Volevo essere il primo, mi tocca essere il secondo. Dopo l’omaggio goriziano e il volume Mimesis dedicato al regista bilbaíno, non posso più rimandare il mio contributo. Seguo Álex de la Iglesia fin dagli inizi: doppietta Acción mutante (1993) e El día de la bestia (1995) visti in quei caldi pomeriggi estivi della mia adolescenza. È stato subito amore a prima vista.
Oggi, il regista culto che esordiva negli ultimi anni ottanta come collaboratore di Pablo Berger ed Enrique Urbizo, è diventato l’imprescindibile punto di riferimento del mondo cinematografico di Spagna. È stato anche Presidente della Academia de Cine tra il 2009 e il 2011 e, che piaccia o no, il suo cinema è centrale nella lettura dello sviluppo storico della Spagna dagli anni ’90 ad oggi, un po’ come l’amico Pedro Almodóvar negli anni ’80. È considerato il regista più capace nella direzione degli attori, coinvolgendoli picarescamente nella costruzione dei suoi mondi spregiudicati dove l’attore lascia il posto al personaggio nella messa in scena di uno psicodramma archetipale, basico, elementale e allo stesso tempo complicato, polifonico e poligrafico, moderno e postmoderno.
Si sprecano una valanga di termini e aggettivi per definire il suo cinema. E tutti con giusta ragione. Grottesco, surreale, cattivista, neoromantico, postmoderno, ipermoderno; oppure si parla di un cinema visionario e sperimentale, frammischiato nei generi come nei linguaggi; di un cinema pop nato da una cultura, quella tra i ’60 e gli ’80, tra il regime franchista e la democrazia, impreziosita dai romanzetti di genere western, fantascientifico, horror e noir come delle magiche visioni del cinema classico americano e poi tutti di colpo, nella Madrid del destape, le grandi produzioni cinematografiche degli anni ’80, da Spielberg a Scott, dal George Lucas di Guerre Stellari al Richard Donner dei Goonies (1985). Per non contare i fumetti – Álex è stato anche un fumettista – la letteratura, i videogiochi, le serie televisive spagnole del mentore Narciso Ibáñez Serrador e quella americana Ai confini della realtà: tutti contenitori primitivi dove attingere e creare e modellare e “mutare” continuamente il proprio immaginario.
Ma se il cinema di Álex de la Iglesia fosse semplicemente pop o si fermasse alle categorie del postmoderno, sarebbe ben poca cosa e sarebbe già finito da un pezzo. Invece è vivo e vegeto, ha conosciuto le sue flessioni, ma ogni suo film è uno sparo nel buio che allampa l’oscuro canone dello spettatore medio. Questo accade perché il cinema di Álex, prima di essere grottesco, postmoderno o pop, è esperpentico.
L’esperpento è una poetica ideata e praticata da Ramón María del Valle-Inclán, uno dei più importanti letterati del mondo iberico. Scrittore, poeta, drammaturgo e saggista, don Ramón nel 1920 abbandona le pose moderniste di fine secolo per addentrarsi nella forma esperpentica di ricreazione del reale. Una poetica, ma anche uno stile e un genere teatrale e letterario, che si fonda nella deformazione grottesca della realtà come mezzo di critica sociale. La degradazione dei personaggi, la loro cosificazione e animalizzazione; la letteraturizzazione del linguaggio callejero e colloquiale; la distorsione espressionista della scena; l’impasto tra realtà e incubo; la predilezione per ambienti marginali e sordidi come postriboli, osterie, taverne, abitazioni misere e strade malfamate, e una fauna umana popolata da prostitute, ubriaconi, vagabondi, mendicanti, artisti bohémien, sono aspetti tipici di questo genere.
Con antecedenti illustri come Quevedo e Goya, l’esperpento, traducibile quasi come “mostriciattolo”, è a conti fatti la miglior poetica per rappresentare la Spagna, gli spagnoli e il carattere dominante della loro cultura: la convivenza tra grandezza e grottesco. Paradosso tutto latino che interessa anche l’Italia del secondo novecento, lo scontro tra la grandezza di un regno su cui non tramontava mai il sole e la miseria in cui finisce nel corso dell’800, genera quell’inclinazione tutta spagnola che è la deformazione grottesca della realtà.
Figlio ribelle di quel desengaño secentesco, l’esperpento, fratello maggiore e maturo del barocco di quell’epoca, resiste ancora oggi come tecnica e modo di rappresentazione delle cose di Spagna. Attraverso la sua lente deformante, ambienti e personaggi vengono restituiti come maschere e simulacri di qualcosa che sta nel profondo dell’anima spagnola – ma direi anche italiana – mentre azioni e avvenimenti, atomizzati dalla pratica postmoderna, continuano il discorso di impossibilità di una vita e di un pensiero univoci.
