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Mein Gott! The Final (and the First) Girl.
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Mein Gott! The Final (and the First) Girl.

Mia Gypsy Mello da Silva Goth (SouthWark, Londra, 30/11/1993). 

 

Girlhood (cinema):
1. Linda Manz
2. Toni Collette
3. Noomi Rapace
4. Aubrey Plaza
5. Mia Goth                

Playlist film

 

Prima: "Magpie".

 

 

Dopo... Infografica sui titoli di testa. Ascissa = Tempo. Ordinata = barili di petrolio & capitale umano. La discendente curvilinea vettoriale non logaritmica ma uniforme della popolazione mondiale arresta la sua picchiata, trascinata giù dal crollo della disponibilità petrolifera, e si assesta al limite dell'estinzione sostenibile.

Pollicino e Hänsel e Gretel d'ogni età sono morti da tempo, divorati dalle fiere feroci e dalla fame, nulla hanno potuto intelligenza e fortuna, ed ora il pianeta ospita solo qualche genitore in fieri e in farsi (dopo aver abortito l'auto-aborto con un ferro appuntito), abbandonato dal mondo nel mondo stesso.

Intorno alla vecchia casa, i sentieri dell'orto. Dopo la fuga dal rifugio assediato e invaso, il fuoco. Oltre, lontano dal barricarsi dal caravanserraglio delle disumane genti (con tratti cannibalici), dagli specchi (il provare un senso di colpa nel riconoscere l'egoismo dell'istinto di conservazione e sopravvivenza e al contempo il bisogno di cedere alla presenza dell'altro da sé), il confine esteso della foresta. E poi, un altro recinto, a perdita d'occhio verso l'orizzonte. Per farne (mentre una maternità si spegne e un'altra s'accende abbandonando la "sorellanza" per il maschio alfa che a sua volta esaurisce il proprio compito "scegliendo" il sacrificio personale in favore della prosecuzione della famiglia/specie) giaciglio, scavandosi una tana, e ricavarne una culla. 

 

Mia Goth, ultra-affiatata col resto del ristretto cast, sancisce, ratifica e suggella quel che non c'era alcun bisogno di confermare, certificare e dimostrare: è nata un'attrice.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Mia Goth & Anya Taylor-Joy / 1

 

Wouldn't It Be Nice…
È il 1969, ma sembra un gotico americano anni ’20: mentre Collins gira in orbita attorno alla Luna e Aldrin e Armstrong imparano “for all mankind” a camminare per la seconda volta passeggiando e rimbalzando su quel velo di polvere immota, qui in Maine si combattono gli spettri a suon di Beach Boys. 

 

Uno sparo, un foro nel vetro incrinato di una finestra, un coltello abbandonato, una scatola di latta ripescata, una cicatrice s’un lato della fronte, una ellissi di 6 mesi avanti nel tempo: diciamo che il whodunit non appare, sin da subito, come il punto di forza di “El [Doble] Secreto de MarrowBone”, il film scritto e diretto (è il suo esordio alla regìa, mentre aveva già co-sceneggiato, ad esempio, il romanzo “la Fine” di David Monteagudo) da Sergio G. Sánchez, ed infatti la (o meglio: una prima) verità si “scopre”, ovvero viene rivelata, attraverso un paio di didascalici (e col senno di poi: volutamente, anche se comunque maldestramente, tali) dialoghi, già a metà dell’opera - che, a sua volta, di conseguenza, per quel che racconta e cela tra le trame del racconto, non è certo un teen-movie o un appartenente al livello successivo, lo young adult -, ma è solo - come detto - il primo dei due plot twist che puntellano la narrazione: e il secondo è certamente più inaspettato e “riuscito” (nel suo intento di spiazzare), ma pure più forzato.

 

Con tutti i difetti imputabigli [ed un finale che all'apparenza può ricordare - non è uno spoiler, ne parlo dal PdV psicologico ed etico-morale - quello di "BabaDook" (che rimane uno dei più antietici ed amorali - in senso... sì!, negativo - degli ultimi anni), ma in realtà ne rappresenta quasi l'esatt'opposto], rimane un discreto - e a tratti financo buon - prodotto, e soprattutto, pur considerando alcune forzature, ogni svolta prolettica del racconto è coerente rispetto a tutto il costrutto analettico.

