Regia di Charlie McDowell vedi scheda film
Il meglio di noi (separato dal peggio, non è noi). Abbozziamo, suvvia.
La mia (stupidissima) tecnica per “giudicare” quanto un film di durata standard mi stia piacendo (e mi sia piaciuto) è scoprire se (quasi sempre) e quando guardo l'orologio per la prima volta dall'inizio della proiezione in sala o domestica. Di solito, in media, se il periodo trascorso dai titoli di testa che iniziano la sospensione dello spaziotempo a quando mi cade l'occhio sul presente riportandomi alla realtà si aggira sui 40 minuti significa (riscontro s-oggettivo al termine della visione e messo in discussione col passare di ore, giorni e mesi) che l'opera merita. Qui è accaduto dopo 75 minuti. Il film funziona, eccome. È un'autentica goduria.
Poi termina... ed è come se... la parte migliore fosse rimasta incastrata nella guest house, restando lì, “inservibile”, ad attendere il prossimo spettatore che la richiami al lavoro.
Il costrutto di “the One I Love” -- un'opera che consta di soli 3 attori e 5 ruoli, e questo particolare è utilizzato e sfruttato alla perfezione, grazie anche alla coppia principale, sinergicamente affiatatissima, composta da Mark Duplass ed Elisabeth “Queen of Earth” Moss, ai quali si aggiunge Ted Danson [e la di lui attuale moglie, Mary Steenburgen - nonché madre del regista, mentre il padre è Alex De Large -, per complicare le cose extra-diegeticamente (il set del film è la reale casa dei due coniugi), compare con la sola voce in un file audio di una delle cartelle cestinate male] -- non può essere solo (“Get Out”) psicologico/psichiatrico [il film d'esordio di Charlie McDowell (il cui prossimo lavoro sarà “Gilded Rage”, sull'assassinio del finanziere statunitense Thomas Gilbert Sr.), scritto dal sodale futuro co-sceneggiatore delle altre sue due opere, Justin Lader, rispetto a quello di Jordan Peele soffre l'assenza di una innervatura politica a scopo moralistico], a causa del sonico artefatto invisibile discriminante (chi manovra - ah, il fattore umano! - una così alta tecnologia - a meno che non si tratti di programmate macchine di von Neumann impostate male in partenza - non è in grado di svuotare il contenuto di un cestino lasciato in bella mostra senza nemmeno camuffarlo sul desktop?) più che dell'impossibilità meccanica di agire su maniglie e serrature di porte e finestre non certo infrangibili, la quale può essere stata instillata nell'individuo proprio attraverso, ehm, ipnosi, né "spiegato razionalmente" attraverso un UpSideDown fra il naturale e il complotto segreto...
...para-governativo (ancora Peele, e Moss, quelli di "Us", forse il vero, autentico film-gemello - asciugato da ogni connotato socio-politico - di "the One I Love"), e altresì non può essere solo (“Under the Skin”) alieno (una parte del perturbante dell'opera terza di Jonathan Glazer, virata in rom-com, è qui comunque ben presente: vi è un momento, circa a metà film, in cui i 4 ruoli dei 2 protagonisti con l'aiuto di un flusso di montaggio sottilmente straniante, prima di scontrarsi e incrociarsi, sembrano confondersi, invertirsi, pre-sostituirsi, e lo spettatore potrebbe chiedersi se stia ancora assistendo alla vita dei protagonisti oppure sia entrato per un momento in quella degli Altri), a causa dell'insensatezza dello scopo arzigogolato delimitato da regole - non magiche o fantasy, ma per lo meno - irrivelate che si trovano a dover agire su un ambiente dotato di possibili, deducibili, ma non, mai, apparenti, nascondigli, scorciatoie e vie di fuga [ed è ciò che accade per buona, larga, maggior parte anche alla successiva opera seconda di McDowell, “the Discovery”, che comunque non raggiunge, mai, la pochezza di un Drake Doremus o di un Mike Cahill, e, ortogonalmente, non si avvicina nemmeno ai garbugli ingolfati di Isaac Ezban né a quelli di più ampio respiro della coppia Marling/Batmanglij o alle amniotiche filosofeggianti (accezione neutra) atmosfere di Benedek Fliegauf, ma sfiora le dicotomiche allegorie, anche documentarie, di Juan Diego Solanas e il “Buster's Mal Heart” di Sarah Adina Smith).
Diciamo allora che ci troviamo ad essere, più semplicemente (considerando come prevalente l'elemento dell'ingranaggio misterioso e non quello - nella sua più larga accezione, anche filosofica - romantico, ché in quel caso ci sarebbero da fare i titoli di opere quali “Happy Accidents” di Brad Anderson, “Eternal SunShine of the SpotLess Mind” di Kaufman/Gondry e “Safety Not Guaranteed” di Colin Trevorrow), dalle parti - senza scomodare “Adaptation” e “Synecdoche, New York”, né alcuni “Black Mirror” di Charlie Brooker - della, direttamente nominata nei dialoghi (come pure la ri-messa in scena di “Who’s Afraid of Virginia Woolf?”), Twilight Zone: lo spirito è quello [e senz'altro è un racconto migliore rispetto a tutti e 10, sommati, gli episodi del terzo (escluso il film) revival della serie di Rod Serling riportata recentemente in vita proprio dal già sopracitato Peele].
La soluzione finale (il film termina là dove iniziano “Smoking / No Smoking” di Resnais, “Melinda and Melinda” di Allen e “Mr. Nobody” di Van Dormael), costruita a partire dal climax del sottofinale, è telefonatissima (se ne se sente riecheggiar l'odore dolceamaro e la problematica presenza da una stanza all'altra...), ma ciò non toglie sia un bel finale.
Fotografia di Doug Emmett (gli acidi neon pastello di “Sorry To Bother You”). Montaggio di Jennifer Lilly (“the Discovery”).
Musiche di Danny Bensi e Saunder Jurriaans (“Two Gates of Sleep”, “Martha Marcy May Marlene”, “Enemy”, “the OA”, “American Gods” e la prossima “On BeComing a God in Central Florida”, di cui McDowell ha girato due episodi).
Produce Mel Eslyn per la Duplass Brothers Production.
This one goes out to the one I love:
Another prop has occupied my time...
* * * ½ (¾)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta