ha partecipato alla realizzazione e non l’ha ripudiata), che…
– già David John Moore Cornwell [1931-2020, al servizio di Her Majesty negli anni ‘50 e ‘60 per il Security Service (MI5) e il Secret Intelligence Service (MI6), 26 romanzi e qui in un cameo come cameriere], e di recente cittadinanza irlandese in protesta contro la Brexit (i politici e i cittadini inglesi, e sottolineo e ribadisco inglesi, non, generalmente, britannici, o, tipo, più specificatamente, che so, scozzesi) –
…se deve martellare israeliani o palestinesi (qual è il metodo migliore per ammazzare bambini senza indignare troppo l’opinione pubblica: far esplodere terroristiche bombe al plastico in centro città - per colpire studiose ebree che professano la pace - o lanciare sionistici missili contro casupole di pietra e lamiera - per colpire nel mucchio - con gli IAI Nesher S?) non ha alcun dubbio: dare addosso agl’inglesi.
- Charlie, tu hai qualche problema con gli ebrei? Eticamente, culturalmente, politicamente. Abbiamo un cattivo odore, o forse un modo sbagliato di stare a tavola?
- No! Ma che cosa stupida!
- Ah! Splendido! Quindi posso stare tranquillo che tu non ti butterai dalla finestra o vomiterai nel caso ti dicessi che noi siamo anche cittadini di Israele.
- Nell’eventualità ce l’avresti un secchio?
Il piacere e l’amore come “antidoti” alla morte: Charmian “Charlie” Ross fa il suo debutto nel Teatro del Reale.
- Io sono un’attrice
- Quindi non c’è niente in cui credi.
Florence Pugh, agl’inizi di carriera, non ancora ventiduenne (1996; the Falling, Lady Macbeth, Midsommar, Little Women, Don't Worry Darling, the Wonder, A Good Person, Oppenheimer, Dune: Part Two), rivaleggia per ponderata cazzimma con quel mostro di bravura ch’è Michael Shannon (1974; Bug, BoardWalk Empire, ShotGun Stories, “My Son, My Son, What Have Ye Done?”, Take Shelter, Mud, MidNight Special, Salt and Fire, the Shape of Water, Amsterdam, e da una dozzina d'anni nel radar di chi scrive) e con mica cotiche Alexander Skarsgård (1976; True Blood, Melancholia, War on EveryOne, the NorthMan, Infinity Pool). Con loro Simona Brown ("Kiss Me First"), Michael Moshonov, Jeff Wilbusch, Clare Holman, Kate Sumpter, Daniel Litman, Lubna Azabal, Charif Ghattas, Alessandro Piavani, Amir Khoury, Gennady Fleyscher, Alexander Beyer, Max Irons, Katharina Schüttler, Adel Bencherif, Mark Stanley, Ricki Hayut, Iben Akerlie, Bethany Muir e Charles Dance ("Game of Thrones").
Reparto tecnico-artistico in versione “meglio di sé” spronato e sfruttato al meglio dal regista: fotografia di Woo-hyung Kim, montaggio di Fiona DeSouza & Michael Harrowes e musiche di Jo Yeong-wook. Producono e distribuiscono BBC/AMC.
«...che cosa ci fa lei con noi e perché è stata trascinata qui in una maniera cosi tortuosa e così poco cerimoniosa. Glielo dico subito. La ragione, Charlie, è che vogliamo offrirle un lavoro. Un lavoro d'attrice.»
Aveva finalmente superato la tempesta e dal suo largo sorriso era chiaro che lo sapeva. La sua voce era divenuta lenta e ponderata, come se stesse annunciando numeri dei fortunati vincitori. «La parte più grossa che lei abbia mai avuto in vita sua, la più impegnativa, la più difficile, e certo la più pericolosa e la più importante. Io non faccio questione di soldi. Soldi può averne a profusione, non c’è problema, non ha che da dire una cifra.» Il suo grosso avambraccio spazzò via qualsiasi considerazione d’ordine finanziario. «La parte per cui abbiamo pensato a lei, Charlie, tiene conto di tutte le sue capacità umane e professionali. Del suo spirito. Della sua ottima memoria. Della sua intelligenza. Del suo coraggio. Ma anche di quella umanità cui alludevo poc’anzi. Del suo calore. Noi l’abbiamo scelta, Charlie. Le abbiamo affidato la parte. Abbiamo esaminato un campionario vastissimo, candidate di molti Paesi. Ma alla fine ci siamo fermati su di lei ed è per questo che lei è qui. Tra i suoi fan. Tutti quelli che sono in questa stanza l'hanno vista recitare e tutti l'ammirano. Perciò chiariamo subito in quale clima ci troviamo. Da parte nostra non c’è ostilità. C'è affetto, c'è ammirazione, c'è speranza. Ci ascolti. Come ha detto il suo amico Joseph, noi siamo brave persone, esattamente come lei. Noi la vogliamo. Abbiamo bisogno di lei. E fuori di qui c'è gente che avrà bisogno di lei ancor più di noi.»
John le Carré (David Cornwell) - “the Little Drummer Girl” - 1983 (traduzione di Ettore Capriolo, Mondadori, Omnibus, 1983).
Provini per la Fortezza Europa, con tappa in un campo profughi & d’addestramento palestinese e in un compound sionista da buen retiro prima di fare ritorno nel nido d’amore berlinese.
“Sono un’Attrice”, ovvero: Benvenuti sul Palcoscenico della Realtà.
Romantico, divertente, spietato, travolgente.
* * * * (¼) – 8.25
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Addenda. (Con una Porno-Mappa by @r/MapPorn.)
Tutti i popoli e le genti che il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (e le sue versioni precedenti, dalla Compagnia delle Indie al Commonwealth delle Nazioni) ha invaso, saccheggiato, occupato, depredato, colonizzato, sfruttato, vassallizzato, razziato, posseduto.
(Spoiler: si salvano, tipo, per lo più data l’assenza d'approdi, la Bolivia, il Paraguay e la Mongolia, e, per modo di dire, la Polonia, già affollata di Napoleoni "liberatori" e di Kaiser/Führer e Zar/Soviet sterminatori.)
Stuart Laycock - “All The Countries We’ve Ever Invaded: and the Few We Never Got Round To” - 2012
Nota.
Ad esempio... Il Regno d’Italia Fascista è stato invaso dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale (l’operazione Husky dello sbarco in Sicilia).
The Last of Us
- Serie TV
- Canada
- 1 stagione 9 episodi
Titolo originale The Last of Us
Con Pedro Pascal, Bella Ramsey, Gabriel Luna, Merle Dandridge, Anna Torv
Tag Drammatico, Duo, Esplorazione, Lotta per la sopravvivenza, USA, Futuro
In streaming su Now TV
vedi tutti
Persone come corpi fruttiferi.
Sarà capitato a molti di quelli che leggeranno queste righe d’incontrare, camminando in un campo d’erba alta, dei mummificati ortotteri (celiferi o ensiferi) stiliti morti aggrappati a uno stelo: ecco, le cavallette e i grilli non si suicidano (e non mettono in scena la loro versione di “Tremors”), non perché non conoscano il mal di vivere, ma semplicemente perché non sanno di esserlo, vivi, limitandosi a farlo, il vivere, e quello che li ha portati lassù, alla morte, avvinghiati con le zampe e uncinati con le mascelle a un fusticciolo di graminacea, denutriti e infine divorati dall’interno, è un fungo, lo zigomicete Entomophaga grylli (il binomio scientifico latino già dice tutto, mi pare), che deve spandere per il globo terracqueo le proprie spore.
Invece l’Ophiocordyceps unilateralis, tra gli altri, è un fungo ascomicete che parassita principalmente le formiche del genere Camponotus, e in particolare la specie leonardi (va da sé ch’esistono molte “coppie” formico-fungine, essendo i parassitoidi spesso specializzati nel colonizzare specifiche specie): una volta che le spore sono penetrate negli stigmi (le tubuliformi aperture - spiracoli tracheali - che collegano l’ambiente aereo esterno con la circolazione linfatica interna atta allo scambio ossigeno/anidride carbonica) dell’involontario e inconsapevole ospite iniziano a rilasciare degli enzimi che ne corrodono l’esoscheletro rendendolo terreno di coltura per le ife del micelio (apparato vegetativo fungino) che, crescendo all’interno del corpo dell’imenottero, dopo un paio di giorni ne prende il totale controllo a livello nervoso facendolo allontanare dalla colonia e indirizzandolo verso un luogo più umido adatto alla crescita e fruttificazione del micete obbligandolo ad ancorarsi sul posto serrando le mandibole s’una foglia o s’un picciolo e bloccandogliele permanentemente.
Ecco: l’Homo s. sapiens, carico del suo bagaglio di consapevolezza di sé, è un essere un po’ più intelligente di un ortottero (e forse pure di un imenottero), perciò se un qualche suo muffoso compagno di dominio eucariota dovesse mutare e compiere uno zoonotico salto di specie ospite (ma che dico di specie, di phylum), troverebbe un modo un po’ più complesso e ingegnoso per svilupparsi e propagarsi: l’omicidio in vece del suicidio, ad esempio.