 

“Odio vivere con un fantasma!”

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Always alone, alone and blue...

 

Lallazione e primi passi... Growing up... L'alba dell'umanità...

 

Inerzia del Riciclo: urina e feci per acqua e cibo, e cadaveri per il compostaggio.
Riciclo della Speranza: sperma e grembo materno, colostro e montata lattea, menarca e sangue mestruale.
Speranza dell’Inerzia: worm-hole, tunnel infra-dimensionale, heaven’s gate, new eden.

 

Il container interstellare n.7, libera prigione spaziale (senz’ombra, nello specifico vettoriale, di thorne-nolaniani tesseratti) danzante in equilibrio lungo la retta traiettoria parabolica del suo viaggio tracciato dalla Terra (che rimane in collegamento unidirezionale sempre più flebile grazie a fasci di trasmissioni radio concentrate: e un pensiero corre ai Pioneer ed ai Voyager...) alla stella che a suo tempo innescò il collasso gravitazionale, accelerando sino a raggiungere il 99 virgola “e rotti” % della velocità della luce nel vuoto, si “appresta” a cavalcare personalmente (dopo aver espletato almeno in parte la sua missione inviando una navetta in missione semi-suicida) l’orizzonte degli eventi che circonda la singolarità gentile (vale a dire non dilaniante le carni) del suddetto in accenno buco nero supermassiccio (ad oggi, il simile corpo celeste conosciuto più vicino al Sistema Solare dista poco più di 1.000 anni luce...) per ricavarne informazioni il più possibile dettagliate su eventuali fonti di energia “anti”-entropica [attraverso il teorico processo/meccanismo di Penrose, ovvero generando potenza attraverso la trasformazione di materia sacrificabile facendola transitare nell’ergosfera di un buco nero in rotazione] da sfruttare in qualche maniera (conoscere, comprendere, ricreare), o in loco o spedendo/portando i dati ricavati alla Terra.

 

A bordo, l’equipaggio-specimen di criminali redenti, dalla scienziata/ginecologa/capitano/cavallerizza (novella Europa: ma il satellite mediceo/galileiano di Giove è oramai distante anni luce) del dio-toro meccanico, passando per il pilota e il personale tecnico di bordo, sino alla bassa manovalanza: i donatori di liquido seminale e le violate posseditrici di ovaie ed utero.

 

Questo magnifico film di Claire Denis è tanto sorretto da un (im)portante iperrealismo (il sottofondo/sottotesto scientifico e politico è sì iperbolico, ma anche plausibile) ben strutturato [Meccanica Quantistica (interazioni elettromagnetica, debole e forte del Modello Standard) + Relatività Generale (forza gravitazionale) = Gravità (e Cosmologia) Quantistica / Teoria del Tutto] quanto affossato da una noncurante naïveté: partendo dall’hardware - retrofuturistico e in parte quasi steampunk - e passando per il software (alcune schermate di computer sembrano utilizzare interfacce di sistemi operativi degli anni ‘90) messi a mandare avanti il cargo squadrato - elementi costitutivi che soffrono di questa scelta, cercata/voluta/ponderata o del tutto collateralmente casuale, rallentano/ritardano l’innescarsi della sospensione dell’incredulità -, si giunge a dover considerare componenti, fattori e situazioni più specifici, quali ad esempio il mero - ma rispettoso, con gesto umano, dei compagni di viaggio - spreco di tute spaziali - le quali, a latere e per inciso, non riuscirebbero a proteggere nemmeno un apicoltore da uno sciame di moscerini della frutta, figuriamoci poi se esposto al vuoto dello spazio - utilizzate come sudari per i corpi che, gettati fuori bordo, “cadono” verso il basso (e no, non si tratta di meccanica newtoniana e di cinematica, perché non siamo s’un treno che, sfiorando il principio di equivalenza, corre lungo un piano in un’atmosfera: un corpo lasciato andare alla deriva fuori da un portello di un’astronave “ferma” o lanciata a 300.000 km/s non “cade schizzando via” come una palla da tennis lanciata dal finestrino di un vagone di un treno in corsa, ma si comporta come una palla da tennis lanciata in aria all’interno di quello stesso vagone), e ancora, un’immagine in particolare: quella di un guanto di tuta spaziale che galleggia… in presenza di “gravità” artificiale!

