- In un decennio d'iscrizione a FilmTV.it ho mai pubblicato una classifica dei migliori film - fra quelli cui ho avuto l'opportunità di assistere - dell'anno passato: lo faccio in quest'occasione perché il titolo è veramente troooppo fiko.
- Per una questione di praticità - nel bene e nel male - verranno prese in considerazione solo le opere considerate appartenenti al 2020 in base alla classificazione (che segue criteri non sempre condivisibili, quali essi siano) del sito che tutti ci ospita.
- 20 eventi, più 20 e più (ho assistito a 56 dei film e delle serie inseriti, e ne ho aggiunti 30 - per un totale di 86 nettamente superiori alla sufficienza, tanto avvedutamente quanto empiricamente - che non ho ancora visto o di cui ho visto troppo poco ma che già so in questa lista ci rientrano di diritto). Bisogna dare come al solito tempo al tempo e i film asiatici, sud-americani, europei dell'ovest, dell'est, mediterranei e scandinavi, russi, africani, arabi, antipodali, oceanici, polari ed extra-planetari si aggiungeranno: per ora U.S.A., UK ed Italia spadroneggiano.
Quella ch’è una solarizzazione si trasforma in un terso cielo indaco che ingoia tutto il passato. Ecco, esiste solo il presente. E, per un po’, persiste. Continua ad esistere, insistentemente. Cinguettano persino gli uccelli stanziali, anche s’è pieno inverno. Perché splende il Sole. E siamo rimasti solo noi, alla fine della storia, mentre gli alberi spogli si stormiscono transitivamente di dosso un po’ di neve dai rami. Loro stanno fermi, e il tempo li attraversa e scrolla. Come tutti quei fotoni riflessi da tutto quel fresco e bianco manto immacolato, cristallizzato. Un fottuto specchio di neve. Così morto, che potrà tornare a vivere, dopo esser fioccato, solo sciogliendosi. Brulicando...
La quinta stagione di “Better Call Saul” (Peter Gould e Vince Gilligan) titilla, costruisce, solletica, architetta, imbastisce, sovverte, cuce, espande, rinsalda, deflagra, avvince, ammalia.
Ed enucleandola: al suo centro gravitico orbita lei, Kim (Rhea Seehorn), che passa da Marge Simpson (lancia dalla balconata bottiglie di birra sul parcheggio davanti casa, e il giorno dopo scende a ripulire con scopa e paletta) a Lady Macbeth / Carmela Soprano / Nancy Botwin: da Better Call Kim a BreaKim Bad. Stupidi noi, che avevamo paura per lei. Ora è lei a farci paura.
I Figli contro i Genitori, i Fratelli contro i Fratelli, gli Amici contro gli Amici, i Vicini contro i Vicini. Il Popolo contro la sua Cultura, la sua Scienza, la sua Storia. Assimilazione, Diluizione, Sparizione di una Parte del Popolo. Una divergente distorsione lungo la (nostra?) linea spazio-temporale principale. Ed eccolo, il piccolo Philip...
“I May Destroy You” - considerando (per citare uno dei passaggi fondamentali della catarsi finale) la fame e la sete, le malattie e le guerre che punteggiano e pervadono il mondo - è la serie del momento, nel senso di momento socio-storico-politico, nel senso dello zeitgeist “occidentale”, tra Londra e Ostia Lido, nel senso ch’è la serie che rimarrà come riferimento per quando fra un quarto di secolo si vorrà spiegare il trapasso dagli anni dieci agli anni venti in tema di Me Too (e, collateralmente, di Social Media Addiction, Black Lives Matter, Enby e Framily; dopo GoogleGänger, MansPlaining, Revenge Porn, InfoVore, Ghosting, Cli-Fi e Fake News, e in attesa di Cancel Culture).
Potrei distruggerti: con una vera e concreta azione violenta o con una falsa ed inventata accusa penale. In un continuo, parossistico e contro-referenziale gioco serio e grave di scambio delle parti tra chi subisce l'azione o l'accusa e chi la compie o proferisce, la serie-capolavoro di Michaela Coel inquadra lo Stato delle Cose e lo restituisce frammentato e limpido, elaborato e profondo, collassando e risorgendo in un finale prismatico in cui le epifaniche agnizioni cortocircuitano e deflagrano sino a ricomporre il reale nella sua complessità.
E una pianta di pomodori in vaso che compare a scandire il tempo che passa - toh, è "già" passato - poggiata in un angolo contro la parete in mattoni di uno spoglio cortiletto interno urbano è un atto poetico ed esistenziale.
Bella, consapevole, coraggiosa, cruda, divertente, lucida, profonda, sorprendente, viscerale. La serie, e la sua autrice.
Las Vegas, 1966. Splendido piano-sequenza su steady-cam in set reale - da open air, con piccoli inserti in CGI, a “studio” - con la tromba di Quincy Jones (che in quel momento aveva abbandonato la Mercury Records per musicare la HollyWood di “In Cold Blood” e “In the Heat of the Night”) nella sua versione della “Comin’ Home Baby” di Ben Tucker a tenerne il passo e scandirne l’incedere e l’andatura. Ecco che sta per farlo. Sale un paio di gradini. Adesso lo fa. Un altro scalino. Sta per girarsi. Rallenta un poco. Ecco che ora si volta. Un gradino ancora, rallenta sin quasi a fermarsi e… Taaac! Incrociando un abito d’alta moda (tipo uno chanel o un “ma che ne so, qualcosa del genere”) mentre sale l’ampio e proteso sul vuoto scalone principale del Mariposa, l’hotel-casinò che per l’occasione ospita gli U.S. Open di scacchi, il diciassettenne sguardo di Elisabeth “Beth” Harmon è rapito e preso all’amo (così come il suo cervello di fanciulla ospite dell'orfanotrofio fu già ben assuefatto para-"istituzionalmente" alle benzodiazepine) da quell'oggetto indossato e deambulante del desiderio, e i giroscopici muscoli oculari comunicano a quelli del collo ch’è ora di darsi una mossa - anche contro la decenza, il ritegno, il pudore, il riserbo, il decoro, il contegno, la costumatezza, le belle maniere e la giusta ed appropriata creanza - e di mettersi di buona lena a far ruotare di 90° la testa che li ospita ché altrimenti sarebbero schizzati fuori dalle orbite per raggiungere il loro obbiettivo. Questo è territorio “Mad Men”: per lo spessore dei caratteri, per come questi si muovono in relazione al loro ambiente, per la gestione dello zeitgeist. (Quando per incapacità, noia, inanità, mancanza d’argomenti o preconcetta benevolenza verso un film se ne scrive, ad un certo punto, “ottime le scenografie e i costumi”, c’è da storcere il naso. Ecco, il lavoro fatto sulle scenografie e in particolar modo sui costumi in “the Queen’s Gambit” è impressionante, prezioso e di alta levatura: queste due sezioni della macchina cinema raggiungono qui il livello di personaggio, e “recitano” - per mano di chi le utilizza - pure bene.) Questo è un semi-capolavoro coinvolgente ed appassionante di traslazione/adattamento/interpretazione/traduzione/reinvenzione/arrangiamento (da Walter Tevis) e ritrattistica. Grazie, Scott Frank (che già con “GodLess” - dagli anni ‘80 del XIX secolo è passato ai ‘60 del XX: lo attendiamo per i ‘40 del XXI i zona SF, che del resto ha lavorato allo script di “Minority Report” - aveva dato prova del suo valore).
E poi: Anya Taylor-Joy, Marielle Heller, Bill Camp.
