First Cow
- Drammatico
- USA
- durata 121'
Titolo originale First Cow
Regia di Kelly Reichardt
Con John Magaro, Orion Lee, Toby Jones, René Auberjonois, Scott Shepherd, Ewen Bremner
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Certain Men.
Non voglio viverlo, quel momento. Non ho alcun bisogno, di vederlo. Non v’è necessità alcuna, di sentirlo. Stacco a nero. La foresta smette di brulicare e bisbigliare, l’acquerugiola dal cielo più non cade. Entra la chitarra della tautologica “A Closing” di William Tyler (autore dell’intera, “neilyounghiana” - e ovviamente penso a “Dead Man” di Jim Jarmusch - e "rycooderiana", colonna sonora). Affiorano le prime ossa dei due scheletri pronti per essere dissepolti dalla loro dimora ultracentenaria di limo e humus.
- Non è un posto per mucche, questo. Se lo fosse, Dio le avrebbe messe qui.
- Non è neppure un posto per uomini bianchi, allora.
“First Cow”, il 7° lungometraggio di Kelly Reichardt, come al solito da lei scritto - col fido Jonathan Raymond, traendo la sceneggiatura dal di lui romanzo “the Half-Life” del 2004 - e montato (mentre la splendida fotografia brumosa utilizzante il formato Academy standard di 1.375:1 - vale a dire, semplificando, in 4:3 -, "contro", dentro, oltre il CinemaScope di John Ford, Howard Hawks e Anthony Mann, è di Christopher Blauvelt, sodale della regista dai tempi di “Meek’s CutOff”, e poi al lavoro, tra gli altri, in “Mid90s”), è un’ode ai dimenticati e a chi non ha nemmeno avuto la possibilità di esserlo, perché sconosciuto al mondo, se non per un amico; e in esergo al film (e quindi, ancora, "Dead Man"), William Blake: “The bird a nest, the spider a web, man friendship.”
Cookie (John Magaro), un cuoco da viaggio originario del Maryland al sèguito di un gruppetto di cacciatori di animali da pelliccia nelle foreste dell’Oregon d’inizio ottocento incontra King-Lu (Orion Lee), un cinese inseguito da alcuni russi, e lo aiuta - disinteressatamente - a salvarsi.
Nella Mitopoietica Arcadia delle Origini, la Terra di Latte e Miele (e farina, e strutto, e zucchero, e qualche mirtillo, e una spolverata di cannella), sotto alla spinta del Destino Manifesto, s’insegue il Sogno Americano, mentre scorre il Sangue (tutto maiuscolo, in quel continente!), prima di farsi denso e raggrumarsi.
Das Kapital: il West(ern) prima del West(ern), il marxsismo prima di Marx & Engels: e prima che esportatori di democrazia e, di concerto, importatori di capitalismo si diffondano e dilaghino: "vitelli" d'oro, accentramento di potere e Proprietà Privata nella Wilderness: in nuce, l'Era del Filo Spinato (open range) e quella dell'Accumulo, depauperando - oltre il pianeta - il singolo individuo (che fa moltitudine, e armento), il quale può cercare, da una parte, di sopravvivere nella Natura (e all'Homo s. sapiens), e, dall'altra, di provare a vivere nella società degli uomini (esseri umani maschi e bianchi) giocando al loro stesso gioco: rubando, sì, ma ai ricchi, per dare ai poveri, cioè a sé stesso, alleandosi grazie ad un sentimento di pura amicizia nata innocente rispetto all'obbiettivo ora comune che traguarda verso l'elevazione sociale.
…la Storia, qui, non è ancora arrivata…
“First Cow” è un gran lavoro di sottrazione che gioca col mito della frontiera e un’autentica opera d’arte sulla modernità che sfocia nella contemporaneità. Principia con un prologo placido e imponente che ricalca (cambia il mezzo di locomozione, gli orizzonti sono i “medesimi”: dal Montana s ritorna all’Oregon, il “set” naturale della quasi totalità delle pellicole della regista) specularmente quello di “Certain Women” -{qui entra in campo, scivolando controcorrente da Sx vs Dx sul fiume Columbia, al confine fra Oregon e Washington, una nave cargo mercantile portarinfuse battente bandiera cipriota, la Bellemar -[un mastodontico-sesquipedalico oggetto-(dis/ultra)umano che solca il 4° corso d'acqua per lunghezza e portata di tutto il Nord America ed appare, anche su quell'immensa e relativamente quieta arteria fluviale, completamemte fuori scala; e senza considerare il porto, che rimane fuori campo, e perciò, in un certo senso e qual modo, sostanzialmente ancor più presente...]-, così come là era aperto da un mega-treno merci che attraversava lo schermo da Dx vs Sx}-, il film precedente dell’autrice, e continua precipitando pacificamente con orrorifica tranquillità verso l’epilogo che incarna e sancisce l’esistenza di quell’ultima dimora dei due giramondo.
...Fu un caporale di vent'anni / Occhi spenti e giacca uguale...
Ed è anche un (inconsapevole ultimo) omaggio a René Auberjonois (1940-2019; "M*A*S*H", "McCabe & Mrs. Miller", "Images", "Star Trek: Deep Space Nine", "Certain Women"), con corvo, a Lily Gladstone ("Certain Women" e "Buster's Mal Heart"), la moglie (tratto d’unione fra visi pallidi e pellerossa) del sovrintendente / capo fattore [un sempre più che ottimo Toby Jones ("Detectorists"), qui in amministrativo-burocratico selvaggia parata] e al volto di Alia Shawkat ("Meek's CutOff" e "Green Room") che, le mani sporche ad escavazione completata, volge il viso ai paridi e ai fringillidi che si rincorrono fra i rami sulle cime degli alberi spogli: e dagli augelli si passa ai finferli, senza muoversi d’un solo passo, ma cambiando di due secoli, mentre - citando di sponda e parafrasando Honoré de Balzac ("...dietro ogni grande fortuna c'è un crimine...", che non a caso apre "the GodFather" di Puzo & Coppola: e ritorna, ancora, Marx, grande ammiratore dell'autore della Commedia Umana) nei dialoghi - si tenta la scalata alla fortuna cercando di dotarsi di un capitale, d’inseguire un miracolo o compiendo un (minuscolo) crimine.
The Cookie’s (s)Fortune, ovvero: “Buon Dio, Dammene un’Altra!”
Ché no, non è un paese per mucche vedove e sole, m’altrettanto certamente non è un paese per... certain men.
Assieme a quello di Claire Denis, di Paul Thomas Anderson e di pochi/tanti altri (penso alla serialità di David Simon, Matthew Weiner e Noah Hawley), quello di Kelly Reichardt è forse uno dei cinema - dal PdV "occidentale" - più necessari, oggi, per capirci qualcosa... di qualcosa.
A latere, "First Cow" è un film cui assistere in compagnia di "the Sisters Brothers" di Jacques Audiard.
9.25
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