 

[Effetto dell'interazione fondamentale, conseguenza della curvatura dello spazio-tempo, ottenuta non grazie alla forza centrifuga (si pensi, per semplicità, al tamburo rotante di “2001: a Space Odyssey”, che per funzionare correttamente dovrebbe essere molto più grande), ma per mezzo di una propulsione continua (ricordiamo che l’astronave cargo/container n. 7 di “High Life” non ruota, ma persegue la sua traiettoria in costante linea “retta”), probabilmente grazie a propulsori ionici, che permette al suo carico (persone, oggetti e vegetazione à la “Silent Running”) di ricevere una persistente ed ininterrotta accelerazione lungo l’asse di spinta, senza tra l’altro controindicazioni quali l’effetto Coriolis. Può darsi quindi che quel sospeso a mezz’aria guanto levitante in “assenza” di gravità...

 

- nemmeno la ISS opera in “assenza” di gravità, ché a quella quota è pari a circa il 90% di quella presente sulla superficie del pianeta: il campo gravitazionale terrestre la attira continuamente a sé (2 km/mese di decadimento orbitale) e l’assenza di peso è data dalla caduta libera (350/400 km di altitudine in media sul livello del mare, 27.000 km/h, 15.5 orbite al giorno), corretta dai giroscopi di controllo del momento angolare e più saltuariamente da piccole propulsioni periodiche che la riportano alla giusta quota operativa e “stabile” -

 

...sia una reminiscenza analettica dei primi mesi di viaggio (il film inizia ad un lustro dalla partenza e termina tre altri lustri dopo), quando la velocità era ancora ben distante da quella di crociera - pur subluminale, ma di poco - raggiunta - assieme alla “piena” gravità - una volta abbandonato il Sistema Solare.]

 

Un viaggio dentro una House verso una Home.

 

Tutto ciò significa una non accantonabile mole di illogicità psico-comportamentale, fallacia tecnico-ingegneristica e inesattezza fisico-balistica, che pure, però, viene inglobata e assimilata dal resto del film, che ben si regge sulle proprie filosofiche gambe: non sarà “2001: a Space Odyssey”, e s’attesterà come una improbabile via di mezzo fra “Solaris/Stalker” ed “Interstellar”/“Ad Astra”, ma certamente siamo ben lontani da innominate cert'altre sterili e/o retoriche elucubrazioni para-trascendentali, e poi ingloba "In the Land of the Head Hunters" (1914) dell'etnologo Edward S. Curtis...

 

Finale a tendina-sipario che, utilizzando l’installazione “Contact” del 2014 di Olafur Eliasson, ricorda il sinergico lavoro svolto da Denis Villeneuve e dal production designer, suo sodale collaboratore, Patrice Vermette per la realizzazione del punto di contatto umano-alieno in “Arrival” (su soggetto di Ted Chiang) mettendosi in sintonia con il fotografico minimalismo percettivo delle opere create da James Turrell: qui una linea d’orizzonte che si muove e cresce, che (s)confina e collega, relazionando l’osservatore in loco con l’orizzonte degli eventi si apre, dilata e spalanca svelando la nuda singolarità e, al di là, un altro spazio-tempo potenziale (cosa, chi, dove, quando, come, perché), là uno schermo cinematografico di colore puro che, dispositivo simil-differente, attua la medesima funzione.