Nell quarta stagione di "Fargo" i bisavoli dell’Anonima Sequestri, nell’incosciente doppio avvitamento all’indietro con triplo carpiato in avanti (bando alle forze centrifughe e di gravità!) eseguito in fase di scrittura dal creatore e showrunner Noah Hawley (“Legion”) e dalla sua squadra di sceneggiatori (e Fadda in sardo significa anche “colpa, errore, falla”), dopo aver ammazzato, a cavallo dei due secoli, un bel po’ di anarchici per conto dei borboni prima e dei savoia poi e, a secolo breve ben avviato, di comunisti per conto dei fascisti, se ne vanno nelle grandi pianure U.S.A. (Kansas City, Missouri: oggi è il 1950) ad uccidere ebrei, irlandesi e afroamericani.
“We Are the Sea.” Glory! Glory! Hallelujah! Ma questa è la storia di Ethelrida Pearl Smutny (E'myri Crutchfield).
Ah, già: e di come Satcha divenne Mike. [Scarrella la semi-automatica.]
Chi racconta la (propria) storia, e chi la Storia (di tutti) crede, illuso - fra ultime flatulenze, così come ultime espirazioni, all’ombra delle reiteratamente infinite e declinate a seconda del contesto storico Esecuzioni Senza Verdetto Sotto i Re Mori di Granada -, di mandarla avanti, mentre l’uomo/presenza nell’oscurità, in questa storia come al solito più vera del vero e completamente inventata e perciò verosimile, tal Thomas Roach, lo schiavista, il fantasma, la maledizione, non è, mai, esistito, nella Realtà, “così come” gli U.F.O. della seconda stagione, al contrario di Henri Regnault, che, essendo una persona realmente vissuta, ha potuto trovare concretamente la morte, a 37 anni, dismettendo i panni di pittore per quelli di franco tiratore in quel di Buzenval nel corso dell’omonima battaglia durante la guerra franco-prussiana nel gennaio del 1871.
King of Tears. “Our Plan for the Nation. Fine della Storia.”
E per un soffio la Diners Club non si chiamò Doctor Senator.
La ricompensa del gestire un ranch. Il più bel paesaggio.
Kelly Reilly: a LandScape.
Quando consideri il dolore che causi a una persona colpa della persona, questo è essere malvagi. (Beth Dutton a Jamie Dutton.)
E sempre: essere più cattivi del male, smettere di colpire e iniziare a pestare.
- Chi sfamerà questo mondo quando noi non ci saremo più? - Nessuno. Questo mondo andrà incontro alla fame. (Lloyd Pierce e John Dutton.)
Con questa terza annata la serie creata da Taylor Sheridan & John Linson supera sé stessa, ed è molto raro che accada: se opere come “Mad Men”, “the Sopranos”, “Fargo”, “the Wire” e “Better Call Saul” convincono sempre, anno dopo anno, confermandosi ad incliti livelli rimarchevoli, per lavori che si collocano nella fascia immediatamente inferiore (ma di questo passo il gap verrà presto colmato) è raro accada questo incremento di potenziale cercato, sviluppato ed espresso: e quel che avviene qui è qualcosa di veramente potente.
Ciò che sta affrontando questo posto non è un nemico. È una prospettiva. È uno spostamento dei valori. (Beth Dutton a John Dutton.)
Kill the King.
Smettere di colpire, e iniziare a pestare.
Sapendo che l’azione è reciproca.
Essere più cattivi del male, e sapersi godere ancora l’alba.
Pensando che non c’è medicina migliore di un tetto di stelle.
Il film parte con uno “spoiler” su “the Lottery” (ma sarebbe come spoilerare “Romeo e Giulietta”, “un Fatto Accaduto Presso il Ponte di Owl Creek”, “il Giro di Vite” o “la Sentinella”) e prosegue narrando, romanzandola, la genesi di “Hangs-A-Man” (1951), un romanzo di de-formazione - tanto quanto il successivo “the Bird’s Nest” ("Lizzie") è un romanzo di ri-formazione - e una storia sulla quale Shirley Jackson ritornerà un lustro dopo col racconto breve “the Missing Girl”. Assonanze col caso irrisolto della scomparsa di Paula Jean Welden [1928-1946(?)], una studentessa di 18 anni del Bannington College in Vermont, la stessa università in cui all’epoca insegnava Stanley Edgar Hyman (1919-1970), il marito della scrittrice di racconti e romanzi.
Josephin Decker (texana classe ‘81, autrice mumblecore di “Butter on the Latch”, “Thou Wast Mild and Lovely” e “Madeline's Madeline”) spiana ed appiana un poco il suo stile, e la classicità che traspare ed appare da questo livellamento, però, è abitata e mossa dal corpo e dal volto di Elisabeth Moss (e ↓↓ uno): il long take a camera fissa incentrato su tutti i 25 e passa muscoli e nervi facciali della proude bride in attesa del giudizio/verdetto da parte dello sposo è un minuscolo, immenso film nel film…
Sulle orme del Jacob Riis di “Come Vive l’Altra Metà” e dei James Agee e Walker Evans di “Sia Lode Ora a Uomini di Fama” – ma è un arco costituzionale, per rimanere agli U.S.A., che va da John Steinbeck, William Faulkner e John Dos Passos e giunge a Cormac McCarthy, Daniel Woodrell e Stephen King, e al già citato in esergo William T. Vollmann, di cui vale qui menzionare le 3.300 pagine di “Come un’Onda che Sale e che Scende” (pubblicate in Italia nella loro versione ridotta a 1.000) dedicate alla violenza – il regista, sceneggiatore e produttore Antonio Campos si getta – complice la solida, impressionante, luminosa impalcatura architettata da Donald Ray Pollock dieci anni prima, la cui immensa profondità di partenza è restituita in pieno dalla voce narrante che appartiene allo scrittore stesso, il quale sembra essere nato apposta per fare anche questo mestiere, ovvero raccontare storie quale voce narrante e non solo come romanziere – in vent’anni di storia patria, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al pieno impantanamento anticomunista di esportatori di democrazia e libertà nella jungla vietnamita, affiancandosi nella vita della povera gente là dove gli Appalachi vanno a sfaldarsi verso ovest e le grandi pianure, e realizzando un’opera – la sua migliore sino ad oggi, al contempo tanto triste (disperante) quanto (a suo modo, per certi versi) consolante: ovvero sì fatalista, ma pure ricca di un protagonista artefice, in parte, del proprio destino, grazie al libero arbitrio che ricerca continuamente, instancabilmente, pervicacemente l’esecuzione (nell’accezione migliore) della speranza di un po’ di pace – ch’è esattamente la realizzazione, la concretizzazione, la rappresentazione, l’inverazione del titolo: the Devil... All the Time.
Meraviglioso finale pandiculante (stanchezza e sonno, e fame, e pace… e, con la sfiga che ha, probabilmente a dargli un passaggio, al protagonista, su quel pulmino VolksWagen hippie-fricchettone, sarebbe potuto essere Charles Manson, senonché in quel periodo stava usufruendo di un soggiorno di villeggiatura gratuita e forzata in quel di McNeil Island) che cronosismaticamente – si pensi all’altrettanto splendida chiusura del “the Sisters Brothers” di Jacques Audiard (tratto da Patrick deWitt), che a sua volta riecheggia “Here” di Richard McGuire, le stanze kubrick-clarkesche alla fine dello S/T di “2001: a Space Odyssey”, la seconda stagione di “Fargo” di Noah Hawley e la terza annata di “True Detective” di Nick Pizzolatto – intreccia passato solo sognato e mai avvenuto o vissuto da altri e futuro ricordato tutto da immaginare e rivivere.