Nota a margine. “The Last of Us” inizia esattamente come “TÁR”: certo, la chiaccherata/intervista/dibattito del pilot dura 3 minuti e non 15, ma il motivo (nel senso di tema) "interviste kubrickiane" (le parti dicumentarie infine espulse da "2001: a Space Odyssey") quello è (anche “the Newsroom”, in un certo qual senso/modo, principiava similarmente). E anche nell’episodio successivo vi è un prologo semi-doc., molto ben fatto (e cmq. se il vostro micologo di faiduscia viene prelevato a forza dal tavolo da pranzo dal Generale Figliuolo vi rimane una sola cosa da fare: correre).
- Ibu Ratna, l’abbiamo portata qui per aiutarci a contenere il contagio. Ci serve un vaccino, o un farmaco.
- Mi ascolti. Ho passato la vita a studiare e ad approfondire questo argomento. Quindi la prego di ascoltarmi attentamente. Non esistono farmaci. Non esistono vaccini.
- Allora che cosa ci consiglia di fare?
- Bombe. Iniziate a bombardare. Bombardate questa città, e tutti colori che ci abitano.
- … [Faccia basita: F4!] ...
- Mi scusi, qualcuno potrebbe portarmi a casa? Mi piacerebbe stare un po’ con la mia famiglia, prima che accada l’inevitabile.
Per quanto “impossibile” questa è fantascienza e non fantasy (nel videogioco originale della Naughty Dog il metodo di propagazione era differente: non legato ai morsi zombeschi bensì svolto attraverso “ondate di spore”, in stile “the Happening”, ma le maschere antigas sono molto poco fotogeniche), e la sospensione dell’incredulità interviene, per ragioni diverse, se non opposte, tanto nello spettatore più preparato quanto in quello meno accorto: ecco che allora sono piuttosto, anzi solo, gli analfabeti funzionali ad alzare le rachitiche braccine sventolando umidicce manine per piagnucolar frignando cose tipo “Ma non può succedeveh nella vealtàh!!”, quando il vero mistero risiede nel fatto che le Montagne Rocciose, lasciate senza controllo dopo il collasso della civiltà, in vent’anni hanno recuperato il terreno che le separava dalla Costa Atlantica attraversando incolumi le Grandi Pianure e giungendo alle porte di Boston (consoliamoci: i cinematografari statunitensi non hanno problemi con la verosimiglianza geografica quando si tratta di location esterne ai loro confini, europee eccetera, ma pure con le loro non scherzano affatto).
- Il modo di vivere a Jackson era come quello di un tempo?
- No, il nostro era un Paese troppo grande. All’epoca c’erano due modi di vedere le cose: certa gente voleva possedere tutto…
- Hm-hm.
- …mentre altri volevano che nessuno possedesse niente.
- Tu da che parte stavi?
- Nessuna. Lavoravo e basta.
Creata da Craig Mazin (“Chernobyl”) e Neil Druckmann (“Uncharted”, e autore della serie di single/multi-player game per PlayStation stessa), che la scrivono per intero (entrambi il pilot di 75’ e il final season di 40’, poi Druckmann il 7° ep. e Mazin i restanti 6, che variano dai 40’ ai 70’) e parzialmente la dirigono [Mazin il pilot e Druckmann il 2° ep, poi Peter Hoar (“It’s a Sin”) il 3°, Jeremy Webb (“Master of Sex”) il 4° e il 5°, Jasmila Žbanic (“Quo Vadis, Aida?”) il 6°, Liza Johnson (“Physical”) il 7° e Ali Abbasi (“Shelley”, “Border”, “Holy Spider”) l’8° - in cui Ellie becomes Fire - e il final season], “the Last of Us” è un prodotto che alza l’asticella HBO, vale a dire dell’intero mondo seriale: accanto a “Game of Thrones”/“House of the Dragon”, “Band of Brothes”/“the Pacific” e “WestWorld” (più “Stranger Things” x Netflix e “the Lord of the Rings: the Rings of Power” x Amazon), il rapporto qualità/prezzo è da podio.
Bella Ramsey è eccezionale (lo si capiva benissimo sin dai tempi di Lyanna Mormont in “Game of Thrones”, e poi la recente conferma di “Catherine Called Birdy” ha chiuso la storia), Pedro Pascal non le è da meno (dopo la morte inusitata di Oberyn Martell in “Game of Thrones” ogni ruolo è una “rivincita”: da “Narcos” a “the Mandalorian”, passando per “Prospect”, in cui interpreta un ruolo “simile”) e il resto del cast composto da Nick Offerman & Murray Bartlett (protagonisti di un episodio, il 3°, che qualche mentecatto ha definito "riempitivo" - facile dirlo con la capoccia che contiene aria viziata al posto di un cervello - quando invece rappresenta un passaggio fondamentale e portante della narrazione), Gabriel Luna, Nico Parker, Anna Torv, Merle Dandridge, Melanie Lynskey, Storm Reid, Lamar Johnson, Scott Shepherd, Ashley Johnson, Troy Baker, Christine Hakim, John Hannah, Graham Green, Elaine Miles (“Northern Exposure”) eccetera compone un affresco all’altezza del caso. Musiche di Gustavo Santaolalla.
PS. Persone come corpi fruttiferi (e dintorni), ovvero: funghi (e funghetti) recenti: "Monster", "Whitout Name", "Annihilation", "Gaia"...
- What are you doing?
- Killing time.
* * * ¾ (****¼)
City on a Hill
- Serie TV
- USA
- 3 stagioni 26 episodi
Titolo originale City on a Hill
Con Chuck MacLean, Kevin Bacon, Aldis Hodge, Jonathan Tucker, Mark O'Brien
Tag Poliziesco, Storia corale, Crimini, Storia americana, Boston, Anni '90
“Ricordatelo bene: Boston è un errore. La MayFlower non doveva approdare alla cazzo di roccia di Plymouth: erano diretti in Virginia e si sono persi. Boston esiste solamente grazie al pessimo senso dell’orientamento di qualcuno.” - Jackie Rohr (Kevin Bacon) allo spettatore.
“Ho mirato al cuore del pubblico, e per caso l’ho colpito allo stomaco. [Mi sono reso conto con amarezza che ero stato trasformato in una celebrità, non perché il pubblico si prendesse cura dei lavoratori, ma semplicemente perché il pubblico non voleva mangiare più carne tubercolare.]” - Upton Sinclair su Cosmopolitan dell’Ottobre 1906 a proposito di “the Jungle” (1906).
La terza e per cause di forza maggiore ultima stagione (in soldoni: Paramount/Showtime hanno chiuso i rubinetti che, comunque, occorre esser chiari, erano ben dotati di rompigetto anti-spreco, eppure: Puppa!) di “City on a Hill”, creata da Chuck MacLean, prodotta esecutivamente da Barry Levinson, Tom Fontana, Jennifer Todd, Matt Damon, Ben Affleck e James Mangold, interpretata da Kevin Bacon (maestoso), Aldis Hodge (appropriato), Jill Hennessy (nel ruolo della vita), Lauren E. Banks (volonterosa), Matthew Del Negro (jonbernthaliano) e John Doman (mefistofelico magistrato/politico), con le guest star d’annata Corbin Bensen (il Minosse dei miti attici) e Joanne Kelly (dark lady), ruota attorno a due epicentri – il Big Dig, il megaprogetto viario dell’area metropolitana di Boston il cui cantiere di, per l’appunto, scavo aprì nel 1982, mentre la costruzione effettiva durò dal 1991 al 2007 (ora siamo a metà anni ‘90, e tanto per cambiare fioccano i morti sul lavoro), con apertura parziale al traffico per alcuni tratti dal 2003, e la magione dell’ex capo di Jackie Rohr (Bacon) all’FBI, Sinclair Dryden (Bensen), che la divide con la moglie (Kelly) e la figlia (Caroline Willman) e soprattutto è il fulcro di un via vai di studentesse universitarie drogate dalle proprietà sedativo-ipnotiche del Quaalude (metaqualone) con i suoi atomi di carbonio, idrogeno, azoto e ossigeno formanti 4 esagoni e un piripacchio, mentre si continua a perdura col tentativo di porre le basi per il miracolo bostoniano dell’Operazione Cessate il Fuoco – e sfinisce terminando in una camera d’ospedale in attesa che l’orco si riprenda dal suo codardo tentato suicidio così da poterlo vedere processato e condannato: un’operazione à la “DeadWood” per portare a termine la narrazione con una degna chiusura sarebbe doverosa.
Le regìe degli 8 episodi sono affidate in maniera compatta - nell’ordine, un paio per ognuno - a Christoph Schrewe, Marshall Tyler, Hagar Ben-Asher e Ed Bianchi, mentre gli sceneggiatori sono uno diverso a puntata, con a capo Jorge Zamacona (“Homicide: Life on the Street”), e poi J.M. Holmes, Emily Ragsdale, Tamara P. Carter, Haley Cameron, Regina Porter, Chris Andrien e Matthew Nemeth. Fotografia di Mauricio Rubinstein e musiche di Kevin Kiner. Playlist con, tra gli altri, Louis Armstrong & His Sebastian New Cotton Club Orchestra ("I'm a Ding Dong Daddy"), Otis Redding ("Try a Little Tenderness") e the Allman Brothers Band ("Whipping Post").