 

Maternità, paternità, emancipazione dal grembo-culla-prigione, i discendenti delle cavie, de(gl)i (ir)redenti, dei graziati (anche in senso malickiano), dei reietti, degli espulsi dal giardino dell’eden in parziale rovina: la madre che l’ha generata scappava in treno dallo sprofondo, il padre che l’ha accompagnata e guidata è sempre stato al limine fra due mondi, la figlia raggiunge assieme a lui la destinazione…

 

Il destino ultimo di una splendida Mia Goth (che esgue a cappella una versione a mo' di ninna nanna country della “Always Alone” scritta da Ted Daffan e portata al successo da Johnny Cash) è abbastanza realistico e straziante, tanto emotivamente quanto concretamente - lacerazioni, stiramento, dilatazioni, dilaniamento, spaghettificazione -, e rispetto a ciò non si può non riandare con la memoria alle distorsioni del viaggio Oltre l’Infinito di David Bowman a bordo della capsula della Discovery riassemblata/ricostruita, assieme al suo occupante, nella camera rococò settecentesca nel Nessun Dove & Altro Quando}

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Eco di Sirene.

 

Di buono, c’è che “MayDay”, l’esordio nel lungometraggio (regìa e sceneggiatura) di Karen Cinorre, non ciurla nel manico: la metafora si concretizza immediatamente e viene continuamente ribadita dalla messa in scena senza troppo giocar’eccessivamente (vedi alla voce “Mother!”) con lo spettatore instillandogli dubitanti dubbi dubbiosi: se da un lato questo fatto smorza un poco tanto assai l’interesse generale verso l’operazione in sé, dall’altro si dimostra una caratterizzazione molto puntuale e precisa di come lavori il cervello durante il defatigamento giornaliero ch’è il sognare.

- Ti ho resa un’eroina o no?
- Mi hai resa una pazza omicida.
- È la stessa cosa!

In bilico sull’Owl Creek Bridge, sbilanciato dal massiccio peso di un forno a gas in ghisa e acciaio, l’onironauta Ana (Grace Van Patten) abbassa la produzione di cortisolo ammazzando le proiezioni maschili dei referenti fisici che la perseguitano nella realtà dopo averle invitate ad abitare il proprio paesaggio mentale: ma in seguito all’aver ceduto all’efficacia della guerra ecco che il continuo, persistente e reiterato ammazzare - declinato financo a danza dumont-vontrieriana - presto diventa routine, e al mirino e al grilletto ella preferisce il palco e - non più, coadiuvato dal radar intonato a guisa di diaulos, declinato ad esca pasturante attira prede - il microfono.

 

E accanto a lei, le altre sirene: Mia Goth, un po’ Circe e un po’ Calipso, Soko (Her, la Danseuse, Little Fish) e Havana Rose Liu (the Chair, the Sky Is Everywhere). E poi Théodore Pellerin ("the OA", "On Becoming a God in Central Florida", "Never Rarely Sometimes Always"), Zlatko Buric (“2012” e la saga di “Pusher”) e l’iconica Juliette Lewis (recentemente in “YellowJackets”).

- Torneresti a una vita fatta di oscurità?
- Nell’oscurità si vedono le stelle.

Fotografia di Sam Levy (“Wendy and Lucy”, “Frances Ha”, “Mistress America”, “Lady Bird”), marito della cineasta (la coppia si era già ritrovata tale collaborando sul set del “Green Porno” di Isabella Rossellini, l’uno alle luci e l’altra ai costumi), montaggio di Nicholas Ramirez (ma ho come l’impressione, così, a pelle, che sia stato affiancato dalla stessa Karen Cinorre) e musiche - immediatamente riconoscibili come tali, cioè sue - di Colin Stetson (Hereditary, Color Out of Space).

 

La costa croata interpreta l’entroterra onirico.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Mia Goth & Linda Lovelace / 1

 

A Good Dirty Movie.

 

Pro-Logo. Il 4:3 arty, ma porno-filologico (HardCore, Boogie Nights, the Deuce, Adult Material, Pleasure), che si allarga a 16:9 è in realtà una finestra “fordiana”, cioè senza mascherine preventive ai due lati, ma solo le assi di legno delle pareti a reggere gl’infissi, aperta e svelata, poi, da una carrellata in avanti che si affaccia verso l’esterno del “Red State” spalancando il quadro all’ennesima variante di “the Texas ChainSaw Massacre” (ma si pensi pure a “the Hills Have Eyes”), A.D. 1979.