“Horse Girl” (dolce, ma terribile, commovente e doloroso, roseo/ameno, ma non arreso, e triste, ma - attenzione: sto per usare la parola “resiliente” - resiliente) termina a quattro quinti del suo percorso, venuta fisiologicamente, ambientalmente ed epigeneticamente a mancare quasi ogni funzione discernente (deficit del filtro sensoriale) dei lobi frontali e temporali, del talamo, ipotalamo e ippocampo, del sistema limbico e della corteccia cerebrale. Ed ecco che allora, poi, ricomincia, “(di/ri)spiegandosi” lungo la... alienante psicosi percettivo/cognitivo cronica e andandosi a "completare".
E lo spazio-tempo del PdV personale collassa in un coacervo entropico in cui Moebius s'incista in Escher: e la fuga improbabile dall'ultimo ricovero "forzato" (TSO) comincia là dove (la storia narrata da) il film "finisce", ovvero intorno all'ora e un quarto, con la buonanotte da parte dell'infermiera, e la prima apparizione del cavallo fuori dal negozio all'inizio dell'opera, che si ricollega con quella pre-finale, e l'incongruenza tra quanto afferma il dottore ("Sei qui da 72 ore") e ciò che sostiene lei ("Sono qui da ieri sera"), ché il loro 2° incontro è in realtà il 1°, etc... È sì il PdV di una schizofrenica, ma il film lascia campo ed opportunità alla propria "ricostruzione", almeno in parte...
La nebbia avvolge le sponde del lago. Lei chiude gli occhi sul molo, e la bruma - mentre osserva sé stessa nell’atto di scrivere - scompare. E ciò che resta e rimane, apparendo, è - ammorbidite con un telo diffusore le ombre in piena luce del Sole - il film. Con un orso alla soglia.
Quando la protagonista parla di normalità non la contrappone al divismo glam, allo “star” system, al denaro, al benessere, all’agiatezza, ma al fatto che il Cinema (la writers' room, il set, la cabina di montaggio), se vissuto in maniera totale, può essere un’ininterrotta e non voluta seduta di psicoanalisi di coppia: la messa in scena del sé… e di quel che non si sarebbe mai pensato e non si avrebbe mai avuto l’occasione di essere.
Probabilmente la prestazione più impressionante della sempre eccezionale Aubrey Plaza, che raggiunge l’acme nel sottofinale del “Facciamone un’altra” durante le riprese del film nel film nella sceneggiatura nel film.
Film bipartito la cui seconda parte è l’elaborazione del pregresso fuori campo al quale non abbiamo assistito antecedente alla prima parte, “Black Bear” è un’opera liminale, stratificata, diramante, complessa per struttura (particolare) e profonda per contenuto (universale).
“Finché ho l’illusione del libero arbitrio… ho l’illusione del libero arbitrio.”
The Glitch in the Machine: BreakDown of the Determinism. Accelerando… Contro l’Infaticabile Morte e la Sicura Estinzione. Oltre il Collasso della Funzione d’Onda: Osservare (modulando il Principio d’Indeterminazione di Heisenberg e quello di Complementarità di Bohr e scardinando il Paradosso di Schrödinger, innestandol’insieme su scala macroscopica e cosciente) è Creare.
“La sensazione che stessi partecipando alla vita… era solo un’illusione. La vita è soltanto qualcosa che vediamo scorrere. Come immagini s’uno schermo.”
Il determinismo non implica per forza di cose l’assenza del libero arbitrio: il fatto che tutto sia già pre-determinato, rendendo il futuro immutabile quanto il passato, non infrange, non disinnesca e non detronizza il libero arbitrio: se tutto è già scritto, ciò non esclude che siamo stati, siamo e saremo noi a scriverlo, compiendolo. Un unico universo (letterale pleonasmo etimologico) governato dal determinismo non può impedire al libero arbitrio di esercitare la funzione di scrivere sé stesso mentre si compie. Così come, altrimenti, un multiverso non è per forza di cose garanzia di libero arbitrio, ma può essere costituito da infiniti sottoinsiemi deterministici.
- “Se fosse vero... cambierebbe letteralmente ogni singola cosa!” - “No. Se fosse vero… non cambierebbe assolutamente alcunché. In un certo senso... è proprio questo il punto.”
Il male è già ben presente nel mondo, e in particolare in quello consapevole degli esseri umani: il male accade e viene perpetrato già più che a sufficienza e con abbondanza di orrori dalle persone sulle altre persone e sull'ambiente - sociale e naturale - che le sostiene, e non c’è alcun bisogno di tirare in ballo e in gioco e in causa il soprannaturale per spiegarne la presenza e la natura (così come non c'è alcun bisogno del conforto e della consolazione di una “Washington Square” dei Village Stompers ascoltata alla radio con una casuale cadenza quindicennale ch’è coincidenza fortuita e non frutto animista di un intervento fantasmatico, e che ritorna nello “scherzo” del contro-finale): il soprannaturale è una scusa per difendersi da, e, in seconda istanza, per combattere, e, in limine, per interpretare e spiegare, da una parte, la casualità indifferente del mondo naturale, e, dall’altra, la causalità umana dettata da idiozia, cattiveria, egoismo e, ancora, indifferenza. Parimenti, indiscutibilmente, le fiabe e le favole nere esistono anche, oltre al piacere “perverso” di somministrarle, perché servono: servono, elaborando il male, per renderlo più facilmente assimilabile: l’uomo nero, inesistente, fa sempre più paura del baffetto imbianchino d’acquarelli mancato, del baffone panzuto, del pelato batrace tritacco io-minchione o, in piccolo, dei tanti Monsieur Verdoux/Charles Manson… Detto questo, rimane difficilissimo far accettare allo spettatore solo attraverso i dialoghi, la recitazione e la regia (montaggio, fotografia, musica) quel che è facile far accettare al lettore attraverso la narrazione del narratore onnisciente anche se reticente. "The Outsider" ci riesce.
Parimenti, in pochi possono permettersi di trasporre al cinema Stephen King tradendolo (c'era quello… ma sì… com’è che si chiamava, ah già, sì, ecco: Stanley Kubrick....), e il modo migliore è tradurre l'inchiostro su cellulosa in sali d'argento su celluloide (o informazione 0/1 su supporto magnetico da trasformare in pixel su chermo) eliminando qualcosa, magari, ma senza aggiungere o modificare altro (fa eccezione, ad esempio, a parte le premesse, la struttura portante, lo svolgimento e la morale di “the Shining”, il finale del “the Mist” di Frank Darabont: diverso, anzi opposto, rispetto a quello kinghiano, ma altrettanto, se non più, forte), e Richard Price (“the Night Of”), con la sua nuova mini-serie, “the OutSider”, con precisione chirurgica degl’incastri e dell’evoluzione del racconto, esattezza e sincronicità dei dispositivi e messa in scena classica questo fa, e in maniera fantastica: per operare la propria traduzione per il Cinema dell'omonimo ed ottimo romanzo kinghiano di partenza (il cui primo terzo, se non la prima metà, può accampare diritto di rientrare a pieno titolo nella decina - se non forse cinquina - di cose migliori scritte da King, assieme ad “It”, “Insomnia”, “From a Buick 8”, “Revival” etc...), chiama al suo fianco a collaborare (chiamiamolo defatigamento) Dennis Lehane ("Mystic River", "Shutter Island"), già al lavoro s'una serie tratta da un'opera di King, “Mr. Mercedes” (trilogia di romanzi), che con “the OutSider” condivide un personaggio principale, Holly Gibney, qui interpretato da Cynthia Erivo: è lei, la deuteragonista, ad essere l’altra “estranea”, il carattere “fuori dagli schemi” e, giustappunto, l’outsider, oltre all’antagonista, della storia.
Il dittico iniziale è, grazie certamente alla regìa di Jason Bateman - anche attore e produttore -, eccellente, e a tratti assume le sembianze di un piccolo capolavoro “a sé stante”.