«“Lo scopo della donna è procreare, e quello dell'uomo è forzarla a farlo.” Chi l'ha detto? Io. Sfortunatamente.» - Jackie Rohr
- Non per cantar vittoria, ma… pensi che Sinclair sapesse che sarebbe stato beccato?
- È un vero mostro. I mostri non pensano alle conseguenze.
- Hm, vero, ma… viene da chiederselo: perché assumere te?
Chris Caysen (Matthew Del Negro) a Jackie Rohr
“Hai mai sentito il nome di Sam Hose?” - DeCourcy Ward (Aldis Hodge) a Chris Caysen
“I aimed at the public's heart, and by accident I hit it in the stomach.”
Qui il “pubblico” non riceve un tornaconto personale dalla sicurezza sul lavoro: è uno spicchio di come il mondo può essere portato avanti (“Perché a me?”, “Perché Dio?” e “Che c’è per colazione?”) dalle brave persone.
- Stag. 1 (2019, 10 ep.) - * * * * (¼)
- Stag, 2 (2021, 8 ep.) - * * * *
- Stag. 3 (2022, 8 ep.) - * * * *
Il pataffio
- Commedia
- Italia
- durata 117'
Regia di Francesco Lagi
Con Lino Musella, Giorgio Tirabassi, Viviana Cangiano, Alessandro Gassmann
Quando avevamo fame.
Per volere (grazia e benevolenza) del Serenissimo Rege di Monte Cacchione ecco che il Preclaro Berlocchio di Cagalanza, accasatosi in giocondissime nozze con Donna Bernarda e accolto dai villani capeggiati da Migone di Scaracchio, prende titolo di Marconte e possesso del Feudo con relativo Castello di Tripalle divenendone Signore.
Francesco Lagi, classe 1977, regista e sceneggiatore ubiquo ai generi (il segmento “Balondòr” del film collettivo “4-4-2 – il Gioco Più Bello del Mondo”, la dramedy “Missione di Pace”, il documentario “Zigulì”, la serie skammica “Summertime” e il teatro filmato - locuzione da intendersi in senso neutro - di “Quasi Natale”), scrive (traendola dall’omonimo romanzo del 1978 di Luigi Malerba, vero cognome Bonardi, parmigiano in orbita Gruppo 63, classe 1927), con qualche inciampo attutito da recitazione e atmosfera, e dirige la sua opera più riuscita, che tanto poco c’entra con la mitopoiesi de “l’Armata Brancaleone” (1966; Monicelli, Age & Scarpelli, Gassman, Volonté, Pisacane, Salerno), e/ma più col canone tracciato da "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" [dal medioevo al rinascimento/barocco (Giulio Cesare Croce e Adriano Banchieri), da G.Simonelli e M.Amendola & R.Maccari a Monicelli, Benvenuti, Cecchi D'Amico, De Bernardi & Tognazzi, Sordi, Nichetti, Arena] quanto poco c’entra col recente dittico dumasiano di Veronesi, situandosi a mezzavia di forma/stile e contenuto/sostanza (ché intanto in tutti questi frangenti di frattempo è cambiato il mondo, rimanendo l'istesso).
Lino Musella (“Gomorra - la Serie”, “Liberi Tutti”, “Favolacce”, “Qui Rido Io”, “È Stata la Mano di Dio”, “l’Ombra del Giorno”, “Princess”) è – proprio nel senso superlativo del termine – fenomenale.
E attorno a lui, altrettanto straordinari, si muovono e ruotano l’antagonista positivo in classicheggiante naturalezza di Valerio Mastandrea (Migone, il Rivoluzionario), quella maschera assoluta di Giorgio Tirabassi (BelCapo), che fa ridere in un modo tutto suo, peculiare, preciso (un sempiterno Glauco Benetti, uber alles, ad maiora e pánta rheî), un meravigliosamente “abbruttito” (in zona Salvatore / Ron Perlman de “il Nome della Rosa”) Alessandro Gassmann (Frato Capuccio), nelle vesti di un fratacchione buono per ogni occasione e per tutte le stagioni, la figlia (e il padre) e la sposa (che porta seco una deriva cannibalica scampata per un pelo/soffio) Viviana Cangiano (molto brava, e anche lei in orbita Martone/Sorrentino).
E poi Vincenzo Nemolato & Giovanni Ludeno (gli armigeri capintesta Ulfredo e Manfredo), Pina Di Gennaro (la moglie di Migone), Daria Deflorian (la Vecchia del Castellazzo Rebello), Emilio De Marchi (la Guardia del Castellazzo Rebello), Martinus Tocchi (Baldassarre)…
Senza scordarsi di Balthazar, EO (Ih-Oh) e di tutti gli altri (per i non somari) Equus africanus asinus.
Girato nel pietrame cespugliato del frusinate (con uno sconfinamento nell’aquilano), fotografato da Diego Romero (sodale collaboratore di Roberto Minervini: “Low Tide”, “Stop the Pounding Heart”, “Louisiana (the Other Side)”, “What You Gonna Do When the World’s on Fire?”), montato da Stefano Cravero (sodale collaboratore di Susanna Nicchiarelli: “Cosmonauta”, “la Scoperta dell’Alba”, “Nico,1988”, “Miss Marx”, “Chiara”), scenografato da Daniele Frabetti, costumato da Mariano Tufano, musicato da Stefano Bollani (le parole di "Culi Culagni" e del "Salmo di San Ghirigoro" sono tratte direttamente dal romanzo di Luigi Malerba), prodotto da Colorado, Rai Cinema e Vivo Film con fondi regionali, statali e continentali (e manco du’ spicci pe’ ‘no ponte levatoio ce stavano?!) e distribuito da 01, principia in medias res e termina in corsa, verso – per dirla con Gadda – la realtà sistematrice (che in tutta evidenza gli era già ben passata e ripassata sopra, coi suoi tempi d’inopinata inesorabilità, sin dall’inizio del film, come un rullo compressore che ne decreta la fine in farsi) ed il proprio (passo dopo passo: greco, latino, romanzo/volgare) epitáphios → epitaphius → epitaphium → epitaffio.
E sì, alla fame non v’è mai fine, ma per il momento, “Cut!”, il nostro spataffiaccoso Pataffio, il nostro tronfio Sborone, il nostro pomposo Ganassa, il nostro molesto Bauscia, insomma, il Pirla, corre.
“Scusate… Ho magnato.”
* * * ¾ (****) - 7.75
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Neri uccellacci volano bassi, fanno larghi giri sopra al corteo militare come se sentissero odore di carogna. I soldati oppressi dalla fiacca e dal caldo fanno un passo avanti e due di traverso, ma il corteo va avanti lo stesso, non si sa come, si snoda lento come un serpentone nella piana fra i campi di granturchetto e le vigne alberate e le piantate di ulivo. Cavalli e cavalieri e pedoni e carri sono imbiancati di polvere fina, così che si confondono con il bianco della strada e scompariscono quasi alla vista. La campagna intorno pare spopolata come per passaggio di pestilenza o altra calamità e invece sono gli uomini armati, spavento della terra, che allontanano le genti anche quando malamente si reggono sulle gambe per la fiacca del viaggio.
Il cielo è annuvolato a tratti da turbe di moscherini molestissimi che si buttano a succhiare gli occhi ai cavalli e ai soldati, già mezzo cecati per la polvere. È per via di questo cecamento generale da polvere e da moscherini che il corteo del marconte Berlocchio de Cagalanza si è sperso nella piana del Tevere. A questa ora, che sarebbe la terza dopo mezzodì, ancora non è arrivato alla vista del castello di Tripalle de cuius Berlocchio deve prendere possessione come bene dotale avuto da Bernarda, dilettissima figlia del re di Montecacchione. Dentro la carrozza con la corona inargentata dipinta sugli sportelli, stanno per l’appunto Berlocchio e Bernarda rinserrati, oppresso Berlocchio dal ponderoso volume della consorte strabordante e anfanante per la calura. Davanti alla carrozza marciano a passo sghembo i soldatagli intitolati per l’occasione del corteo nuziale trombetti, tamburini, vessilliferi, sbandieratori, balestrieri, alabardieri, roncolieri, valletti e scudieri pur senza avere dotazione di trombe tamburi vessilli bandiere balestre alabarde roncole e altri arnesi da corteo, ma i tutti sbiancati e uguagliati nella polvere.
Insieme a Bernarda per moglie e al feudo di Tripalle, Berlocchio ha avuto dal re di Montecacchione il titolo di marconte che sarebbe come dire una via di mezzo fra marchese e conte. Questo titolo è legato al feudo e castello medesimo, che però non si riesce a trovare essendo il corteo sperso nella piana del Tevere senza sapere dove e donde.
Come la strada si sbiforca a dritta e a manca e il castello di Tripalle ancora non si vede, i due armigeri capintesta Ulfredo e Manfredo si fermano e di conseguenza si ferma tutto il corteo compresa la carrozza del marconte Berlocchio e della onoratissima consorte.
Dice Ulfredo:
«Se svolta dellà?»
Risponde Manfredo:
«Io svoltarei deqquà».
«Deqquà se retrova il fiume».
«Il fiume se retrova dellà».
«Allora se decida su paro e disparo».
«Paro!»
«Disparo!»