 

Vale a dire: inizia bene, “X” (come “rated”, come “factor” e come le gambe in azione di una ballerina o di una peripatetica), l’ottava fatica nel lungometraggio cinematografico del regista, sceneggiatore, produttore e montatore Ti West (a volte anche compositore, una tantum direttore della fotografia e un po’ più spesso attore per sé stesso e per altri colleghi come Adam Wingard, ma in particolar modo per l’amico mumblecore Joe Swanberg), e, per la cronaca, prosegue altrettale (ad esempio con un dolly a salire che abbandona il Bayou Burlesque per rivelarne l’ubicazione sprofondata in un impressionante panorama periferico-industriale), rimanendo sì entro i binari del canone, ma conducendo il convoglio a passo sicuro e spedito [ed è inevitabile paragonare l’ultima reiterata versione del franchise creato da Tobe Hooper (e anche quello di Wes Craven) a metà anni settanta rimessa in scena in questo stesso 2022 ad opera di Fede Álvarez e Rodo Sayagues allo script e David Blue Garcia dietro alla MdP col titolo mono-consonante, constatando una vittoria netta ai punti per quest’ultimo].

 

C’è da dire che un bel deragliamento verso territori “altri” (e d’altronde, come si dice ad un certo punto nel film, “è meglio implorare perdono che chiedere il permesso”) rispetto al genere (ma paradossalmente non nei confronti del mainstream) sarebbe stato quello di affidare ad uno dei caratteri più fragili all’interno del gruppo il ruolo di cattivo, invece che consegnarlo nelle logiche mani della coppia di anziani (the Visit, the Owners), ma il “tocco” autoriale è dato invece dall’aver sdoppiato la protagonista tra eroina e villain, regalando alla prima un lieto fine possibile (con bestemmia inclusa) e alla seconda la “consolazione” e l’onore delle armi di un prequel (“Pearl”, per l’appunto, girato a ruota di “X”, e sempre nello stesso emisfero e continente australe, nell'Isola del Nord della Nuova Zelanda, in una medesima "the Bubble" anti-CoViD-19, ed ambientato durante la WW1: lo slasher “pretende” la saga seriale), ché sì, il film _è_ Mia Goth.

 
Completano il cast Jenna Ortega (WednesDay), Brittany Snow (BushWick), Scott “Kid Cudi” Mescudy (Don’t Look Up), Martin Henderson (Grey’s Anatomy), Owen Campbell (Super Dark Times), Stephen Ure e James Gaylyn. Fotografia di Eliot Rockett. Montaggio dello stesso, come già detto, Ti West, in coppia con David Kashevaroff. Colonna sonora originale di Tyler Bates e Chelsea Wolfe

Musiche preesistenti pescate a piene mani dall’outlaw country rock, con un’intrusione dei Mungo Jerry e il rullo dei titoli di coda affidato a Robert Palmer. Presentato al South by SouthWest, è stato co-prodotto e poi distribuito in U.S.A. da A24

E no, Ti West non è Quentin Tarantino, ma il gioco di citazioni/omaggi, slegate dal contesto e puramente tecnico-formali, e financo ribaltate nello svolgimento (the Shining), oppure più “ambientali” (Alligator), o prettamente “politiche” (il VietNam del Blue Movie warholiano), non è per niente buttato via, “because it is possible to make a good dirty movie”.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The House (2022)

  • Serie TV
  • 1 stagione episodi

Tag

The House (2022)

 

Ce Magnifique Gâteau!

 

CASA: QUALCHE AVVERTENZA

 

Se hai una casa

bisogna che ci pensi di continuo

mentre la abiti, quindi la casa

deve abitarti in testa...

 

Grace Paley - "Volevo Scrivere una Poesia, Invece Ho Fatto una Torta" - 1985/2001 - Big Sur  

 

Asseverati i requisiti tecnici per gl’interventi volti a mirare il via libera per l’applicazione dell’aliquota di detrazione al 110% del super-bonus edilizia la variegata pagura umanità s’apprest’ad affrontare il passato classista, il presente straniato/alienato e il futuro che storna lo sguardo dall’evidenza di sé: la mini-serie di cortometraggi o il lungometraggio antologico ch’è “the House”, creata e scritta (su soggetto dei vari registi) per Netflix dal drammaturgo irlandese Enda Walsh, si dimostra quale un magnifico sformato di esseri umani (gomitolosi Homo s. sapiens e antropomorfizzati Rattus rattus e Felis silvestris catus) incarnati frame by frame attraverso l’unione di lana uncinettata, plastilina digitata/plasmata e stoffa (cotone/fustagno e seta/organzino) imbastita/cucita assemblate assieme per essere poi mosse a passo uno: l’apoteosi del Falso Movimento, la Stop Motion: la quintessenza letterale della parola Animazione.