La prima stagione di "Lovecraft Country", la serie creata per HBO da Misha Green
- autrice di “UnderGround”, per la WGN, sulla - tanto metaforica quanto concreta, tanto informale ed ufficiosa quanto proprio per questo tangibilmente funzionale e concretamente utile - Ferrovia Sotterranea, la rete di itinerari segreti e sicuri e luoghi di sosta e ristoro protetti creata ed utilizzata durante il XIX secolo (con un picco di lavoro avvenuto prima della Guerra di Secessione che dividerà gli U.S.A. in Confederati ed Unione) dagli schiavi afroamericani in fuga dai territori del sud verso gli stati “liberi” del nord, in Canada e in Messico con l’aiuto di una parte della popolazione bianca abolizionista, organizzazione sulla quale lo stesso anno Colson Whitehead incentrerà il suo “the Underground RailRoad”, col quale porta a casa il Pulitzer, il National Book e l’Arthur C. Clarke, premio, quest’ultimo, che fu assegnato per la prima volta a “the HandMaid’s Tale” di Margareth Atwood, fondato s’un argomento simile: con la questione di genere e religiosa in vece di quella razziale -,
è composta da 10 episodi da 1 ora l’uno che si dipanano cronosismaticamente dal massacro di Tulsa del 1921 sino all’alba del tramonto della cosiddetta Era delle Leggidi Jim Crow, un sistem(at)ico e sempiterno coacervo di provvedimenti di segregazione razziale, ovvero apartheid, emanati da politici, governanti e legislatori del Partito Democratico assurti al potere nel Sud degli Stati Uniti d’America dopo aver vinto la Guerra Civile contro gli schiavisti e rimaste in vigore sino alla metà degli anni ‘60 del XX secolo, quando vi posero fine prima il Civil Rights Act (1964) e poi il Voting Rights Act (1965), anche se...
Basata s'un romanzo di Matt Ruff, autore degli splendidi e fondamentali “Acqua, Luce, Gas - la Trilogia dei Lavori Pubblici” e “Set This House in Order”, è al contempo l’opera seriale più canonica (con accezione più neutra che dispregiativa, nel senso di classica, nella norma della media contemporanea) e più sperimentale di sempre per quanto riguarda l’inserimento e l’utilizzo della colonna sonora musicale (e letteraria: prosa, poesia, saggistica, cronaca) non originale inframmezzata e innestata col montaggio narrativo: Howard Phillips Lovecraft (il razzista kantiano dei selvaggi - e perché no pure gli ebrei - inferiori e senza morale), James Baldwin (I’m Not Your Negro), Alezandre Dumas padre (il negro, il mulatto, in quanto per un quarto - la nonna paterna - di discendenza afro-caraibica, come ben sa il dottor King Schultz; “Non vi sono né felicità né infelicità assolute in questo mondo, vi è soltanto il paragone tra una condizione e l'altra, ecco tutto…”: ok, perfetto. E poi continua: “Solo colui che ha provato l'estremo dolore più profondo è atto a gustare e in grado di sperimentare meglio la più grande felicità suprema…”: beh, dai, scriveva molto, e a raffica, quindi non sempre ci azzeccava...), Gil Scott-Heron, Josephine Baker, Judy Garland, le amazzoni del Regno di Dahomey (oggi compreso nell’attuale Benin, con echi non intenzionali, ma evidentemente coincidenti, con l’attuale situazione nigeriana) - con Hippolyta (Aunjanue Ellis) che se la infila da sé, la corona-elmo, come Napoleone… -, Sun Ra (la natural-jazzistica visionaria fantascienza blaxploitation e afrofuturista di “Space Is the Place”)...
…e Sonia Sanchez [“Catch the Fire (for Bill Cosby)” - con la seconda parte del titolo recentemente espunta... - musicata da Laura Karpman con Raphael Saadiq e la voce di Janai Brugger]: “Brother/Brotha, Sister/Sista, here is my hand. Catch the fire, and live.”
E, sui titoli di coda di ogni episodio, folgorante e rispettosa, la versione di Alice Smith di “SinnerMan”, lo spiritual afroamericano codificato e immortalato da Nina Simone [1933-2003, che con Billie Holiday (1915-1959), Ella Fitzgerald (1917-1996), Etta James (1938-2012) e tante, tante, tante altre, su, su, su, fino all’oggi di Erykah Badu (1971), è stata, oltre che viverla e narrarla, la storia di quegli U.S.A. territorio dell'inflazionata definizione - così abusata da essere divenuta pleonastica e al contempo destituita di senso, quando invece una goccia di verità autentica la contiene ed esprime - di "cradle of the best and of the worst".
Lui e lei, Sope Dirisu (“Gangs of London”) e Wunmi Mosaku (“Lovecraft Country”), abbastanza inglesi da sognare in inglese, rivendicano come patria l’Inghilterra Piuttosto che Voi, dove “voi” sta per -[date le cicatrici ornamentali ottenute per scarificazione, data la (top)onomastica (Nyagak è anche un fiume del nord Uganda, affluente del Nilo Bianco), dati alcuni cartelloni pubblicitari bilingui in francese e arabo (quest'ultima a guisa di lingua franca) visibili durante il passaggio di confine (probabilmente verso la Repubblica Centrafricana ad ovest, presso il crocevia con la Repubblica del Sudan a nord), dato il linguaggio parlato dai due protagonisti (radici swahili, nilo-sahariane, ubangiane del niger-congo: a conoscerne mezza...) e… data la sinossi/flano del provider-book]- la Repubblica del Sudan del Sud (interpretata dal Marocco), matria animista e cristiana, lacerata da un lustro di guerra civile (oltre a tutte le altre antecedenti...) scoppiata fra le etnie Dinka e Nuer.
“You're the beast, I'm the butcher.”
Tanto in gran parte canonico, quanto per buona porzione singolare, l’opera prima di Remi Weekes raccoglie le più incidenti e necessarie istanze storiche, politiche e sociali del miglior cinema militante contemporaneo, da Jordan Peele (“Get Out”, “Us”) a Ken Loach, passando per Mati Diop (“Atlantique”) e Abdellatif Kechiche ("Venus Noire"), con ulteriori - per ragioni diverse tra loro - assonanze che sorgono alla memoria (“Vivarium”, “Guava Island”, “Zombi Child”, “Go Home - A Casa Loro”, “the Last Black Man in San Francisco” e… “Tolo Tolo”), fra il retaggio spiritual-culturale di chi emigra e il PdV di chi (non) accoglie, mettendole in scena attraverso una sintassi adulta e consapevole che allestisce un'epifania "famigliare" sull'assunzione di "colpa" - elaborandola per emanciparsene - da parte di "innocenti" che muovono passo nell'unico mondo (inania regna, per dirla con Virgilio) in cui ci è dato vivere, quello che forgiamo ogni giorno con la consolatoria prassi - sincera o egoista che sia - del nostro (e "loro", vale a dire umano) ben/buon agire o la consuetudine della nostra (e "loro", ovverossia disumana) indifferenza - al meglio - o - al peggio - semplice, automatica, innata, coadiuvata, rivendicata cattiveria.
Daniele Vicari ("Sole Cuore Amore"), Massimo Carlotto, Matteo Martari, Thomas Trabacchi (finalmente un ruolo della vita, per lui: un'impersonificazione ch’è una via di mezzo fra Teo Teocoli e Charles Manson, con borsello in pelle allegato), Valeria Solarino...