Se la modernità era l’età della Grande Fiducia illuminista, l’epoca della speranza in una totalizzazione del sapere e della conoscenza, delle grandi narrazioni e dell’emancipazione dell’uomo come tale, la postmodernità reagisce al miraggio di un’unica modalità corretta di rappresentazione del mondo e diventa il nuovo linguaggio di un’epoca di crisi. Le due guerre mondiali, il nazismo, il fascismo, il comunismo e il franchismo fasciocattolico, l’olocausto, i campi di sterminio, le bombe nucleari, gettano tutto il mondo occidentale nello sconforto e nella paura. La Grande Fiducia illuminista sparisce piano piano e l’uomo inizia un percorso di ripensamento della vita, del mondo, del proprio ruolo nel mondo e della percezione di quest’ultimo.
Le parole d’ordine del postmodernismo diventano così caducità, frammento e caos in luogo di eternità, universalità e finalità; schizofrenia e diversità in luogo di alienazione e origine. Le nuove pratiche saranno il decostruzionismo al posto della totalizzazione, il montaggio e il collage al posto dell’opera d’arte originale, la riproduzione al posto della creazione, la mutazione invece della conservazione, l’importanza del significante invece che del significato. Ecco perché si parla di cinema postmoderno quando si parla di Álex de la Iglesia.
Ma non può certo esaurirsi qui l’esperienza cinematografica del regista bilbaíno, altrimenti sarebbe ben poca cosa agli occhi dei contemporanei – o dei moderni? O dei postmoderni?
I tratti principali e caratterizzanti l’opera postmoderna, originando dal decostruzionismo figlio della crisi di un testo e di un linguaggio univoci per l’epoca in questione, sono: il miscuglio di più generi diversi, l’importanza dell’immagine, del commento musicale e di scene antinarrative, citazioni e intertestualità con testi precedenti, referenza ad altri medium come televisione, radio, internet, la soggettività del bene e del male e la conseguente relatività dei valori, personaggi marginali, antieroici, mutevoli e ambigui e dal linguaggio scorretto, sporco, antinormativo, l’alterazione del tempo e dello spazio, un montaggio rapido e aggressivo che dota la narrazione di un ritmo frenetico senza opportunità di riflessione.
Il piacere della forma estetica con i suoi stimoli sensoriali, dai suoni alle luci e agli effetti speciali, specie se mirabolanti o truculenti, fa dell’opera postmoderna un’opera consumista, veloce, rapidamente consumabile e dimenticabile. La libertà creativa e totale dell’autore postmoderno, in bilico tra barocchismi, espressionismi, violenze estetiche ed eccessi di forma, sembrano annichilire lo spettatore nel messaggio disperato e senza finalità alcuna tipico di un’epoca di crisi.
Ovviamente il miglior cinema postmoderno, quello di De Palma, Scorsese, Burton, Danny Boyle, Cronemberg, Tarantino, Kitano e molti altri tra cui lo stesso Álex de la Iglesia, ha un’anima ancora moderna in cui la forma postmoderna di rappresentazione e narrazione si abbina alla critica diretta ed esemplare della società e al impegno civile e politico.
Álex de la Iglesia, nel suo gioco esperpentico, animalizzando e degradando i suoi personaggi con caratterizzazioni archetipali e primitive, abusando di iperboli e contrasti, mischiando tra loro i generi, deformando la realtà con messe in scena esasperate, barocco-pulp ed espressioniste, e confezionando i suoi film con montaggi frenetici e sensazionalistici, con una fotografia accentuata e carica di colori come di contrasti e di luci e di ombre, propone un cinema sobredosis, linguisticamente postmoderno, ma intimamente moderno: ovvero esperpentico. Il carattere personale della sua opera e l’unicità del suo segno ci porta senza remore a poter parlare anche di “iglesiano” come sigillo a conferma di un autore tra i migliori e più riconoscibili del panorama europeo.
Acción mutante (1993).
Nella Bilbao del 2012, una banda di terroristi deformi e psicolabili, comandata dal truce Ramón (Antonio Resines), vuole vendicarsi dei più belli e più ricchi del proprio paese.
Opera prima e smisurata, trasbordante eccessi e iperboli, una sci-fi cyberpunk cattivista e dalla comicità macabra in cui de la Iglesia smantella l’istituzionale, si fa beffe degli ossessionati della forma fisica e del culto del benessere e traccia così il suo primo attacco politico e sociale alla Spagna e al mondo occidentale del suo tempo. I parametri di bellezza, la perfezione del corpo e l’effimero godimento dato dai prodotti di lusso sono discriminanti che marginalizzano il cittadino sprovvisto di tali requisiti. L’attacco alla borghesia patinata degli anni novanta è incisivo proprio nella pratica di genere e nell’iconografia sporca e degradata della pellicola.
Voto: 8.
