Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Il verboso dottor Schulz, cacciatore di taglie nel West di metà ‘800,“ingaggia” lo schiavo Django per aiutarlo a riconoscere i fratelli Brittle, sui quali pende una taglia molto interessante. Tra i due nasce una virile amicizia che li porterà al maniero del folle Calvin Candie nel tentativo di liberare Brunilda, la sposa di Django.
Con “Django unchained” si confermano quelle teorie che sostengono che il talento di Tarantino risiede quasi esclusivamente nella sua capacità di scrittura, con una menzione speciale per i dialoghi. Sul piano registico invece, il film non sorprende: intendiamoci, lo stile è sempre molto riconoscibile e Tarantino non è certo un regista di serie B. Tuttavia, una volta acquietatosi il polverone attorno al suo personalissimo stile di ripresa, guardare un film di Quentin Tarantino non è più un’esperienza così trascendentale. Oramai il pubblico ha imparato a conoscerlo e sa che prima di ogni suo film c’è sempre una campagna di marketing intelligentissima, una vagonata di rumors (di matrice quasi sempre mitologica) e leggende metropolitane messe a circolare ad arte… Se tutto ciò funge da succulento richiamo al botteghino, tuttavia all’atto pratico la fuffa viene a galla. Ecco perché una volta che si ha tra le mani questo “Django unchained”, nato come omaggio a Corbucci, come film celebratore degli spaghetti western, con tanto Sergio Leone (la colonna sonora originale - se si eccettuano i due “omaggi” a Bacalov e Micalizzi - è affidata al grande Ennio Morricone), in realtà si sgretola come una zolla di terra arida… “Tanto rumore per nulla”, diceva qualcuno. Ed è una frase particolarmente calzante per questo film, la cui parte più interessante, come sempre più spesso accade per i film del regista di Knoxville, è rappresentata dalla fenomenologia della sua genesi.
Cosa accomuna questa pellicola a quella di Corbucci (a parte nome del protagonista e tema musicale iniziale) non è dato saperlo. Ma si è capito che il mestiere di Tarantino è diventato quello di fare dichiarazioni programmatiche votate al sensazionalismo, a cui molti rispondono preannunciando l’arrivo di un nuovo capolavoro; un capolavoro citazionista e dunque rispettoso dei 120 anni di storia del cinema (pazienza se l’omaggio rasenta il plagio o se le dichiarazioni programmatiche si rivelano semplici operazioni di marketing).
In effetti in “Django unchained” assistiamo semplicemente ad un citazionismo di maniera e ad un’operazione furba, improntata come al solito sull’autoreferenzialità (spacciata per cinema d’autore). Se si fosse intitolato diversamente, forse nessuno o pochi si sarebbero accorti del rapporto col film del 1966. Quello di Corbucci era un western quasi “psicologico”, che centrava l’enfasi sui sentimenti del protagonista, con pochi dialoghi ed un’azione richiamata all’occorrenza; quello di Tarantino è invece un western ludico, capace di guardare a tutto tranne che al protagonista, che rimane quasi in sordina (ed è un peccato perché Jamie Foxx si conferma bravissimo); l’economia delle vicende quasi esula dalla figura di Django, finendo per prediligere la coralità. Ed anche l’azione, nella versione tarantiniana non è figlia della rivalsa, ma sembra propedeutica alla volontà dell’autore di fare spettacolo (il fucile di Jamie Foxx, per esempio, ad ogni colpo fa più schizzi di un cannone che spara nell’acqua).
Peccato, perché liberato da tutti questi fardelli “Django unchained” è un discreto film, come tutti quanti quelli di Tarantino in fondo. Soltanto molto meno bello di quanto si creda. In primis perché nemmeno Baz Luhrmann avrebbe messo tante paillette ad un film di genere “macho”. E poi perché l’architettato tam tam che ne preconizza l’uscita più che un punto a favore è diventato un handicap molto debilitante, dato che da ogni pellicola di Tarantino ci si attende sempre qualcosa di sconvolgente, così come accadde per “Le iene” e per “Pulp fiction”.
Il film ha tuttavia anche delle note positive: il ritorno di Samuel L. Jackson tra gli attori principali di un film di Tarantino quasi 20 anni dopo (se si esclude qualche cameo e la voce fuori campo di “Ingorious bastards”) è un evento da segnalare; Jackson, Foxx, ma soprattutto quel fenomeno di Christopher Waltz reggono il ruolo in maniera egregia, alla stessa stregua di un Di Caprio molto credibile.
Nota a margine, ma doverosa sulla colonna sonora. Il film si apre sulle note del citato film di Corbucci e si chiude, chissà per quale motivazione, con il tema principale di “Lo chiamavano Trinità”; in mezzo non solo Morricone (che collabora con Elisa Toffoli per una della canzoni cardine del film), ma anche musica distonica (alla Kubrick), come pezzi rap su scene a cavallo. Scelte discutibili, senza dubbio né originali né particolarmente funzionali.
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