Ulfredo e Manfredo tirano giù le mani, ma i diti non si piegano dentro i guantoni di ferro e non si possono contare il paro e il disparo.
Luigi Malerba - “il Pataffio” - 1978 (Quodlibet, 2015)
Earwig
- Drammatico
- Gran Bretagna, Francia, Belgio
- durata 114'
Titolo originale Earwig
Regia di Lucile Hadzihalilovic
Con Paul Hilton, Romane Hemelaers, Romola Garai, Alex Lawther, Peter Van den Begin
In streaming su Amazon Prime Video
vedi tutti
L'évolution de la bouche innocente de Mia.
Dopo il mediometraggio “La Bouche de Jean-Pierre” (1996) e i lunghi “Innocence” (2004; dal “Mine-Haha, ovvero: dell’Educazione Fisica delle Fanciulle” di Frank Wedekind) ed “Évolution” (2015), tutti costruiti dal punto di vista dei pre-adolescenti ed inframmezzati dai corti “Good Boys Use Condoms”, “Nectar” e “De Natura”, abbraccianti una soggettiva più adulta, questo “Earwig” (2021), girato in lingua inglese ambientandolo a cavallo tra gli anni ‘50 e i ‘60 del secolo XX sfruttando i paesaggi e il tax-credit del Belgio, specificamente le brume vallone (la crepuscolare fotografia melanconicamente magnifica - indimenticabile il viaggio in treno ripreso con la macchina da presa montata sulla prua della locomotrice - è di Jonathan Ricquebourg: “La Mort de Louis XIV”) della provincia dell’Hainaut, e specialmente utilizzando come climatica location principale (scenografie della vandormaeliana Julia Irribarria) la severa e razionalista mole art nouveau / liberty modernista del Château Empain nel parco del comune di Enghien, e sceneggiato come sempre dalla stessa regista Lucile Hadzihalilovic (1961), compagna di vita e di lavoro di Gasper Noé, qui rinnovando la collaborazione con Geoff Cox, già al lavoro proprio per “Évolution” e poi su “High Life” e “the Owners”, traendo lo script dall’omonimo romanzo del 2019 di Brian Catling, l’autore della Vorrh Trilogy, assume soprattutto la prospettiva e l’angolazione dello stokeriano succubo R. M. Renfield, qui nominato Albert Scellinc (con la prima “c” dura), diviso fra il ricordo dell’amore per la moglie (Anastasia Robin) e la gestione dello “scontro collaterale” con Céleste (Romola Garai: “Scoop”, “Angel”, “Miss Marx”), a sua volta sposa promessa a e in fuga da Laurence (Alex Lawther: “the End of the Fucking World”, “the French Dispatch”, “the Last Duel”), eterodiretto telefonicamente e per vie traverse tramite soldataglia (Peter Van den Begin) dal padronale datore di lavoro e impersonato repulsivamente dal bravo attore teatrale e televisivo Paul Hilton (“Lady Macbeth”), e questa è la sua versione della storia: dalla mitopoiesi generata da Stoker, Polidori e Le Fanu sino alle variazioni sul tema di Anne Rice, qui siamo più in zona herzoghiana, con echi (greenaway-vontrieriani) di “Trouble Every Day” della stessa Claire Denis e di “Dans Ma Peau” di Marina de Van, piuttosto che in quelle Murnau/Dreyer, Universal/Hammer (Browning & Freund e Siodmak / Fisher, Francis e Baker), Morrissey-Warhol o Badham/Coppola/Jordan, con un pensiero al “franchise” di “Lascia Entrare la Persona Giusta” (Låt den Rätte Komma In”), dal romanzo di John Ajvide Lindqvist alla sua trasposizione per la regìa di Thomas Alfredson, passando per il remake hollywoodiano e la serie di Hinderaker: mentre le dermattere forbicine (Forficula aurucularia) continuano a diuturnamente brulicare tra gli stipiti [una menzione a parte la merita il sound design invasivo (nel male) e disturbante (nel bene) di Ken Yasumoto e Bruno Schweisguth, e parimenti le “pinkfloydiane” - nel senso di More, Meddle e Obscured by Clouds - musiche seducenti di Augustin Viard e Warren Ellis] la ragazzina dai denti tenuti a bada dalle protesi ortodontiche (l’armatura di acciaio e le ampolle di cristallo sono opera di Nicholas Becker) manufatte con la propria distillata saliva ghiacciata (una pre/ur-evoluzione degli allineatori in polimeri trasparenti odierni) in viaggio ferroviario (montaggio di Adam Finch, al lavoro con Hadzihalilovic già per “Innocence”) verso il compimento del proprio destino (l’esordiente Romane Hemelaers) liscia il pelo al gatto spulciandolo (grooming, in senso etologico) e nutrendosi degli pterigoti panorpidi sifonatteri parassiti ematofagi (altri artropodi: “Spider” di Cronenberg/McGrath) che pesca nella felina pelliccia: l’évolution de la bouche innocente de Mia.
Sciame
- Serie TV
- USA
- 1 stagione 7 episodi
Titolo originale Swarm
Con Janine Nabers, Donald Glover, Dominique Fishback, Chloe Bailey, Damson Idris
Tag Horror, Femminile, Spettacolo, Società, USA, Anni duemiladieci
In streaming su Rai Play
Andrea Goes Est-Nord-Ovest-Sud.
“Swarm” = “Vox Lux” (idolatria e dintorni) & “Ingrid Goes West” (lo sciame) + “Poker Face” (lo sviluppo verticale dei singoli episodi on the road) + “I May Destroy You” (la junkie-addiction verso i social media/network) + “Harry: Portrait of a Serial Killer” & “C'est Arrivé Près de Chez Vous”.
“Nigger… Twitter?!”
Creata da Donald Glover (“Atlanta”, “Guava Island” - con Rihanna, mentre qui una figura simile, riconducibile però verso un tipo à la Beyoncé e sviluppata per la maggior parte del tempo fuori campo, è la destinataria dell’ossessione della protagonista - e qui regista del 1° ep.) e dalla drammaturga & commediografa Janine Nabers, che la showrunnerizza e ne scrive la maggior parte degli episodi assieme a Stephen Glover (fratello minore di Donald e anche regista del 6° ep., un, ebbene sì, in stile «Cartello Iniziale di “Fargo”», fiction-non-fiction mockumentary...
“This is not a work of fiction. Any similarity to actual persons, living or dead, or actual events, is intentional.”
(“Questa non è un'opera di fantasia. Qualunque somiglianza con persone reali, vive o morte, o eventi reali, è intenzionale.”)
...unreal-true crime d’autofiction - i singoli casi di cronaca sono realmente avvenuti, qui trasfigurati, ma non esiste alcun serial killer, solamente un serial author - fotografato da Gabriel Patay), Ibra Ake (anche regista del 4° e del 5° ep., mentre Adamma Ebo dirige i restanti 3 dei 7 totali), Jamal Olori, Kara Brown, Malia Ann (Obama) e Karen Joseph Adcock, questa “Swarm” avvince e convince (nonostante il fatto che, dopo il primo, assolutamente inaspettato, gli altri colpi di scena seguenti a cascata relativi a chi uccide chi, e come, sono un po’ scontati e prevedibili, tranne però l’ultimo, quando oramai lo spettatore poteva anche sperare in una “guarigione”) grazie soprattutto alla magistrale prova d’attore della protagonista Dominique Fishback (“Show Me a Hero”, “the Deuce”, “Judas and the Black Messiah”, “the Last Days of Ptolemy Grey”).
Da rimarcare, nel cast di contorno: Chloe Bailey (sorella maggiore della Halle nuova Sirenetta live action per il pesantissimo Rob Marshall), Billie Eilish (qui al suo sorprendente - in senso non buono: ottimo - esordio assoluto, se proprio non vogliamo contare “The Simpsons: When Billie Met Lisa”), Kate Lyn Sheil (AutoErotic, Gabi on the Roof in July, the Zone, Silver Bullets, Green, the Color Wheel, Sun Don’t Shine, Listen Up Philip, Queen of Earth, Buster's Mal Heart, Golden Exits, She Dies Tomorrow, Kendra and Beth), Kiersey Clemons (SweetHeart, AnteBellum, Am I Ok?, SomeBody I Used to Know), Paris Jackson, Damson Idris e poi Rory Culkin che porta e ci mette le fragole.
Fotografia di Drew Daniels (“Krisha”, “It Comes At Night”, “Outer Range”), musiche di Michael Uzowuru (“Guava Island”). Co-produce e distribuisce Amazon.
“Black women falling through the cracks.”
(“Donne nere che passano inosservate.” → Donne nere che si perdono tra le pieghe della storia.)
* * * ¾ - * * * * ¼
Maniac
- Serie TV
- USA
- 1 stagione 10 episodi
Titolo originale Maniac (2018)
Con Emma Stone, Jonah Hill, Sonoya Mizuno, Billy Magnussen, Julia Garner
Tag Fantascienza, Duo, Realtà distorta, Dark comedy, New York, Futuro
In streaming su Netflix
vedi tutti
Scardinare e/o cavalcare i meccanismi di difesa.