Blues lacustre (ne esiste un altro?), Calvados (che dalla Normandia scende in Costa Azzurra per farsi assaggiare dall’Alligatore), criminalità organizzate varie (cosa nostra, camorra, 'ndrangheta, mafia albanese, cartelli colombiani e le “attività postume” della Mala del Brenta, più ex terroristi rosso-bruni fuoriusciti/rientrati) in collusione/competizione con la politica e l'imprenditoria locale (traffico di rifiuti tossici, droga e prostituzione) sono...
(con la galera)
...gli argomenti, i personaggi e il contesto de “l’Alligatore”, un noir-western pad(ov)ano che trova linfa risorgiva là dove sorge l’ultimo tassello del Bilanciere del Veneto (il disco di ghisa di Porto Marghera) cementificato a morte e la pianura sfinisce stretta fra le prime dolci pendici dei Colli Berici ed Euganei e l’inizio di un accenno di laguna veneziana oltre il dedalo di canali, e al di là del mare Adriatico la Dalmazia e i traffici di contrabbando con l’ex-Jugoslavia.
Questa prima stagione è interamente e liberamente fruibile dal catalogo di RaiPlay.
Il finale di questa seconda stagione (e mi riferisco al dipanarsi delle trame e degli eventi dell’intero episodio messo a chiusura dell’annata, non alla singola ultima scena) - così come avvenne con quello della prima - risulta essere, ad una superficiale interpretazione, consolatorio ed accomodante, in special modo nella misura in cui sembra voler venire a patti con l’establishment e, nel farlo, ritrovarsi a promanare un’aura di compromesso col potere, quando in realtà l’agire del protagonista non è altro che il mezzo migliore per raggiungere il suo scopo: all’apparenza siamo in zona Mike Newell, ma in verità pulsa un cuore à la Ken Loach.
- Era una persona adorabile, tuo padre. E sì, non aveva molto, ma era sempre felice. - Aveva mamma. Era quello il suo segreto. Non lo comprendevo, da piccolo, crescendo. Non avevamo soldi, ma era sempre molto positivo. Non lo capivo, prima di Lisa, ma… è tutto. Avere qualcuno da amare. Non ti serve altro. Te ne accorgi solo quando non c’è più.
L’opera seconda dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, da loro scritta e diretta, è un'opus magnum da rigattiere, un film-saccheggio pretenziosamente derivativo all’ennesima potenza -[vaghezze recuperate dal catalogo di cassette degli attrezzi di Jorgos Lanthimos (“Kynodontas”), Michael Haneke (tutta la teoria, da “il Settimo Continente” e “Benny’s Video” sino a “il Nastro Bianco” e “Happy End”), Ulrich Seidl (“Canicola”, “Import/Export”, “Paradise Love/Faith/Hope”, “Im Keller”), Todd Solondz (dal dittico "Happiness"/"Life During WarTime" a "Dark Horse", passando per il polittico "Palyndromes" e giungendo a "Wiener-Dog"), Harmony Korine (“Gummo”, “Julien Donkey-Boy”), Larry Clark (“Kids”, “Ken Park”), Carlos Reygadas (“Batalla en el Cielo”, “Post Tenebras Lux”), etc…, col clade comune risalente a - no, non pronuncerò quel binome e cognome, PPP - due altri fratelli, Jacob e Wilhelm Grimm]-, ma con una propria urgenza ed esatta, puntigliosa restituzione (come se Dino Risi avesse ricevuto un innesto da Tod Browning, ed entrambi nel processo avessero perso qualche importante sequenza nucleotidica atte a sintetizzare senso e dissenso) della realtà.
I loro protagonisti sono tutti bambini. Tanto i pre-adolescenti quanto gli adulti fatti e (s)finiti: genitori in parte assenti, inadatti, deboli, impauriti, spaesati, incompiuti, e perciò pericolosi, per sé stessi e per gli altri, a prescindere da qualsiasi e qualsivoglia, let(ter)ale, cattivo maestro (violenza verso gli altri, sesso sbagliato, storto e cattivo, e violenza verso sé stessi).
Ai fratelli D’Innocenzo, scrittori e registi, li salva il/un cinema: il volto umano: gli attori, gli attori, gli attori. Perché il loro, a conti fatti, rimane un buon film. Un piccolo passo avanti dal PdV stilistico e formale rispetto al già concretamente compiuto “la Terra dell’Abbastanza”, mentre sotto l’aspetto contenutistico e sostanziale siam lì, vale a dire, anche in questo caso, a buon punto.
In esergo, un ormai proverbiale incipit paradossalmente coeniano: "Il film è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata.” La solita storia, la vita che arranca.
Giunta alla terza stagione, l’unica cosa che conta ed importa della trama, in “Killing Eve”, è la relazione (fisica-a-distanza) fra Eve e Villanelle: il thriller, il crime, la spy story, il drama, i colpi di scena e la suspense sono mcguffin a corollario e nient’altro: null’altro conta e vale.
Il cinema - così come la letteratura - è da sempre, per sua intima natura fondante, Pornografia della Memoria [il termine - un sostantivo quasi neutro, derivando dal greco pòrne-graphè, ovvero prostituta + disegno/scritto - è qui utilizzato nella sua accezione, diciamo, “psico-filosofica”: esegesi della (ri)capitolazione, rivelazione/epifania della de-compartimentazione e tanto stupro quanto ri-nascita (le cattive azioni non cancellano le buone, così come le buone azioni non ripagano delle cattive) del segreto (in)custodito: eternal sunshine of the spotless mind], in imperterrita ricerca e riproposizione della realtà che rappresenti un’univoca verità che si stagli sopra le parti in causa e in gioco, ma che non per questo risulti per forza semplicemente accessibile: attraverso i suoi propri e vari dispositivi ed artifici inquadra l’ininquadrabile: i flashback che analetticamente protendono i loro pseudopodi spaziotemporali là dove il ricordo diventa sfumato a causa dell’eterno processo di ri- e sovra- scrittura qual è il ricordare, le ellissi che instaurano un grado ulteriore di significato e senso là dove in apparenza questi erano secretati e celati dalla polvere del tempo, dall’agire del caso e dalle intenzioni degli uomini, e la tangibile e costitutiva onnipresenza, volente o nolente, del multiplo-univoco PdV onnisciente dell’autore, espresso attraverso un intermediario (il voice over del narratore extra-diegetico) o “solo” grazie allo sguardo attivo (e attante) del regista (e di conseguenza dello spettatore/lettore).
“War is about money. Money is about war.”