El día de la bestia (1995).
Nel natale del 1995 nascerà l’Anticristo a Madrid. Il sacerdote vasco interpretato da Álex Ángulo intraprende un viaggio contro i mulini a vento e si trova come fedele scudiero un Sancho Panza satanista e metallaro interpretato dall’attore feticcio del regista, il grande Santiago Segura.
Echi xenofobi e fascisti, scardinamento senza pietà del mezzo televisivo berlusconiano spagnolo, credulità popolare, incapacità di decodificare il messaggio televisivo che conduce irrimediabilmente a un corto circuito comunicativo, tutto questo e molto altro fa di El día de la bestia l’imprescindibile chiave di volta per interpretare le metropoli europee del nuovo millennio – i fattacci alle periferie di Parigi nel 2005 ne sono una conferma. Estremismi vari tornano nelle strade a compiere i propri atti vandalici in nome di un bene nazionalista figlio dell’ignoranza, della povertà e della frustrazione. Il mezzo televisivo ne ingigantisce l’influenza e ne accelera la virulenza. Tra un umorismo macabro e l’invettiva socio-politica, El día de la bestia è il primo capolavoro e primo successo di pubblico di de la Iglesia.
Voto: 10.
Perdita Durango (1997).
Rosy Pérez e Javier Bardem sono una coppia di criminali che deve portare un carico di feti dalla frontiera messicana fino a Las Vegas.
Tra santería e humor nero, tra azione esplosiva e gusto per il sozzo e riprovevole, Perdita Durango è stato all'epoca il film più costoso della storia del cinema spagnolo e anche uno dei più grossi flop al botteghino di de la Iglesia. Film geniale, dall’iconografia dirty e dal politicamente scorretto come sottotraccia, questo on the road sanguinolento dà un colpo alla botte del sogno americano e uno al cerchio del popolo messicano impoverito culturalmente dall’abbaglio statunitense.
Voto: 9.
Muertos de risa (1999).
Due comici, Santiago Seguro e El Gran Wyoming, vivono un successo frastornante nella Spagna dei cambiamenti socio-politici, della televisione imperante, dei dischi per l’estate e delle mode fast food. I due arriveranno presto ad odiarsi.
Un dramma umano che attraverso il codice del film comico distanzia il dramma e la tragedia della società contemporanea dal pubblico di riferimento. Santiago Segura scatenato.
Voto: 9.
La comunidad (2000).
Un agente immobiliare, la almodovariana Carmen Maura, scopre il cadavere di un vecchio inquilino in un vecchio edificio madrileño e con lui anche 300 milioni delle vecchie pesetas. Intenzionata a portare via il malloppo, poco alla volta si rende conto che gli altri inquilini del condominio vogliono quei soldi a tutti i costi.
Giocando sul titolo “comunità” de la Iglesia racconta le cattiverie e le bassezze animalesche della società moderna che è tutto fuorché un gruppo cooperante di esseri umani. Infarcito come al solito di truculenze varie, cattiverie e un umorismo nero di cui non si può più fare a meno, anche La comunidad è un tassello fondamentale non solo del percorso professionale del regista, ma anche del cinema spagnolo tutto. È a tutt’oggi il suo successo più importante al botteghino.
Voto: 8.
800 balas (2002).
Il grande e ormai compianto Sancho Gracia veste i panni di uno dei tanti profesionales che nei villaggi western almeriensi inscenano sparatorie e rapine alla banca per i turisti in visita. Quando si minaccia di chiudere baracca e burattini inizia la resistenza.
Tra i più sonori insuccessi del regista, 800 balas resta uno dei suoi film più amati. È un omaggio a un’epoca d’oro del cinema spagnolo e italiano, ed è anche l’occasione per idealizzare, anche se antieroisticamente, la resistenza culturale di una generazione e una categoria di cittadini ai margini della società contemporanea, tra povertà varie e isolamento sociale, che nonostante tutto lavorano con passione e dignità. Film sindacalista da riscoprire.
Voto: 7.
Crimen ferpecto (2004).
Un uomo uccide accidentalmente il suo diretto rivale nell’ascesa a caporeparto in un grosso centro commerciale. L’unico testimone è una donna brutta e sgraziata che lo minaccia di raccontare tutto se non la sposerà.
Ulteriore incursione nei rapporti disfunzionali della società contemporanea, fatta di arrivismo e accumulo di ricchezza. Il “ferpecto” del titolo originale indica appunto l’imperfezione di una situazione che parrebbe invece più che perfetta.
Voto: 7.
La habitación del niño (2006).
Una giovane coppia si insedia in una nuova casa. Il marito, attraverso i monitor con cui controllano il bebè, è convinto di vedere ogni notte un uomo accanto al bambino. La moglie non gli crederà e inizierà la discesa nella follia.