Patrick Somerville, già romanziere e cresciuto cinematograficamente nella scuderia di “the Leftovers”, e che in seguito creerà “Made for Love”, da Alissa Nutting, e “Station Eleven”, da Emily St. John Mandel, viene qui chiamato…
– con regista, Cary Joji Fukunaga (“Sin Nombre”, “True Detective”), e cast principale, Jonah Hill (“SuperBad”, “Cyrus”, “This Is the End”, “the Wolf of Wall Street”, “Hail, Caesar!”, “War Dogs”, “Mid90s”, “the Beach Bum”, “Don’t Look Up”) ed Emma Stone (“SuperBad”, “Magic in the MoonLight”, “BirdMan”, “Irrational Man”, “the Favourite”, “Poor Things”, “AND”, “the Curse”), già scritturati da Netflix –
…a showrunnerizzare, traendone lo spunto dall’omonima serie norvegese, il “remake” U.S.A. della “Maniac” di Espen PA Lervaag, e il risultato è un mash-up d’ambientazione distopica (la malefica invenzione degli AD Buddy non è mica male) compreso, un po’ per il contenuto ("2001: a Space Odyssey"), un po’ per lo stile (parzialmente retrofuturistico, collocabile in una zona "near-present"), tra i precedenti “Eternal SunShine of the SpotLess Mind” (Gondry/Kaufman, 2004), “Black Mirror” (Brooker, 2011), “Alpeis” (Lanthimos, 2011), “Utopia” (Kelly, 2013), “Her” (Jonze, 2013) e “the Lobster” (Lanthimos, 2015), la coeva “Legion” (Hawley, 2017) ed i successivi “DEVS” (Garland, 2020), di cui “Maniac” può essere considerata la versione surreale (il che è tutto dire), “Palm Springs” (Barbakow/Siara, 2020), “Severance” (Erickson, 2022), “the Resort” (Siara, 2022), “Hello Tomorrow!” (Bhalla/Jansen, 2023) e “Poor Things” (Lanthimos, 2023), mentre le citazioni di genere - “Infernal Affairs”/”the Departed” + “We Own the Night” ok, ma per il franchise di “the Lord of the Rings” mancavano (gl)i (s)piccioli - quello sono, e basta, che riesce a mantenere una propria forte identità grazie alla scrittura, alla regia e alle interpretazioni, su tutte quelle dei due magnifici protagonisti (se forse Hill - qui trasformatosi in una via di mezzo tra Ninni Bruschetta alias Duccio Patanè e Michele Di Mauro aka Gianluigi Maria Tassone - batte Stone allora lo fa d’un nonnulla e d’un soffio), e, a seguire: Sonoya Mizuno (“Ex Machina”, “Annihilation”, “DEVS”, “Am I OK?”, “House of the Dragon”, “Civil War”), Justin Theroux (“Mulholland Drive”, “Miami Vice”, “Inland Empire”, “the Leftovers”, “the Mosquito Coast”), Sally Field (“Norma Rae”, “Places in the Heart”, “Brothers & Sisters”, “Lincoln”), Gabriel Byrne (“Excalibur”, “Miller’s Crossing”, “Dead Man”, “Hereditary”), Trudie Styler (della Moglie-di-Sting mi piace ricordare “Mamba” di Mario Orfini, regista del “Jackpot” di Celentano e padre di Matteo, già presidente e segretario ad interim del PD, così, toh, a proposito di mash-up. sei gradi di separazione tra Walter Veltroni e l’Armageddon), Julia Garner (“Everything Beautiful Is Far Away”, “Ozark”, “Waco”), Billy Magnussen (“Ingrid Goes West”, “Made for Love”), Jemima Kirke (“Girls”, “the Little Hours”), Grace Van Patten (“the Meyerowitz Stories”, “MayDay”) e - a sorpresa - Hank Azaria (“the Simpsons”, “Huff”, “Ray Donovan”, “Hello Tomorrow!”), più il cameo di Ben Sinclair (“High Maintenance”, “the Resort”, “Spin Me Round”).
Fotografia di Darren Lew, montaggio di Pete Beaudreau e Tim Streeto, musiche di Dan Romer, scenografie di Alex DiGerlando e casting di Avy Kaufman.
Associazioni d’idee, immagini, suoni, odori: accettare le collisioni, favorire le connessioni, scardinare e/o cavalcare i meccanismi di difesa: elaborare il lutto per (non) dimenticare e/o poter stare di nuovo con loro (in)definitivamente: no che non poteva funzionare, ma forse ha funzionato nella maniera in cui può funzionare un incontro durante un’avventura.
* * * ¾ (****) - 7.75
Astolfo
- Commedia
- Italia, Francia
- durata 97'
Regia di Gianni Di Gregorio
Con Gianni Di Gregorio, Stefania Sandrelli, Alfonso Santagata, Alberto Testone
In streaming su Rai Play
vedi tutti
"Il preeete!"
Probabilmente “Astolfo” è il film più “fantasy”-naïf (“Gianni e le Donne”, “Buoni a Nulla”) e al contempo maggiormente iperrealistico (“Pranzo di Ferragosto”, “Lontano Lontano”) di Gianni Di Gregorio, che qui, oltre a dirigerlo e interpretarlo, lo scrive, come per il precedente, con Marco Pettenello (sodale collaboratore di Carlo Mazzacurati, dal 2000, e Andrea Segre, dal 2010, e poi “il Comandante e la Cicogna”, “Zoran, il Mio Nipote Scemo”, e, con Antonio Padovan, “Finché c’è Prosecco c’è Speranza” e “il Grande Passo”), cambiando per l’occasione il direttore della fotografia, passando da Gian Enrico “Gogò” Bianchi a Maurizio Calvesi (Caligari, Faenza, Andò, Spada), e, come sempre, il distributore, che in questo caso è Lucky Red, e confermando il montatore Marco Spoletini, i musicisti (Stefano) Ratchev & (Mattia) Carratello e il produttore Angelo Barbagallo (con, oltre alla sua BiBi Film: Rai Cinema, le Pacte, Canal+, MiC - ex MiBACT -, Regione Lazio e Unione Europea).
Il girotondo d’amore da fermi (con sullo sfondo, in primissimo piano, dopo il prologo capitolino: Artena, Valmontone, Montenero di Bisaccia, Vasto e Torri in Sabina), il duello con loro stessi, fra l’alter ego dell’autore & protagonista e il personaggio interpretato da Stefania Sandrelli – per dirla col Philip Roth (a proposito di alter ego) di “the Human Stain”, che qui cito a memoria: “Non è stato il mio primo amore, non è nemmeno il mio più grande amore, ma di sicuro sarà il mio ultimo amore...” –, è d’una “perfezione” rohmeriana: struggente la di lei frase pronunciata a guisa di alibi: "È che io finora ho fatto tutto bene, e allora...".
A completare il cast, oltre all’Alfa Romeo Spider Duetto Aerodinamica Rossa, vi sono, tra i fuoriusciti (o, meglio, i dentroentrati), l’eduardiano Gigio Morra (“Sogni d’Oro”, “Gomorra”, “Bella Addormentata”, “Qui Rido Io”), l’odontotecnico-pasoliniano Alberto Testone (“Fatti Corsari”) e Mauro Lamantia, e poi Agnese Nano ("Nuovo Cinema Paradiso", "il Regno", "l'Alligatore") e un altro grande teatrante qual è Alfonso Santagata (“Palombella Rossa”, “Pranzo di Ferragosto”, “Gomorra”, “Noi Credevamo”, “Gianni e le Donne”, “la Città Ideale”, “l’Intrepido”, “le Ultime Cose”), e a chiudere i malefici statal-ecclesiastici Simone Colombari (il Sindaco) e Andrea Cosentino (il Prete).
E a tal proposito, il disprezzo atavico (e giustificatissimo) col quale Gianni/Astolfo pronuncia le parole “Il preeete!”: come si fa a non amarlo?
Che… Dio ce lo conservi.
* * * ¾ - 7.5
Morto per un dollaro
- Western
- Canada, USA
- durata 124'
Titolo originale Dead for A Dollar
Regia di Walter Hill
Con Willem Dafoe, Rachel Brosnahan, Hamish Linklater, Christoph Waltz, Benjamin Bratt
In streaming su Amazon Video
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C'era una volta il western, e c'è ancora.