 
Tre storie da circa mezz’ora l’una affidate a quattro registi: 

- I.E dentro di me, s’intesse una menzogna. (And heard within, a lie is spun.) Disperazione e speranza. (Horror d’atmosfera gotica.) Regìa di Emma de Swaef & Marc James Roels: la meraviglia. Le voci di Mia Goth, Matthew Goode e Miranda Richardson accompagnano la presa di coscienza del quanto sia difficile creare con della sola fibra tessile animale e un po’ di luce artificiale un ultra-iper miyazakiano fuoco ardente nel camino e con della sola lana aggomitolata e un po’ d’ombra una ruga della fronte. Nota: i bambini so’ de “gomma” (rimbalzano - se le altezze sono adeguate e non impossibili - senza farsi troppo male), come le scale in pietra e cemento del resto… PS: carta da parati mandelbrotiana. Voto: 9.0

- II. Perduta è la verità che non si può vincere. (Then lost is truth that can’t be won.) Disperazione (Horror kafkiano: cinico e sarcastico.) Regìa di Niki Lindroth von Bahr (soggetto condiviso con Johannes Nyholm). Voce di Jarvis Cocker, assediato. Giganteschi (rispetto alle reali dimensioni che caratterizzano quella famiglia di coleotteri) dermestidi, allo stadio adulto e larvale, come in un musical di Bubsy Berkeley (ovvero: la Vita al Tempo del SuperBonus 110%). Arrendersi all’animalità. Voto: 8.0

- III. Ascolta di nuovo e cerca il sole. (Listen again and seek the sun.) Speranza. (Fantascienza: il farsi della post-apocalisse in corso: una parvenza di solar-punk). Regìa di Paloma Baeza. Voci di Helena Bonham Carter e Paul Kaye. Altra carta da parati: meno inquietante e più dispettosa. Fondamenta galleggianti, e vento in poppa: un’epitome della specie/civiltà umana (viene in mente la 5ª stag. di "the Affair", con Joanie Lockhart e la casa avita a Montauk assediata dalla marea crescente). Voto: 8.5


Producono i Nexus Studios (Charlotte Bavasso e Christopher O’Reilly). Scenografie (set design & art direction): Alexandra Walker (e Nicklas Nilsson). Montaggio: Barney Pilling. Fotografia: Malcolm Hadley (I) e James Lewis (II e III). Direzione dell’animazione: Tobias Fouracre (I) e Chris Tichborne (II e III). VFX: German Diez. Sets & Props: ClockWork Frog e Mackinnon & Saunders (che si occupa anche delle riprese vere e proprie e - con Arch Model Studio - fabbrica pure tutti i pupazzi).

 

Fila la lana…
Il fil rouge che “tiene insieme” le tre storie sono le ottime e a tratti eccellenti musiche di Gustavo Santaolalla (sui titoli di coda con Jarvis Cocker in veste coheniana).

 

This house is… I don’t know what it is…

Nothing but a big, massive collection of bricks.

A home is a place you never feel alone,

a home is a place love and life can mix.

But a house, oh, a house is nothing,

nothing, just a collection of bricks. 

 

Recensione.

 

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Mia Goth & Theda Bara / 1

 

The Yellow Brick Road towards... "A Free Ride", ovvero: “Non si tratta più di cosa voglio, Mitsy. Si tratta di ottenere il meglio da ciò che ho.”