E così, la pervicacemente ingenua didascalicità (l’utilizzo del coppolianamente celeberrimo - uno stereotipo di per sé - brano wagneriano presente all’inizio del terzo atto de “la Valchiria”, il secondo dramma musicale che compone il ciclo dell’Anello del Nibelungo, è stato inserito con evidente modalità anti-climatica in risposta al e in dialogo col precedente uso "folcloristico-commerciale" del conradiano - e kennedy-johnson-nixoniano - film-monstre di Coppola - limine tra consapevole riappropriazione della propria storia pre-masticata da altri, ma vissuta da noi, e... sempiterna e cosmopolita tamarritudine - con la scritta al neon riportante il nome apocalittico-presente del locale a fare da sfondo alla postazione del DJ durante la sua performance dal palco: un po' come se una discoteca in Italia negli anni '80 si fosse chiamata la Ciociara... E non che certo reputi impossibile la cosa...) e l’innocentemente strumentale semplificazione (l’incerta geografia vietnamita - interpretata dall’equivalente topografia thailandese - che percorrono i protagonisti per spostarsi da “Voi Siete Qui” ad “X” col conseguente apparentemente agevole e veloce ritrovamento del filone di lingotti d’oro venutosi a creare a causa dello sfondamento della valigia/baule che ha disperso il suo carico lungo lo smottamento che ha interessato il declivio collinoso sul quale la jungla ha in 40 anni ripreso dominio dopo il passaggio di tonnellate di Napalm-B e Agente Orange) messe in atto da film come “Miracle at Sant'Anna” (schifosamente sottovalutato quando non stupidamente denigrato dai più) e “Old Boy” (ma si pensi anche a “Malcolm X”) sono qui riproposte all’ennesima potenza anche fuori dal contesto “statunitense che ambienta il proprio film in Europa” (si consideri l’accolita di mentecatti che, per criticare negativamente un film come “To Rome with Love”, frignando raglia stracciandosi le vesti: “Questah non è l’Italiaaahh!!11!!”, quando in realtà stanno sputandosi allo specchio) e “statunitense che gira un remake di film asiatico ambientandolo in U.S.A.”, e il loro operato cristallizza, precipita e catalizza un concentrato di segreti pulcinelliani e poesche lettere rubate [ritornando alla Pornografia della Memoria: solo il regista, gli spettatori e i due diretti interessati sa(pra)nno com’è morto Norman “Stormin' Norm” Holloway, l’unico dei 5 “fratelli di sangue” ad essere rappresentato “forever young” per evidenti, motivate, ragionevoli e stilisticamente interessanti scelte artistiche] e un distillato di stereotipati momenti in cui topoi, cliché ed espedienti comuni rilasciano tutto il loro deflagrante potenziale sintatticamente classico (il campo minato di Cechov), da una parte, ed emozionalmente didattico (i contestualizzanti, furibondi e commoventi inserti storiografici e cronachistici di repertorio tra metà anni ‘50 e fine anni ‘70, con particolare concentrazione di dati e note a piè di pagina da fine anni ‘60 a inizio anni ‘70: il massacro di My Lai, Malcolm X, Martin Luther King, Angela Davis, Ho Chi Minh, le uccisioni degli studenti da parte della guardia nazionale alla Kent State University in Ohio e da parte della polizia di stato alla Jackson State University in Mississippi, i bonzi vietnamiti e i gonzi alla White House, la caduta di Saigon e i profughi sud-vietnamiti), dall’altra.
Forte di una pacata, ma a tratti percussiva e lancinante, progressione orizzontale che avviene grazie alla verticalità di episodi più o meno auto-conclusivi, la prima stagione (che si potrebbe considerare come una mini-serie fatta e finita, poi accada quel che accada) di “Tales of the Loop”, la serie scritta (interamente) da Nathaniel Halpern [svezzatosi al lavoro su “Legion” nella scuderia di Noah Hawley ("Fargo"), e la cosa si nota] traendola dai lavori, più tardi raccolti in alcuni art book, di Simon Stålenhag (illustratore, digital designer e concept artist che ha sviluppato la propria poetica incrociando gli acquerelli ornito-naturalistici di Lars Jonsson con le prolusioni dai futuri anteriori di Ralph McQuarrie e Sid Mead, finendo col far sbocciare un Nuovo Mondo dalla peculiare ambientazione costituita da uno sfondo di dolce nostalgia campestre sul quale s’innestano le concrete apparizioni di una pullulante frenesia tecno-analogico-robotica e delle derivate e costituenti Macchine Meravigliose pre/post-industriali, solo in parte accomunabili allo steam-punk, al new weird e al connettivismo) e ambientata nel retro-futuro (Ray Bradbury + Ted Chiang + “EveryThing Beautiful Is Far Away”: quindi no, non è Hard SF, ma SF d'atmosfera, esistenziale, financo romantico-sentimentale (si consideri il contemporaneo revival, a proposito di retrofuturismo, della spielberghiana "Amazing Stories"), e con alcuni - la parte più interessante - inserti speculativi) di una versione alternativa degli anni ‘80, in un Ohio rurale (interpretato dagli stati canadesi Saskatchewan e Manitoba), tra un paese di provincia, costruito nei pressi, e in parte all’interno, del curvo perimetro del supermassivo acceleratore di particelle costruito attorno alla Eclipse, una sfera composta da spicchi di anti-materia-oscura (e con tre torri di raffreddamento…), il cui grande anello si srotola sotterraneo - e ogni tanto sfiata spuntando dal suolo (botole) - e corre sulla superficie (boe) del grande lago Erie (“Take Shelter”, oltre allo stesso retrofuturistico “It Follows”, etc...), e una lontana città (Toledo o Cleveland), lascia il proprio segno non indifferente all'interno di questa nuova onda di SF seriale adulta che sta caratterizzando il passaggio dagli anni '10 ai '20: "Black Mirror", "WestWorld", "Love, Death & Robots", "DEVS"...
“David Attenborough: A Life On Our Planet” (la sua, di vita, così come quella di ognuno di noi, e del globo terracqueo stesso) è l’ultimo film del binomio composto dall’omonimo e titolante divulgatore/esploratore scientifico e (con Jonathan Hughes e Keith Scholey) da Alastair Fothergill, l’artefice indiscusso dei migliori documentari naturalistici degli ultimi 30 anni, e “Life on Earth”, del 1979, in una edizione della BUR di fine anni ‘80, è stato invece uno dei primi libri che sono andati a comporre la mia biblioteca personale, assieme a Jack London, Konrad Lorenz, Gerald Durrell (e le riviste: Airone e Natura Oggi) e, dal PdV più strettamente tassonomico ed identificativo, Pierandrea Brichetti (Giunti) - con Cagnolaro e Spina e successivamente Fracasso (Perdisa) - e Christopher Perrins (DeAgostini/Collins) per Aves, Sandro Ruffo (Giunti/Martello) e Michael Chinery (DeAgostini/Collins) per Lepidoptera e Gabriele Pozzi (illustratore) per Insecta (Fabbri), mentre oggi la parte del leone la fa Ricca/Muzzio (assieme a Belvedere, Natura Edizioni Scientifiche, WBA, etc…) con la pubblicazione in italiano delle guide della HarperCollins e simili. In mezzo a questi due estremi, il 2020 e gli anni ‘80 (da allora la popolazione del mondo è passata da 4.3 a 7.8 miliardi di individui, le particelle di anidride carbonica che danzano nell’aria sono aumentate da 335 parti per milione a 415 ppm e la superficie di terra inviolata e selvaggia si è ridotta dal 55% al 35%, con oasi in controtendenza – ad esempio il Costa Rica, o le zone boscose e forestali italiane, che sì, sono in fase d'incipiente aumento, ma a scapito della biodiversità dei pascoli alpini e a fronte di una più violenta e virulente cementificazione e consumo di suolo agricolo planiziale e di versante collinare – che sono solo l’eccezione che conferma la regola e la tendenza), è accaduta una cosa: Piero Angela, classe 1928, un altro dei nomi fondamentali ed imprescindibili di cui sopra, col passaggio da Quark a SuperQuark e con la correlata acquisizione dei diritti di diffusione dei nuovi cataloghi National Geographic e BBC, iniziò a trasmettere documentari nativi in formato digitale e non più girati su pellicola: questo cambio di paradigma dello sguardo (frame-per-secondo, texture, fluidità, definizione...) fu - contestualizzando il tutto e fatte le debite proporzioni - un autentico shock: non riuscivo più a guardare un documentario naturalistico pensandolo e vivendolo come… vero, reale, concreto, credibile e… naturale: le foreste non apparivano più... come nei film (penso a “Fitzcarraldo” di Werner Herzog, a “the Emerald Forest” di John Boorman, a “the Mosquito Coast” di Peter Weir, ed anche, per contro, alla saga spielberghiana “in studio” di Indiana Jones o al “Romancing the Stone” di Zemeckis), cioè, erano… ultra definite e strapiene, ricolme, traboccanti di dettagli, tanto da sembrare ed apparire… per paradosso e contrappasso… finte, e, per l’appunto, digitali, con riprese ricreate in studio ("come", per contrasto inverso, in certi classici documentari naturalistici “romanzati” per ragazzi della Disney degli anni ‘50), artefatte, condizionate, abbellite, forzate, e non più apprezzabili come veritiere, quando invece era vero proprio l’esatto contrario. Mi ci volle un bel po’ per abituarmi assuefacendo il sistema occhio-cervello a questa così diversa resa della fruizione del Mondo e, al contempo, saperne apprezzare il balzo tecnologico qualitativamente superiore. Ora, all’inverso, sono le foreste “cinematografiche” a sembrarmi “strane”, e penso ad esempio, chessò, ai tepui che spuntano dalla giungla amazzonica in “the Lost World” di Irwin Allen. S’è chiuso un cerchio, se ne apre un altro, e via’ndare.