Walter Hill, classe 1942, e da vendere, gira nel 2022, sceneggiandolo partendo da un proprio soggetto condiviso con Matt Harris (“the Starling”), il suo primo spaghetti western (1897: New Mexico → Chihuahua), dedicandolo a Butt Boetticher (“Seminole”, “Decision at Sundown”, “Ride Lonesome”), e lo fa alla grande: dopo 50 minuti classicamente sottotono, mangiati da una volutamente folle fotografia seppiata del sodale Lloyd Ahern II (e al suo fianco l’altrettanto fedele montatore Phil Norden, che organizza molte dissolvenze a nero, mentre alle musiche dalla buona personalità c’è il semi-esordiente sulla lunga distanza Xander Rodzinski), metafora più che appropriata per rappresentare la traslazione dalle pagine scritte (Owen Wister, Clarence E. Mulford, A. B. Guthrie Jr., Robert E. Howard, Jack Schaefer, Louis L'Amour, Walter van Tilburg Clark, Oakley Hall, John Edward Williams, Elmore Leonard, Cormac McCarthy, Charles Portis, Larry McMurtry) ingiallite dal tempo e dal sole ed erose dalla sabbia e dalla polvere all’altro quando del post/neo-western, lo spettatore viene messo a conoscenza delle malvagie intenzioni che uno dei cattivi della storia (con quella faccia da Hamish Linklater, tant’è ch’è proprio Hamish Linklater, toh) vuole mettere in pratica nei confronti della meravigliosa signora Maisel -[e oltre a Rachel Brosnahan – 10 minuti prima immersa in una vasca da bagno, ora ritratta in un magnifico primo piano in long-take e dopo 30 minuti consegnante le proprie ultime volontà testamentarie vergate a mano direttamente in quelle dell’eroe (in puro senso greco antico) della storia, che ad un certo punto le dice “Elijah ha lasciato l’esercito, il che fa di lui un disertore. Lei ha lasciato il suo matrimonio: nessuno va in galera per questo”, prima di continuare nel non lasciare dietro di sé alcuna famiglia o fortuna, ma solo un buon nome – e a Linklater lo stratosferico cast chiamato a raccolta comprende (per l’appunto) Christoph Watlz, la sua nemesi a guisa di spada di Damocle Willem Dafoe, il mafioso podestà di turno Benjamin Bratt, e poi Warren Burke, Brandon Scott, Luis Chávez, Fidel Gomez, Guy Burnet e Diane Villegas]-, e d’improvviso la voglia di sapere come andrà a finire prorompe: duelli e trielli in un mucchio selvaggio. (E un elogio per i vetri delle finestre sempre costantemente sporchi.)
- Mi assicurerò che il tuo corpo venga inviato all’esercito. Ti daranno una sepoltura adeguata. Fanfara, bandiere… A un uomo può anche andare peggio di così…
- Dannazione! Mi hanno sparato, ma non sto morendo!
(E no, non siamo sul set di “Blazing Saddles”!)
* * * ½ (¾)
Hanno rubato un tram
- Commedia
- Italia
- durata 90'
Regia di Aldo Fabrizi
Con Aldo Fabrizi, Carlo Campanini, Juan De Landa, Lucia Banti, Lia Reiner
In streaming su Amazon Prime Video
vedi tutti
“Le probabilità sono due: o perde lui o vinco io.”
“Hanno Rubato un Tram”, settimo film e mezzo (il suo “8½” ed ultimo sarà “il Maestro…”) diretto (con l’aiuto di Sergio Leone, anche attore nel piccolo ruolo del presentatore del concorso di Reginetta dei Tranvieri al CRAL-ATM), scritto [con Mario Bonnard - che all’inizio doveva dirigerlo - e Ruggero Maccari (ed "altri", dipende dalle storiografie) partendo da un soggetto di Luciano Vincenzoni, qui al suo esordio, a sua volta ispirato da un fatto di cronaca mitteleuropea di quel periodo] e interpretato…
– col basco, già viscontiano in “Ossessione”, Juan de Landa, ovvero “Faccia di Cane”, il capo controllore Rossi, dal physique du rôle à la Gino Cervi (e il fatto che sia doppiato da Carlo Romano, storico prestator di voce per Fernandel - e per moltissimi altri ruoli iconici, a partire da Jerry Lewis -, crea un curioso cortocircuito), Lucia Banti (la figlia di Cesare), Lia Rainer (la moglie di Cesare), Fernanda Giordani (la suocera di Cesare), Mimo Billi (l’ispettore di servizio), Oreste Biavati (famoso venditore/imbonitore ambulante dell’epoca, indigeno dei colli e finitimo ai portici, una via di mezzo tra il milanese (di Laveno) Carlo Torrighelli, in arte C.T., e Roberto da Crema, qui nei panni e nella veste togata dell’avvocato difensore d’ufficio di Cesare), Bruno Lanzarini (il pubblico ministero), Bruno Corelli (il giudice/pretore), Emilio Cigoli (narratore), Zoe Incrocci e poi tanti altri teatranti dialettali della scena bolognese di allora –
…da Aldo Fabrizi (Cesare Mancini), che cinematograficamente parlando esordì proprio per/con Bonnard in “Avanti, c’è posto...” (1942) nel ruolo di un altro Cesare, Montani, che però era bigliettaio/fattorino e non tramviere/conducente, non è un capolavoro, ma si situa temporalmente (uscito nel Natale del 1954, e presumibilmente girato in autunno, mentre di pochi mesi precedente è "la Ilusión Viaja en Tranvía" di Luis Buñuel) tra due opere maestre quali “Ladri di Biciclette” (De Sica, Zavattini, Cecchi D’Amico, Biancoli, Franci, Gherardi, Guerrieri & Maggiorani, Staiola, Montuori, Da Roma, Cicognini; 1948) e “il Ferroviere” (Germi, Giannetti, lo stesso Vincenzoni & Barboni, Tamburini, Rustichelli; 1956; con Saro Urzì nel ruolo di “spalla”, qui ricoperto da Carlo Campanini, mentre il suicida arrotato nel dramma con Carlo Giuffré e Sylva Koshina ecco che nella commedia ambientata nella dotta, grassa, rossa e turrita, trattino fra Emilia e Romagna, si trasforma in una cuoca e ciclista spericolata interpretata da Leontina Zucchelli, illesa: «Mi piacerebbe proprio sapere il nome di quel cronista che ha scritto “la trentaseienne” mentre io ne ho soltanto trentadue!» - «Accipicchia trentadue! Ma guarda come esagerano questi giornalisti! E pensare che lei non ne comparisce neanche… quaranta!»), divergendo però verso un apice comico.
Fotografia di Mario Bava, montaggio Maria Rosada, scenografie di Flavio Mogherini e musiche di Carlo Rustichelli. Prodotto dalla Imperial (Luigi Rovere) e distribuito dalla CEIAD (Columbia). Negativi: Gevaert. Sistema sonoro: RCA - PhotoPhone. Esterni: Bologna. Interni: CineCittà.
♦ [Campari] ♦
♦ [Lanerossi] ♦
♦ [Martini] ♦
♦ [Motta] ♦
La rete tranviaria bolognese rimase in servizio dal 1880 al 1963. Quando il film fu girato era già sotto gestione commissariale. (Oggi col PNRR chissà…)
• Fototeca.
Aldo Fabrizi alle prese con una crocetta bolognese: “Io dico... Co’ questo che ce se fa? Questo è bono pe’ guida’ una nave!”
All’uscita di Bologna - Roma: “Ci avete rovinato [Cesarino; NdR] Cervellati!” / “Siamo dei selvaggi o siamo dei borghesi!?”
Bologna, Ville Lumière (Piazza XX Settembre, dalla Scalinata del Pincio, con sulla dx il Castello di Galliera).
Direttore della Fotografia: Mario Bava.
"Ma no che non ho paura. Paura di cosa?" ["Pór et cós?"]
“Non aspettate il tram, voi?” - “Macché! Aspettiamo la mammina, noi!”
“Hanno rubato un tram?!”
[Oreste Biavati.] “Non siamo di fronte a un colpevole normale, bensì…
…a un anormale innocente!”
[Juan de Landa.] “Come uomo, e come tranviere…”
[Carlo Campanini, a sx, Aldo Fabrizi, al centro, e Juan de Landa, a dx.] Trichechica sfida a colpi di panza: “Le probabilità sono due: o perde lui o vinco io.”
• Webgrafia.
Le location sul Davinotti: https://www.davinotti.com/forum/location-verificate/hanno-rubato-un-tram/50020211
Sei pagine di notizie, discussioni e location sul film: https://mondotram.freeforumzone.com/mobile/d/3689949/Hanno-Rubato-un-Tram-Discussione-sul-film-tranviario-per-eccellenza/discussione.aspx
* * * (¼) ½ - 6.875
Tuesday
- Cortometraggio
- USA, Gran Bretagna
- durata 11'
Titolo originale Tuesday
Regia di Charlotte Wells
Con Rory Barraclough, David Leith, Megan McGill, Kirstie Steele, Anita Vettesse, James Young
See You Next Tuesday.
Idealmente compresa tra la bambina-Sophie-figlia (cartoline postali da spedire, polaroid che si stanno sviluppando ed home movie pronti per la loro funzione futura), a metà anni ‘90, e la donna-Sophie-madre, a metà anni ‘10, e quindi paradossalmente contemporanea ad essa, di “Aftersun” (2022), l’esordio nel lungometraggio di Charlotte Wells, c’è la Allie (Megan McGill) di “Tuesday” (2015; fruibile su Vimeo con sottotitoli in inglese e su MUBI con sottotitoli in italiano), il cortometraggio che della sceneggiatrice e regista è l’esordio assoluto (cui seguiranno “Laps” e “Blue Christmas”) e si situa - costituendone l'ellissi narrativa, esplicitando il non detto (ma senz'alcun didascalismo) e colmando proletticamente in analessi quel vuoto - come fulcro tra i due estremi del diametro lungo il quale corre la vita della protagonista: un maglione da rappezzare senza levarselo, un bicchiere mezzo vuoto di aranciata dimenticato s’un tavolo della casa senza rassetto, una corda di chitarra da sistemare.
Il professore non lo sa, l’amica sembra volutamente considerarla una cosa già elaborata, la madre passa a prenderla. D’altronde, è martedì (anche se noi sappiamo che, solitamente, di thursday si tratta).