Uno degli episodi della serie tv ideata dal veterano Narciso Ibáñez Serrador, Películas para no dormir è stranamente il meno riuscito della serie, nonostante Álex de la Iglesia riunisca nell’oretta dell’episodio televisivo alcune tematiche a lui care: relazioni disfunzionali, la follia, il medium televisivo.
Voto: 7.
The Oxford Murders (2008).
L’americano Elijah Wood arriva a Oxford per far seguire la sua tesi dal leggendario professor Seldon, interpretato da Ian Hurt. I due si ritroveranno coinvolti in una rete di delitti di cui l’assassino semina indizi come in una macabra caccia al tesoro.
Seconda incursione nel cinema americano e nuovo flop al botteghino. Ingiustamente snobbato da pubblico e critica, The Oxford Murders è un piacevole gioco a rimpiattino cinematografico dove non mancano né l’umorismo macabro né scene truculenti dalla sempre ottima resa plastica. Eliah Wood è perfetto.
Voto: 8.
Balada triste de trompeta (2010).
Carlos Areces, sempre travolgente e inarrestabile, è il pagliaccio triste di un circo nella Madrid degli anni ’70. Si innamora della donna del pagliaccio tonto, ma tutto è costretto a precipitare in un turbine di follia e di violenza.
Acclamato capolavoro del regista, questa ballata è tra i film più perfettivamente postmodernisti di de la Iglesia. Un esperpento esagerato dove la degradazione dei personaggi è palesata e mostrata con dovizia di particolari truculenti. Un film che condanna il franchismo senza attaccarlo di petto, ma colpendolo ai fianchi minando il mezzo principe di ogni dittatura: l’immagine.
Voto: 10.
La chispa de la vida (2011).
Un pubblicitario disoccupato, inventore del celebre slogan della Coca-Cola, “la chispa de la vida”, nel giorno più triste della sua vida finisce con il cadere accidentalmente negli scavi archelogici di un teatro romano. Nella caduta gli si conficca un grosso ferro nel cervello e non lo si può muovere. Accorrono giornalisti da tutta Spagna e la tragicommedia si consuma in diretta.
Capolavoro incompreso del regista bilbaíno che con La chispa de la vida scrive il suo manifesto estetico e morale in favore dell’uomo come centro di ogni discorso e di ogni finalità sociale, fa carta straccia del giornalismo spazzatura e spedisce agli angoli le figure disfunzionali della contemporaneità come menager, affaristi e speculatori.
Voto: 9.
Las brujas de Zugarramurdi (2013).
Un gesucristo argentato, un soldatino di plastica verde e un tassista insicuro fuggono da una rocambolesca rapina a un banco di pegni e arrivano a Zugarramurdi, paesino basco dove vivono ancora numerose e terribili streghe.
Forse il film che più di tutti rappresenta e sintetizza il cinema sobredosis, ovvero “overdose”, su di giri, di Álex de la Iglesia. Un mix di humor nero, erotismo, esperpento, horror, truculenze varie, personaggi antologici, ambienti e atmosfere stregonesche, montaggio e fotografia antinaturalistici per creare un mondo esperpentizzato, dove la vocazione controculturale del regista trova il suo immaginario perfetto e le sue coordinate estetiche e linguistiche.
Voto: 9.
Mi gran noche (2015).
In un padiglione fuori Madrid, in pieno agosto, centinaia di figuranti registrano una falsa festa di capodanno ridendo e applaudendo senza senso mentre la stella musicale della serata farà di tutto per avere l’attenzione che merita e il suo giovane rivale verrà molestato dalle sue fans che vogliono ricattarlo. I presentatori della serata si odiano, il produttore cerca in tutti i modi di non far chiudere la catena e i figuranti finiscono per impazzire. Ha tutta l’aria di essere un grande film nuovamente giocato sulla dissacrazione dei rapporti disfunzionali di un’epoca in crisi e sul continuo attacco al mezzo televisivo come principale fonte di schizofrenia sociale e perdita di identità. A conferma come il cinema di Álex de la Iglesia sia formalmente postmoderno, ma intimamente moderno.
Link utili:
recensioni:
//www.filmtv.it/film/38057/oxford-murders-teorema-di-un-delitto/recensioni/329764
//www.filmtv.it/film/43111/ballata-dell-odio-e-dell-amore/recensioni/657498
//www.filmtv.it/film/29695/perdita-durango/recensioni/153951
articoli accademici:
http://www.euskomedia.org/PDFAnlt/literatura/27/27027044.pdf
http://www.u.arizona.edu/~compitel/696Rodriguez--de%20la%20Iglesia.pdf
http://www.biblioteca.org.ar/libros/150511.pdf
Álex de la Iglesia celebrato al Toronto Film Festival del 2015
http://tiff.net/winter2015-series/alex-de-la-iglesia-dancing-with-the-devil
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