I caratteri messi in scena sono pi-a/e-gati dalla… caratterizzazione, sono appesantiti (il modellino di veliero...) dalle loro peculiarità, tipizzazioni, prerogative, e sono identificabili con un’occhiata senza l’ausilio di chiavi dicotomiche, e anzi sono essi stessi proverbiali ed esemplari elementi identificativi utilizzabili in una possibile rappresentazione audio-video-grafica vivente di un eventuale atlante tassonomico e distributivo della gens italica, e però, al contempo, questo loro essere cifre di un algoritmo, paradossalmente, li fa riconoscere come veri… perché lo sono. Per questo “Villetta con Ospiti” è anche - e soprattutto, e solo - un fatto di cronaca. Un etico apologo a-morale tanto sincero quanto di riporto. Uno specchio messo a tradimento. E forse, a latere, anche un bel/buon film.
C’è un’isoletta nell’Essex, alla foce ad estuario del BlackWater, a una sessantina di chilometri dalla City londinese, con vista sulla Millennium Wheel, lunga un miglio e larga mezzo, che rimane collegata alla terraferma per mezzo di una sottile e sinuosa carrozzabile rialzata che due volte al dì viene sgombrata dalle acque del Mare del Nord grazie alle lunari forze di marea gravitica ed è abitata da Krampus/Merdules e Tratzer/Boes a guisa di Vogon che si credono domiciliati nell’Ombelico del Mondo, e invece è solo Osea.
Automatiche, le assonanze riecheggiano: soprattutto “the Wicker Man” (Robin Hardy e Anthony Shaffer, 1973) e il suo recente derivato ed epigono, “MidSommar” di Ari Aster (l’aura di quest’ultimo rimane nel bene e nel male tutta confinata ed espressa nella mezza giornata senza soluzione di continuità lungo cui si dipana l'episodio speciale, e durante la quale compare anche Florence Welch senza Machine), e, secondariamente, “Straw Dogs” (Sam Peckinpah, 1971). Non è una serie perfetta, né tantomeno un capolavoro, ma l’abisso oceanico che la separa dall’assimilabile per ambientazione caratteristico-folklorica “Curon” è… abissale e oceanico.
Il 4° episodio di questa 1ª stagione, "New York, NY", diretto da Eagle Egilsson e scritto da Wesley Strick, è uno degli episodi potenzialmente più promettenti (argomentazioni e questioni ambientali, economiche e processuali, e un grande attore caratterista assurto qui al ruolo di protagonista), che però apre troppe parentesi (persino una seconda linea “fantasy-trascendente” con l’entrata in scena di una medium-parapsicologa) e non riesce a “concludere”, fatto salvo per l’immagine finale, e pur con una bella quantità di gore. Grandissimo Bill Camp. Quest’anno (2020), dopo “On Becoming a God in Central Florida” (2019), vanno “forte” i pellicani. Il sovrannaturale è qui un dio: non quello per cui pregate ma quello per cui pagate.
Il 5°, "Plainfield, Illinois", diretto da Logan Kibens e scritto da Emily Kaczmarek, è il migliore, soprattutto grazie alle due bravissime e splendide protagoniste (Taylor Schilling e Roberta Colindrez), e ad una sapiente commistione di Grandi Temi, dolore profondo e una sottile ironia sinonimo e sintomo di una grande consapevolezza e capacità di scrittura, anche e forse soprattutto dal PdV della regìa. Il soprannaturale è un topos dell’horror, qui acquisito nel quotidiano e declinato attraverso l’upgrade della convivenza (“Day of the Dead” e “Shaun of the Dead”): il ritornante. Cadono i capelli in lunghe bionde ciocche. “Magari ti prendo un berretto.” Stacco. Il suono di un tappo di “Montepulciano, from the Abruzzo region: italian baby!” che vien stappato, e… ma che bellissimo berretto!
“La politica non v’interessa perché non v’interessa cambiare un mondo che vi si addice alla perfezione.”
Piccole suffragiste crescono. Inghilterra, 1884. In piena Era (Spoiler!) Vittoriana il secondo governo Gladston, prima di lasciare il passo per vent’anni ai conservatori, portò all’approvazione della Terza Legge Elettorale (che passò facilmente alla Camera dei Comuni, ma incontrò più difficoltà a quella dei Lord, che allora aveva un peso ben maggiore rispetto ad oggi), che estese il diritto di voto anche ai maschi della popolazione rurale (minatori e contadini). Per il suffragio universale bisognerà attendere il 1928 (in Italia il 1946, a causa di un altro ventennio).
La mano di Harry Bradbeer si riconosce dallo sguardo: non direttamente il suo, ma quello veicolato tramite la sua protagonista - una bravissima Millie Bobby Brown, gestita ottimamente (adenoidi comprese) -, che lo riversa dritto nell’obbiettivo della macchina da presa, andando a sfondare la quarta parete (l’occhio, la lente, il palco, lo schermo), mediante il classico gioco di ammiccamenti e complicità che s’instaura attraverso la messa in scena del camera-look (con interpellazione diretta), un proverbiale espediente a cui è facile decidere di ricorrere, ma molto più difficile risulta saperlo utilizzare a dovere (e l'unico momento in cui da questo punto di vista si tira un po' troppo la corda è durante la scena dell'annegamento), specialmente se questo dispositivo teatrale e cinematografico viene ricevuto in eredità da un penultimo testimone di tal fatta, vale a dire le due stagioni del “FleaBag” di Phoebe Waller-Bridge, di cui Harry Bradbeer ha diretto tutti gli episodi tranne il primo (per questioni di routine produttive: i pilot, spesso, vengono girati per essere presentati ai finanziatori, e possono passare mesi dal primo ciak al via libera per un’intera stagione). E quindi, sì, anche la mano, oltre lo sguardo, è presa in prestito dal brainstorming situato alla base del lavoro che sta dietro ad un’opera più o meno d’arte e più o meno collettiva che prende il nome di Cinema.
Leigh Whannell organizza una folta schiera di stereotipi, cliché e dispositivi tanto narratologici quanto tecnico-artistici facendo nascere una discreta, a tratti buona serie B che, travestendosi da serie A, perde alcuni connotati duri e puri senza acquisirne di nuovi e ulteriori relativi ad un discorso politico-sociale. E poi: Elisabeth Moss (e ↑↑ due).