* * * ¾
Somebody I Used to Know
- Sentimentale
- USA
- durata 106'
Titolo originale Somebody I Used to Know
Regia di Dave Franco
Con Alison Brie, Jay Ellis, Kiersey Clemons, Danny Pudi, Olga Merediz, Haley Joel Osment
In streaming su Amazon Prime Video
vedi tutti
Si premura d’avvertire lo spettatore Amazon Prime Video ad inizio trasmissione segnalando la presenza di “nudità, violenza [psicologica; NdR], uso di stupefacenti, uso di alcool, linguaggio volgare, contenuto sessuale”: ed è subito ♥.
Il percorso da sceneggiatrice (e interprete) di Alison Brie (“Mad Men”, “Community”, “Hot Sluts”, “the Kings of Summer”, “BoJack HorseMan”, “Sleeping with Other People”, “Joshy”, “the Little Hours”, “the Disaster Artist”, “GLOW”, “Promising Young Woman”, “Happiest Season”, “Roar”), dopo l’eccellente “Horse Girl” e il sobriamente acuto “Spin Me Round” (l’altra faccia, quella sgarrupata, di “I My Destroy You”, per zeitgeistiana lucidità), entrambi co-scritti con Jeff Baena (marito di Aubrey Plaza), che li ha girati, si allunga con questo “Somebody I Used to Know” di un’altra tappa (il co-writer e regista per l’occasione è il marito Dave Franco, che già l’aveva diretta nel suo debutto dietro alla MdP, “the Rental”) che ne dimostra l’intelligenza ben sopra alla media del mainstream, tra la catarsi pre-finale della resa dei conti col personaggio interpretato da Kiersey Clemons (“SweetHeart”, “AnteBellum”) e il riaccendersi terminale del reinventarsi (con altrettanta pertinenza e coerenza, in zona “Fur” - e non mi riferisco al parrucchino pubico portato a spasso dalla protagonista, m’al film di Shainberg & Wilson, da Bosworth, con Kidman -, ma con molta più adesione e coraggio).
Il cast è completato da Jay Ellis (“Insecure”), Danny Pudi (anch’egli cresciuto alla “scuola” di “Community”: e la chimica con Alison Brie è reinverditamente intatta), Haley Joel Osment (“the Sixth Sense”, “A.I. - Artificial Intelligence”, “Tusk”), Julie Hagerty, Ayden Mayeri, Olga Merediz, Ted Rooney, Amy Sedaris...
Fotografia di Brian Lannin, montaggio di Ernie Gilbert e musiche degli stakanovisti/iperproduttivi (ma qualitativamente sempre ben sopra alla media generale) Danny Bensi & Saunder Jurriaans (e, tra le altre, una "Don't Think Twice, It's All Right", toh). Producono Black Bear, Temple Hill e Amazon, che distribuisce.
“Beh, in pratica [i reality show; NdR] sono sempre dei documentari, tranne per il fatto che la gente li guarda davvero.”
(Tu Mi Ricordi) Qualcuno che Conoscevo: Next Generation Youth.
* * * ½ - 7
Poker Face (2023)
- Serie TV
- USA
- 1 stagione 10 episodi
Titolo originale Poker Face (2023)
Con Rian Johnson, Benjamin Bratt, Natasha Lyonne
Tag Giallo, Femminile, Crimini, Storie di vita, USA, Anni duemilaventi
Walk On!
Rian Johnson si risolleva un po’ dalla rovinosa caduta da fermo di “Glass Onion - A Knives Out Mistery” e sforna un oggetto al tempo stesso tanto vagamente strano (perché “leggera” variazione s’un tema usuale ed iper-codificato da vincoli e dispositivi strutturali) quanto confortantemente accomodante (più che franare inabissandosi nei tópoi qui si tratta di galleggiare stazionando nei tropi), con entrambi i termini da intendersi in senso più che altro positivo, in pratica la modernizzazione “arty” (siamo in un’infra-zona à la “Breaking Bad” tarantinizzata con tanto di pulpfictionica citazione diegetica esplicita) di una serie pisquana anni ‘70 / ‘90 / ‘10 di ABC/NBC, tipo l’emetica, orrida e respingente “Ghost Whisperer” (protagonista con un potere che usa il potere perché, avendo il potere, può usare il potere), ovvero verticalità spinta innestata in blanda orizzontalità, con, in più, ed è un grande, enorme “+”, Natasha Lyonne (“Orange Is the New Black”, “AntiBirth”, “Russian Doll”), che, ad esempio, dopo essere sgattaiolata gattonando attraverso il sottocasa della sorella (Clea DuVall; le due sono compagne di set sin dai tempi del "But I'm a Cheerleader" di Jamie Babbit del 1999), per salire le scale interne dell’abitazione continua a farlo - così, de botto, senza senso - a quattro zampe...
“Tutti mentono, costantemente. È come il cinguettare degli uccelli. Quando ti sintonizzi è fottutamente ovunque per tutto il tempo.”
In realtà, evidentemente, il punto di riferimento (oltre all’effetto "Murder, She Wrote": Charlie Cale, così come Jessica Fletcher, è una carta moschicida per gli omicidi) è, dichiarato sin dal font dei titoli di testa e coda, “Columbo” (1968-2003), e non solo per via del fatto che lo spettatore conosce l’identità del colpevole sin da subito, con l’entrata in scena di vittima ed assassino, ben prima insomma che la non-detective ("...arriva un investigatore e ci deduce l’anima...") inizi le sue indagini personali, mossa da motivazioni affettive. (Da segnalare altresì una parafrastica citazione diretta al “White Dog” - qui più batuffoloso - di Samuel Fuller, e, proprio volendo, ad "Atlantic City, U.S.A." di Louis Malle.)
E poi c’è l’8° ep., “the Orpheus Syndrome”, scritto - con Alice Ju - e diretto dalla stessa Lyonne, ch’è un fottuto mini-capolavoro (in stile, tornando tanto a Gilligan/Gould quanto a Rian Johnson, “Fly”, il 3x10 di BB) con co-protagonista Nick Nolte, abitato da riflessioni metacinematografiche niente affatto banali, svolte tanto letterariamente quanto risolte sonoro-visivamente.
- “Pensi che sia possibile essere perdonati dai morti?”
- “No. Ci ho provato per trent’anni. Il meglio che possiamo fare è perdonare noi stessi.”
Però, cavolo, spostandoci – SPOILER – al final season (che termina aperto verso una seconda annata ripescando la “Walk On” younghiana, prima traccia del “On the Beach” di metà seventies), davvero un tipo come Sterling Frost Sr. (Ron Perlman) non ravvede la differenza di peso fra una scatoletta contenente una targhetta in ottone e una contenente un – se pur piccolo, ma pur sempre da mezzo chilo abbondante – revolver Ruger 9mm?
10 ep. (molto belli anche il pilot, “Dead Man’s Hand”, con Adrien Brody e Dascha Polanco, e il 9°, “Escape from the Shit Mountain”, con Joseph Gordon-Levitt), da 45’/65’ diretti da Rian Johnson, Iain B. MacDonald, Tiffany Johnson, Lucky McKee, Ben Sinclair, Natasha Lyonne e Janicza Bravo e scritti da Rian Johnson, Alice Wu, Wyatt Cain, Christine Boylan, Charlie Peppers, Chris Downey, Joe Lawson, C.S.Fisher, Natasha Lyonne e Nora & Lilla Zuckerman.
A parte l’eccellente Benjamin Bratt come antagonista, tra le altre guest star da segnalare assolutamente Ellen Barkin, Chloe Sevigny, Tim Blake Nelson, Cherry Jones, Luis Guzmán, Judith Light, S. Epatha Merkerson, Tim Meadows e il ricorrente Simon Helberg.
Musiche di Nathan Johnson e Judson crane, più Sam Cooke, Paul McCartney, Tom Waits, Donald Fagen, Miles Davis, Cab Calloway e Burl Ives. Più i Calibro 35, Bruno Nicolai e Giuseppe Verdi… E “Lonely People” degli America…
On te Road Again, Charlie Cale.
* * * ¾
Postilla.
Questo è l’incipit di “Murder by the Book”, il 1° episodio della 1ª stagione di “Columbo” (per la precisione si tratta del 3° sul totale di 69, compresi gli special, dato che prima di esso c’erano stati due pilot): zoom e carrello/dolly all’indietro da un “esterno” (distante, separato e fittizio perché oltre il vetro) all’interno del set reale e non ricostruito in studio e diegetico battere sui tasti della macchina da scrivere che persiste anche quando il montaggio porta l’azione nell’esterno concreto, effettivo e tangibile. Insomma: Cinema-Cinema.
Regìa di Steven Spielberg (“FireLight”, “A.I.”, “the Fabelmans”), fotografia di Russell Metty (“Touch of Evil”, “Imitation of Life”, “Spartacus”) e sceneggiatura di Steven Bochco (“Hill Street Blues”, “NYPD Blue”, “Murder in the First”).
Però: da 00’13’’ a 00’17’’ c’è un’ombra di MdP e a 00’35’’ il romanziere scrive “J’acuse” con una “c” sola. Insomma: TV pre-3ª Golden Age della Complex/Peak/Prestige TV.
