Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
165 minuti di puro piacere cinematografico.
La svolta nella vita dello schiavo nero Django (un bravissimo Jamie Foxx) - che tiene molto a ribadire, presentandosi, che “la D è muta” - avviene nel 1858, in una località imprecisata del Texas, come ci dicono le buffe didascalie arancione, all’inizio del film.
La carovana dei mercanti di schiavi, che l’ha appena comperato, si imbatte, per caso, in una notte triste lungo una landa selvaggia, in una carrozza, sormontata da un enorme dente di cartapesta, il cui guidatore sta cercando proprio lui.
Si tratta di un ex dentista tedesco, antischiavista e snob, il dottor King Schultz (splendido Cristoph Waltz), ora approdato a un nuovo e più remunerativo lavoro: fa il cacciatore di taglie, dedicandosi al ritrovamento dei banditi più pericolosi, quelli sul cui capo pende per l’appunto una taglia piuttosto consistente, che egli intende incassare, dopo averli uccisi, e averne mostrato i cadaveri.
I due non si separeranno più.
Dopo che Django avrà raccontato a Schultz la triste storia del suo matrimonio con Broomhilda e della violenta separazione da lei, strappatagli a forza dai tre fratelli Brittle, che l’avevano comprata, la strana coppia si avvierà a far “giustizia”, affrontando avventurosamente i pericoli, in mezzo a una popolazione bianca razzista e rabbiosa, incredula nel vedere muoversi liberamente un “negro” a cavallo e senza catene.
Fra incontri imprevisti, cavalcate e battaglie notturne, violente sparatorie dagli esiti splatter, i due arriveranno all’ultimo rifugio di Broomhilda, una tenuta agricola di proprietà del giovane sadico Calvin Candie, magnificamente interpretato da Leonardo Di Caprio, che “allieta” i propri ricchi banchetti assistendo divertito alle efferate aggressioni di cani feroci contro gli schiavi o alle lotte all’ultimo sangue fra aitanti mandingo, essendo “scientificamente”convinto della “naturale” propensione degli schiavi neri a subire e a servire, come in una memorabile, quasi lombrosiana scena, cercherà di dimostrare.
Questo è il secondo film in cui Tarantino, dopo il precedente bellissimo Bastardi senza gloria, affronta un tema storico-politico (nel primo caso il tema era stato quello del nazismo; in questo è quello dello schiavismo e dei diritti dei neri).
Il film può davvero ritenersi un film storico?
A me sembra che sia inequivocabilmente, prima di ogni altra cosa, un film di Tarantino, cioè il lavoro di un regista che certamente è incuriosito dal passato e volentieri lo racconta, rappresentandolo a modo suo, non disdegnando invenzioni continue e ricostruzioni fantasiose, nonché vistosissimi falsi e anacronismi che gli diano l’occasione, innanzi tutto, di dar voce a quella grottesca commedia umana di cui impareggiabilmente sa vedere gli aspetti paradossali e ridicoli oltre che le ipocrisie più insopportabili.
E’ però anche un film politico, per le ragioni che lo stesso Tarantino avrà modo di dichiarare nelle interviste. E’ cioè un film, che come tutti i Western, al cui genere, almeno nominalmente, questo appartiene, riflette sia la sensibilità politico-morale del regista che racconta le vicende, sia le aspirazioni diffuse nel momento in cui quelle pellicole vanno nelle sale.
Il modello cui si ispira Tarantino in questo suo lavoro non è, però, quello del Western classico: è, invece, la sua rivisitazione italiana, quella degli Spaghetti Western cui il regista rende in tal modo il proprio riconoscente omaggio, già fin dal titolo, essendo Django un film del 1966 di Sergio Corbucci.
Franco Nero, che qui fa una breve apparizione, era attore in quel film e la stessa musica molto suggestiva di Ennio Morricone richiama alla memoria i Western all’Italiana più famosi.
Nel film sono presenti anche alcune suggestioni wagneriane, dovute all’interesse del regista per il Sigfrido, che stava studiando già da alcuni anni (successivamente ne coinvolse Christoph Waltz), che certamente ispirò la vicenda di Broomhilda – Brunilde, nonché beethoveniane e verdiane. La bellissima scena notturna dell’arrivo dei razzisti feroci, tra le più belle del film, è resa indimenticabile, oltre che dallo spasso che provoca lo sgangherato e inutile cappuccio degli ingloriosi cavalieri, anche dalla suggestiva musica verdiana del “Dies Irae” - privato di ogni significato trascendente - che sottolinea il dinamico svolgersi della battaglia illuminata dalle torce nel buio del paesaggio.
Insieme allo splendore di una fotografia molto pulita e nitida, che spazia nel paesaggio americano ripreso in tutte le stagioni dell’anno, quello che maggiormente colpisce del film è il fluire veloce e sicuro delle immagini incalzanti che raccontano gli eventi, indizio di una saldissima regia e di una sceneggiatura che padroneggia superbamente tutti gli elementi del complicato racconto rendendo estremamente piacevoli e coinvolgenti le quasi tre ore di visione del film.
165 minuti di puro piacere cinematografico.
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