 

È una folle disperazione centripeta quella che anima l’acme (non mi riferisco ai due long take da due minuti l’uno, vale a dire la struggentemente delirante esibizione soubrettistica letteralmente parrocchiale con bambinesca coreografia camp/kitsch mental-degenerata e il volto paralizzato da un freeze-frame biologico in un piangente sorriso ritratto con un primissimo piano reiterato su cui scorrono i titoli di coda, ma al monologo in piano-sequenza di sei - 6 – minuti, espandibili con un paio di minuti in più presenti prima dell’ultimo taglio effettivo, che Mia Goth regal’al mondo, facendo “confessare” il suo personaggio di fronte alla sister-in-law) di quest’ottimo “Pearl”, la 2ª parte (secondo la cronologia produttiva, mentre per quanto riguarda quella interna è la 1ª, in attesa della 3ª, che sarà tale in un senso e nell’altro), ma stand-alone, della trilogia (X, “Pearl” & “MaXXXine”) che Ti West e, a ‘sto punto a tutti gli effetti, Mia Goth, hanno creato in sintonia col - e in omaggio al - “the Texas ChainSaw Massacre & the Hills Have Eyes” worldbuilding/grindhouse-style, qui con cromatismi archers-bava-sirkiani (la fotografia è sempre di Eliot Rockett).

 
Pearl - An X-traordinary Origin Story” (Texas, 1918, sul finire della Prima Guerra Mondiale e all’inizio della Prima Grande Epidemia Influenzale da H1N1, parente alla lontana del SARS-CoV-2, entrambi a RNA a singolo filamento, l’uno, orthomyxoviridae, a senso negativo, e l’altro, coronaviridae, a positivo), girato nell’estate-autunno australe a ruota di X (del quale ne ribadisce l'incipit fordiano e la mitopoiesi pornografica, che sarà poi confermata sin già dal titolo in “MaXXXine”) nella “bubble” anti-CoViD19 sugli stessi set nord-neozelandesi utilizzati per quel film affidandosi a parte della troupe e della squadra produttiva espansa/estesa nel tempo di “Avatar - the Way of the Water” durante un periodo di relativa “pausa” nella lavorazione di quel blockbuster d’autore, montato (come il precedente e quasi certamente il successivo) con grande intelligenza (forse il modo più efficace per passare dall’attesa fuori dalla chiesa all’interno del salone delle audizioni è con uno stacco netto, e così è stato fatto) dallo stesso regista, musicato filologicamente (sempre da Tyler Bates, questa volta in coppia con Tim Williams) e post-prodotto un anno dopo, compie un passo in avanti, grazie alla performance di Mia Goth, rispetto al già lodevole capostipite: brava, bravissima, braverrima.

 
E se Mia Goth impera, al suo fianco fanno egregiamente il loro dovere Tandi Wright (la madre), Matthew Sunderland (il padre) ed Emma Jenkins-Purro (Mitsy, la cognata). A chiudere il cast principale è David Corenswet (il proiezionista).

E poi, oltre a Theda, un Alligator mississippiensis, (pro)genitrice di quello del 1979, in una piccola parte (molto più presente fuori scena di quanto compaia poi effettivamente sullo schermo), c'è anche Howard (qui interpretato da Alistair Sewell nel ruolo che fu/sarà di Stephen Ure), il marito di Pearl, ritornante dalle trincee di fango, sangue, vomito e merda del fronte europeo, dalle Ardenne alle Fiandre, passando per Verdun e la Somme: che vuoi che siano per lui un paio di cadaveri permanentemente invitati a pranzo?! Raggiungere le nozze di pietra - il 65° anniversario di matrimonio - sarà uno scherzo.

 

Ringraziamenti (oltre che per Scott "Kid Cudi" Mescudi, che co-produce con la sua Mad Solar al fianco della Little Lamb) per, tra gli altri, Alex Ross Perry, David Lowery, Eli Roth e Joe Swanberg.

 

Distribuisce A⇔≡≡≡⇔≡≡≡⇔≡≡≡⇔≡≡≡⇔≡≡≡⇔24.

 
Quand’ecco che un fotogramma - immaginiamolo immortalante Theda (Bara) nei (pochi) panni di “Cleopatra” (J. Gordon Edwards, 1917) - s’invola (qui, un superstite degli originali 150.000 frammenti costituenti le 2 ore abbondanti impressionate su 2 chilometri e mezzo di pellicola avvolta su 11 rulli) sul ciglio di una sterrata che attraversa i campi di granturco…

 

Recensione.

 

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