La stranezza
- Commedia
- Italia
- durata 103'
Regia di Roberto Andò
Con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Luigi Lo Cascio, Donatella Finocchiaro
In streaming su Amazon Prime Video
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Stranizza d'Auturi.
Riducendo all’osso, per cui lasciando all’evidente di per sé del sentir comune l’enorme mole di massiva ciccia letteraria sulla quale poggia un film del genere, eccolo: còlto
– oltre che s’un treno, come il protagonista poco prima del principio dell’ultima, e “testamentaria” (ma non postuma, essendo comparsa, prima che nel XV ed ultimo volume della raccolta edito nel 1937, sul Corriere della Sera nel 1935), delle Novelle per un Anno, vale a dire “Una Giornata” (in pratica David Bowman nella camera rococò Oltre l’Infinito in “2001: a Space Odyssey”), con la differenza che su “pellicola” in carrozza con l’Autore v’erano le sue creature in farsi, e non, su inchiostro e carta, ch’invece il Figlio del Kaos lo ha creato (famigliari, amici, colleghi, conoscenti: trasfigurati in “quell'odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere”; e i figli già vecchi, e i bambini nati da loro) –
nel mezzo del cosiddetto passaggio dal periodo artistico grottesco a quello meta-mediale
(per quanto riguarda invece l’attraversamento del limine precedente, con l’abbandono - certo che no! - del realismo in favore dell’umorismo, didascalica, ma corretta, appare la sequenza col maestro verista Verga, qui impersonato da Renato Carpentieri, dal Teatro dei Mutamenti a gran caratterista per Martone, Moretti, Greco, Rohrwacher, Amelio, Sorrentino),
il Luigi Pirandello di Roberto Andò – qui al suo film migliore forse di sempre (“il Manoscritto del Principe”, “Viaggio Segreto” e - a “proposito” delle ceneri del fu - “Conversazione su Tiresia”) –, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso e Toni Servillo, pre-inventa, incontrando gl’inneschi catalizzatori Salvatore Ficarra & Valentino Picone
(entrambi con almeno un paio di sequenze e scene ciascuno da applauso, oltre che co-produttori col sodale Attilio De Razza assieme ad Angelo Barbagallo, mentre a completare il cast artistico vi sono Giulia Andò, Luigi LoCascio, Fausto Russo Alesi, Donatella Finocchiaro (la Moglie: Maria Antonietta Portulano), Aurora Quattrocchi (la Balia: Annicchia/Annetta?!), Giordana Faggiano (la Figlia: Rosalia, detta “Lietta”), Galatea Ranzi, Tiziana Lodato, Paolo Briguglia, Rosario Lisma, Tuccio Musumeci, Filippo Luna, Brando Improta e Domenico Ciaramitaro, e per quello tecnico Maurizio Calvesi alla fotografia, Esmeralda Calabria al montaggio e Michele Braga & Emanuele Bossi alle musiche),
alcuni dispositivi poi precipuamente caratterizzanti l’òvre di Samuel Beckett e Luis Buñuel.
Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, che sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
Insomma: comprendo benissimo, o, meglio, non mi stupisce affatto, al netto della Teoria del Caos, la meritata “fortuna” al botteghino, oltre a quella critica, incontrata da questo “la Stranezza” (tra grottesco umorismo, iperrealismo trasfigurato e metacinema), la qual m’appar tutt’altro che strana.
4 anni dopo, col cadavere di Giacomo Matteotti ancora caldo, il “pessimista accattone relativista” (semi-cit.) chiederà all’Eccellenza Vostra d’essere accettato nel Partito Nazionale Fascista. Dieci anni dopo, il Nobel.
«Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi.»
Stranizza d’Auturi.
* * * ¾
Siccità
- Commedia
- Italia
- durata 124'
Regia di Paolo Virzì
Con Monica Bellucci, Emanuela Fanelli, Elena Lietti, Vinicio Marchioni, Valerio Mastandrea
In streaming su Netflix
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Generalmente m'infastidiscono quelle recensioni che dall’alto di ‘sta ceppa (camerette di youtube, scantinati di blog, balconi social, corrieri del giorno & repubbliche della sera, facoltà universitarie) e dimenticandosi del film tentano di individuare, pescare e sventolare le “intenzioni” dell’autore (solitamente sono scritte da gente che per trovarsi quel punto del culo da grattare quando gli prude hanno bisogno di una carta geografica), ma ogni regola ha un’eccezione perciò, volendomi un sacco di bene, dirò che sembra quasi che “Siccità” sia un’opera girata per dimostrare che con un montato di due ore si può benissimo riuscire a raccontare una storia che avrebbe riempito tre stagioni di una serie: ebbene, l’assunto è vero, ovviamente (come altrettanto ovviamente è vero pure l’inverso, cioè che è ben possibile sviluppare un’ottima serie lungo tre stagioni col materiale messo a disposizione da un lavoro di due ore: in entrambi i casi è il come che performa il cosa), ma in questo caso Paolo Virzì (e dico in “questo” perché in altre occasioni il regista livornese – che in trent’anni di carriera ha mai lasciato passare, come invece è accaduto nel frangente in esame, 4 anni di “vuoto”, ovvero, ad esempio, la collaborazione alla sceneggiatura di “Tolo Tolo”, tra la messa in scena di un proprio script e l’altro – ha ben dimostrato il contrario) non è Robert Altman e – pur con gli spiriti di Mario Monicelli, Luigi Comencini e Suso Cecchi D’Amico seduti sul sedile posteriore (decidete voi chi sia Papà, chi Mammà e chi il Presidente del Consiglio Letta-Conte) – Paolo Giordano, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo non sono Raimond Carver e Frank Barhydt.
Non me la sento punto nella maniera più assoluta di scendere sotto la sufficienza, ma in egual misura lì mi fermo: “Siccità”, così come in media le prestazioni attoriali dei suoi interpreti
– un elenco impressionante: Valerio Mastandrea (spossato), Claudia Pandolfi (vigorosa), Silvio Orlando [bella Rebibbia, (ma non) ci vivrei], Sara Serraiocco (indomita), Elena Lietti (generosamente brava), Tommaso Ragno (in buon sovratono), Vinicio Marchioni (in buon sottotono), Diego Ribon (iperrealisticamente caricaturale), Max Tortora (sempre in parte), Emanuela Fanelli (sacrificatamente muliebre), Gabriel Montesi (ottimo), Emma Fasano (semi-esordiente), Gianni Di Gregorio & Paola Tiziana Cruciani (divertenti & divertiti), Andrea Renzi (“terzo” polo), Monica Bellucci (talmente in parte da essere fuori parte), Massimo Popolizio (on stage), eccetera eccetera…, completato dal cast tecnico-artistico (fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche di Franco Piersanti) e da quello produttivo (Lorenzo Mieli per Wildside/Freemantle) e distributivo (Vision/Sky) –,
merita un passaggio, che inevitabilmente finirà ben presto in quella parte del magazzino mnemonico identificata con l’etichetta chimico-ormonale di “gradevole serata non sprecata e nient’e nulla più”, proprio come il destino che all’interno del film tocca al “ballardiano” gigante (dis)sepolto nel letto del Tevere in secca totale a guisa di Giordano attraversato dalla Sacra Famiglia in direzione Betlemme, Nazareth, Cafarnao e Ostia Lido.
“Siccità”, ovvero: la Sindrome dello Specchietto Retrovisore.
(**¾) * * * (***¼)
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Ma abbandonando per un momento il Tevere e passando al Ticino: ad oggi, 19-02-2023. è più di un mese e mezzo che non piove (non sto parlando di nebbia che condensa e precipita al suolo) in Lombardia e più in generale in tutta la Pianura Padana. Lo stesso copione degli anni passati, solo di volta in volta un po’ peggio.
E a tal proposito riporto qui 4 tabelle a cura di Lorenzo Arcidiaco, già segnalate a commento di “White Noise”, che infograficamente (rap)presentano il rapporto tra Anomalie Termiche & Anomalie Pluviometriche, dal 1950 al 2023, rispetto alla climatologia 1981-2010, nei periodi di Gennaio-Dicembre e Ottobre (anno precedente) - Gennaio (anno di riferimento), per Piemonte e Toscana: la cronaca di un disastro annunciato.
The Mosquito Coast
- Serie TV
- USA
- 2 stagioni 17 episodi
Titolo originale The Mosquito Coast
Con Justin Theroux, Melissa George, Logan Polish, John J. Concado, Kimberly Elise
Tag Avventura, Storia corale, Esplorazione, Famiglia, Sud America
In streaming su Apple TV Plus
vedi tuttiEcco a voi i Chippendales
- Serie TV
- USA
- 1 stagione 8 episodi
Titolo originale Welcome to Chippendales
Con Robert Siegel, Kumail Nanjiani, Murray Bartlett, Darren Lipari, Annaleigh Ashford
Tag Poliziesco, Maschile, Casi giudiziari, Storia americana, USA, Anni '70
In streaming su Disney Plus
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- Serie TV
- USA
- 2 stagioni 9 episodi
Titolo originale Wednesday
Con Charles Addams, Alfred Gough, Miles Millar, Tim Burton, Jenna Ortega
Tag Horror, Femminile, Adolescenza, Magia, USA, Anni duemilaventi
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