Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film
Alcuni tra i migliori attori iglesiani tutti riuniti per l’occasione: Santiago Segura, Carlos Areces, Mario Casas, Pepón Nieto, Hugo Silva, Enrique Villén, Jaime Ordoñez, Carolina Bang e Terele Pávez. A loro si aggiungono attori di prestigio alla loro prima volta con il Maestro bilbaíno come lo storico cantante iberico Raphael, qui diabolus ex machina dell’intera vicenda; l’almodovariana Carmen Machi e Blanca Suárez, che replicheranno nel successivo El bar (2016), Miguel Guzmán, il regista dell’acclamato A cambio de nada (2015), Luis Callejo, Luis Férnandez e Antonio Velázquez. Tra gli iglesiani di razza mancano giusto Carmen Maura, Macarena Gómez, Manuel Tallafé (anche se Imdb lo da come figurante tra i manifestanti), Antonio de la Torre e due grandi attori spagnoli che ormai purtroppo non ci sono più, come Álex Ángulo e Sancho Grácia; mentre si aspettano ancora le partecipazioni iglesiane di Yon Gónzalez, José Coronado, José Sacristán – che però parteciperà a El bar – e Martiño Rivas.
Il concept alla base della vicenda corale è come al solito una feroce critica alla società attuale, spagnola e non, verso la quale il regista non è mai andato leggero. Parafrasando il Premio Nobel Dario Fo, se c’è una cosa che fa incazzare il potere è quando ci si prende gioco di lui, quando lo si scherza e lo si ridicolizza, anche indirettamente. Una risata può più di una denuncia. E Álex de la Iglesia, fin dai suoi esordi, ha sempre raccontato la piccolezza della borghesia spagnola, e quindi anche europea, le ipocrisie delle istituzioni, dei costumi e delle abitudini consolidate, ma soprattutto ha puntato l’indice contro la pericolosità del mezzo televisivo.
Titoli come El día de la bestia (1995), Muertos de risa (1999), La chispa de la vida (2011) e Mi gran noche (2015) sono strettamente collegati al mondo della televisione e in particolar modo è messo sotto accusa l’impero berlusconiano spagnolo con Tele5 e i suoi programmi sedanti e spersonalizzanti. Non a caso in El día de la bestia è Armando de Razza, volto delle reti televisive private, a incarnare la menzogna e la manipolazione dell’informazione – anche se lungo l’arco della pellicola diventa uno degli antieroi protagonisti al fianco di Álex Ángulo e Santiago Segura. Informazione messa in scacco anche dai programmi stupidi e qualitativamente bassi, il cui unico obiettivo è sedare le menti umane e non farle pensare a ciò che davvero conta e che necessita di un dibattito serio e plurale.
Sotto accusa anche l’ego monomaniacale dei divi, degli pseudofamosi del sottobosco televisivo e dei canali fognari della cultura cialtrona e cialtronesca, di canzoni tormentone inutili e ripetitive per un pubblico di ragazzine mestruate, pantofole e anestetizzati. Tra tutti, le canaglie del business a tutti i costi, come il Benítez di Santiago Segura, che accumulano soldi illegalmente alle spalle dei cittadini onesti e vessati. Cittadini che come Pepón Nieto sono ostaggio di moglie, madre e bambini – ritratto dolceamaro dello spagnolo “vinto”, classica figura postbellica – e vengono ridicolizzati nell’eterno ruolo di figuranti, costretti a ridere quando gli si dice di ridere e ad applaudire quando gli si dice di applaudire. Al comando di questi fantocci, ovviamente i leader, gli arricchiti, i manager, ovvero gli spagnoli “vincitori”, leggasi franchisti, che perdurano nei ruoli di potere.
Così, nel padiglione industriale in cui in pieno agosto si sta tentando di girare da più di una settimana la serata di gala dell’ultimo dell’anno, centinaia di figuranti stressati e una dozzina di divi televisivi pronti a uccidersi tra di loro, non si accorgono che, chiusi nel loro piccolo mondo dorato fatto di festoni, torte e champagne finti, fuori dagli studi imperversa una guerrilla tra polizia e manifestanti che al grido di “Informazione libera” combattono proprio quel mondo edulcorato racchiuso in un hangar. La metafora è chiara e a prova di idiota. Chi non vuol capire, faccia pure.
Al di là della critica di base, il film è uno spassoso divertimento slapstick tinto dai soliti colori del grottesco spagnolo che popola i suoi scenari di personaggi incredibili, esperpentici, al limite della credibilità, ipergigioneschi, così tanto sulle righe da confermare l’anima espídica, nervosa e alterata del cinema nero iglesiano. Mario Casas nei panni parodistici della pop-star latina dal lungo capello biondo è irresistibile, e benché l’assonanza con la stella andalusa David Bisbal è chiara, è una parodia che va oltre il locale e interessa tutto l’immaginario musicale latino e non. Lo stesso attore galiziano ha ammesso che il ruolo gli ha permesso di ridere anche un po’ di se stesso, regalandogli l’ennesima opportunità di interpretare un personaggio estremo. Allo stesso modo il corpo comico di Carlos Areces è la garanzia dell’intenzione autoriale di De la Iglesia di fare un cinema intelligente attraverso i codici della puerilità più grezza ingentiliti ovviamente dalle tesi e dalle pratiche alte del genere esperpentico.
Piccola curiosità. Il film inizia con il botto: Hugo Silva e Carolina Bang ballano sulle note di Prisencolinensinainciusol di Adriano Celentano (1972), qui però cantata nella versione, si dice, di Jimmy Barlatán, musicata e arrangiata da Ludovico Vagnone, copyright 2015. Nei credits non si fa però riferimento all’originale di Celentano, brano che, va ricordato, pur non facendo subito successo in Italia si piazzò tra i primi cinque hit della stagione in Francia, Paesi Bassi e Germania e addirittura settantesimo in USA, una rarità per una canzone italiana. Nel making of de Mi gran noche, durante le prove del balletto si sente invece benissimo la voce di Celentano sulla quale versione della canzone gli attori si stanno allenando.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta