Regia di Dagur Kári vedi scheda film
La responsabilità di essere adulti anagraficamente, ma non mentalmente o caratterialmente, è la più evidente incongruità del taciturno, riservato, timido Fusi, figlio tardivo quarantenne di genitori anziani che lo hanno viziato a tal punto da estraniarlo da quelle che sono le naturali, inevitabili responsabilità che poco per volta ci incombono per il solo fatto di crescere e di assestarci nell'ambito della oscietà che ci circonda.
Operaio presso lo scalo dell'aeroporto islandese, il ragazzone tutto lavoro e casa, trascorre le giornate a giocare con trenini elettrici e videogiochi, incurante di ogni altro interesse che lo esponga a dialogare, soprattutto nei confronti del sesso femminile, il suo vero e proprio tabù assoluti.
Quando il patrigno lo iscrive a forza ad un corso di ballo country, Fusi è costretto a partecipare, nonostante il tentativo di boicottare in segreto le sessioni gli sia concretamente passato per la mente. L'incontro con una donna carina ma problematica, assieme a quello di una ragazzina vicina di casa che invade la intimità ricercata del corpulento bambinone, trasformeranno la vita dell'uomo, inducendolo, anzi costringendolo a maturare.... a suo modo.
Dal regista dell'intenso e appassionante Nòi Albinòi, Dagur Kàri, Virgin Mountain non sfugge mai alla tentazione di intrappolare lo spettatore lungo una vicenda che contemporaneamente lo rapisca e diverta con un intrattenimento intelligente e pieno di spunti di riflessione, sia a livello di studio introspettivo di singole sfaccettature e problematiche private, sia a livello di dinamiche sociali a largo spettro, che costituiscono l'antitesi delle prime ed il motivo delel frustrazioni che coinvolgono il protagonista e la sua nuova inedita, imprevista passione sentimentale.
Ma il film riesce anche, cosa per nulla scontata, a non accontentarsi di un consolatorio lieto fine, rassicurante quanto improbabile: la vita è carogna, e sterile di buone sorprese durature. E Fusi, una volta varcata la soglia della conquista sociale, finirà per provare cocenti amarezze che in qualche modo danno ragione al suo originale ed istintivo annullarsi tra le mura della propria intimità familiare. Questa è la vera forza e sorpresa del film: ammettere ed ufficializzare che le amarezze e le delusioni sono sempre in agguato; in grado forse di rafforzarci e di farci adattare spronandoci a venire allo scoperto, ma lasciandoci quasi sempre disillusi e feriti, anche se in qualche modo più padroni del nostro avvenire, e più cittadini del mondo esteriore fino a poco prima rifuggito o ignorato.
Ottimi e necessari i due protagonisti, Gunnar Jonsson e la imperscrutabile Ilmur Kristjandottir, perfetti a rendere le sfaccettature di personalità rispettivamente sole per volontà o forza maggiore, impegnate ognuno a suo modo a guarire da una malattia solo apparentemente fittizia e psicologica che li rende dei diversi davanti alla società classista e crudele, degli emarginati, degli ipotetici "mostri" da tenere alla lontana da bambini o altri esseri indifesi ed innocenti.
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