Due anni dopo la Radio Caroline di “the Boat That Rocked” (ove qui, invece, l’antenna trasmittente è una trivella per cercar l’acqua dolce-salmastra in mezzo al mare), mentre Cossiga lucida i manganelli, Andreotti scuote la capoccia e Leone passa la palla a Rumor, si recupera un dimenticato Franco Restivo (strategia della tensione - a latere e per inciso: oggi è il 12 dicembre -, mafia, terrorismo, contestazione generale…) e si fa fare all’Andrea Doria (memori de “il Caimano” in cui ci si chiedeva quanti anni fossero che non si vedeva un elicottero nel cinema italiano) quel che sa fare meglio: incrociare al largo [10 anni dopo sarà di stanza in VietNam, tra il Mar Cinese Meridionale e il Golfo del Siam, assieme alla Vittorio Veneto e con l’appoggio della Stromboli, per la diaspora dei Boat People sudvietnamiti e cinesi dopo il ripristino dell’ordine da parte degli eredi di Ho Chi Minh dopo la caduta / presa / liberazione di Saigon) per poi essere bonificata, demolita e smaltita nel 2001].
“Giovanni, questo è un culo: e sono cazzi!”
Il film è una favola (nel senso di fiaba), e tra omissioni, limature e cangiamenti (aka: drammatizzazione romanzesca) mette in scena una fantastoria che non diverrà mitopoiesi, ma a livello musicarello (prendendo iperrealisti appunti cartolineschi da “l’Ombrellone” di Dino Risi ed Ennio De Concini, con alla fotografia il tardo-viscontiano Armando Nannuzzi) se la cavicchia. Sarà stata la consulenza storica di Walter Veltroni a… Ma va beh.
All’opera seconda da regista e sceneggiatrice dopo “the Intervention” del 2016, Clea DuVall, classe 1977, scrivendo il film assieme ad una delle sue attrici, Mary Holland (che interpreta ottimamente uno dei caratteri più sui generis), riunisce un cast stratosferico lasciando ai componenti briglia sciolta tanto in overacting quanto in sottrazione e rendendo così questo “Happiest Season” un lavoro degno della più meritata attenzione.
Alison Brie algida, velenosa, repressa e scatenata, le apparizioni trasversali e ipogee di Aubrey Plaza con la scorta dei suoi occhioni, la sintetizzatrice ambulante di serotonina Mary Holland e la coppia di protagoniste principali Kristen Stewart e Mackenzie Davis (scrittura, regìa ed interpretazioni creano a tratti vero malessere scaturente dai loro attriti e distanze quando raggiungono il culmine della curva tra i due estremi di felicità possibile e conquistata) innervano il film, lo sostengono, lo indossano e lo abitano: e l’occhio, il gusto e il sentor d’attrice di Clea DuVall le sfrutta al meglio.
“Il Regno”, ovvero la parafrasi feudale di “Lazzaro Felice” (mezzadria) e “Liberi Tutti” (cohousing) e quella in carne ed ossa di “Forge of Empires” (ed è utile anche come disintossicante dal gioco di strategia online dei crucchi della InnoGames), è la più che gradevolissima e convincente (il ragazzo si farà) opera d’esordio nel lungometraggio di Francesco Fanuele (classe 1988, scuola Gianni Amelio) che, appoggiandosi ad un gran cast (Stefano Fresi, Max Tortora) e sbattendosene della plausibilità, ovvero della sospensione dell’incredulità (che non interviene perché non ce n’è bisogno alcuno), allarga all’ora e mezza il suo cortometraggio portato come esame finale del triennio di regia del centro sperimentale di cinematografia romano.
Giacomo riuscirà nell’impresa di arrivare - senza ATAC, ma celer...mente - là dove suo padre fece di tutto per non finire: nel Regno dei Coeli.
Lei, da sola. Con la sparuta ombra di un unico albero per mera compagnia, in un campo di grano ed erba alta, nel mezzo della prateria circondata dal deserto roccioso. Nient’altro.
Le proiezioni non corrispondevano ai dati, quindi i dati dovevano cambiare.
Raccogliere il cotone coltivato. Ammucchiare il cotone raccolto. Bruciare il cotone ammucchiato. Coltivare il cotone da bruciare.
“AnteBellum” - prima della guerra [civile di secessione (unificazione)] - è un thriller neo-slave con venature di horror-sociale: qualcuno doveva pur farlo un film sullo sfruttamento dei braccianti da parte del caporalato. Un film antirazzista e non cancel-culture. La statua equestre rimane in piedi (e mette in atto anche una sua certa basilare utilità), la giacca blu (double face, combattuta fra il rispetto della Costituzione e l'ardore abolizionista) viene indossata. Perché abbattere monumenti quando si possono ammazzare uomini bruciandoli vivi? Autenticità - ovvero: giù la maschera dell'Indole Mite -, non assimilazione, integrazione, uguaglianza "forzata". Vale per la questione razziale e di genere, e per qualsiasi questione identitaria. La Liberazione è al di sopra dell'Integrazione. Si vis pacem, para bellum. Un film reazionario? Un film necessario.
Entusiasmante finale (che arriva dopo una sequela action che disinnesca la sospensione dell’incredulità fino a quel punto funzionante) d’impressionante commistione fra il ridicolo e l’epi(fani)co.
Lacci, per tenere insieme labes (il crollo, le rovine, lo sfacelo: la bestia-matrimonio, la più dis/umana e in/naturale delle istituzioni), e i figli, come unici legàmi, slegàti.
“Il solo male del divorzio è che è preceduto dal male del matrimonio.” - David Cooper
Lacrima. Sipario. Ma è solo la fine del primo atto. Di un film imperfetto, complesso (non per struttura, ma per contenuto) e molto bello.
Una crasi fra “Looking for Mr. GoodBar” di Richard Brooks con Diane Keaton del 1977 e “Outrage” di Ida Lupino con Mala Powers del 1950 (e aggiungiamoci due Jodie Foster dicotomiche e complementari: quella di “the Accused” di Jonathan Kaplan del 1988 e quella di “the Brave One” di Neil Jordan del 2007) che si muove fra il rimosso, il rimorso e il rimpianto (un mash-up di “the Brown Bunny” di Vincent Gallo con Chloe Sevigny del 2003, “FleaBag” di e con Phoebe Waller-Bridge del 2013 a teatro e 2016-’19 in tv e “Horse Girl” di Jeff Baena con Alison Brie del 2020) e l’elaborazione della vendetta e al contempo dell’accettazione (“I May Destroy You”, la magnifica mini-serie di e con Michaela Coel, anch’essa di quest’anno).
Un grumo di vita, 18 settimane circa (due giorni e una notte invece che un day hospital), ovvero “Never Rarely Sometimes Always” [il lungo piano sequenza a camera fissa sul volto della protagonista che incarna, rivela e definisce il titolo del film è un altissimo frangente wisemaniano (ma andrebbe ricordato anche, fra i tanti in zona Minnesota Test & Co., almeno il momento presente in “Leave No Trace” di Debra Granik) che inscena la ricreazione più vera del vero dei magnifici e fondamentali “Welfare” e “Domestic Violence”), è la versione edulcorata – e non perché l’una è ambientata durante il mandato (a fare in culo) Trump e ciò ch’è rimasto dell’Obama Care muovendosi dalla Pennsylvania rurale (coi "didattici" 8/16mm & VHS/DVD antiabortisti) a New York City e l’altra invece sul finire dell’era Ceausescu nello sprofondo romeno – di “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” (vale a dire 20 settimane e ½) di Cristian Mungiu, del quale è - solo nel senso coincidenziale del termine: tutto il mondo è paese, e le storie, con le loro peculiari ed eterogenee circostanze da contestualizzare, quelle sono - “remake” in tempo di democrazia “occidentale”.
Grandiose entrambe le protagoniste, semi-esordienti assolute, Sidney Flanigan (Autumn) e Talia Ryder (sua cugina, amica e collega, che l’aiuta nel viaggio health/care), che più o meno all’epoca delle riprese avevano effettivamente l’età dei personaggi che stavano impersonando: un’inter(pret)azione magnifica, la loro: fra loro e con la macchina da presa.
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