Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Nella sua perpetua fame di cinefago onnivoro, Tarantino si è adesso cimentato con la personale declinazione del contenitore western che, come sempre, al suo interno conserva apporti spuri e vari derivanti da altre espressioni cinematografiche. Così Django Unchained è la risultante dell’embricazione di un melò incastonato in un revenge movie, un buddy movie che è un heist movie in un period drama il quale non si nega le rivendicazioni antirazziste e le critiche verso il capitalismo più selvaggio del social drama dentro all’apparenza generica di un western, spaghetti e non, tutto rimescolato secondo il linguaggio di Tarantino. Perché tra le numerose citazioni che costellano la visione e la reinterpretazione dei diversi generi, il regista non teme né rinuncia a proporsi come stilema a sé stante, incarnazione (anche fisica, per la sua ricorrente presenza in scena) di un aggiornamento ludico della classica cinefilia in cui alto e basso si confondono nel gusto personale.
Sempre più modellato sulla riconoscibile varietà della colonna sonora, che imprime ritmo e stratifica ulteriori rimandi, un film di Tarantino si articola in poche e dilatate scene madri che puntellano un racconto scarno con dialoghi e spargimenti ematici briosi ed effervescenti e una narrazione volutamente sorprendente. Il meccanismo si cristallizza in un nuovo zenith, con esplosioni inverosimili di sangue e scene meno prolungate a beneficio di un’articolazione più ampia di scenari e di situazioni, la concentrazione su pochi personaggi principali senza eccessive derive secondarie e una struttura a tasselli cronologici ordinata su flashback spesso esplicativi.
L’ironia rimane evidente, per l’abuso di sangue e di violenza, per la costanza delle sparatorie e dei massacri e delle disparate sfumature del mexican standoff, mentre il racconto si incardina nel periodo precedente la Guerra Civile e la conseguente abolizione della schiavitù attraverso l’insperata liberazione di uno schiavo, abile tiratore, il suo fortuito reclutamento come cacciatore di taglie e la volontà di liberare dalle grinfie sudiste la moglie. Se il personaggio femminile rimane stranamente sfuocato, limitandosi al ruolo di motore quasi occulto della trama come classica damsel in distress, Django assurge subito al centro della narrazione entrando in scena con un carrello laterale come Jackie Brown, eliminando i suoi aguzzini seguendo l’esempio degli Inglorious Basterds, cercando vendetta alla stregua della Sposa di Kill Bill. Tarantino sa di ripetersi e vuole farlo rendendosi sempre più riconoscibile, pur esasperando sempre l’assunto e intessendo il film di richiami evidenti (i giochi con le ombre lunghe e i controluce dei classici fordiani, la colonna sonora e le zoomate italiane, Franco Nero e il suo antico Django) in una centrifuga di storia del cinema western emancipato (dalla parte delle minoranze) che va a comporre un nuovo tassello di una filmografia in costruzione, una costante rilettura del passato con gli occhi di chi conosce e manipola i generi, rispettandoli o offendendoli a piacimento e sempre con evidente divertimento.
I film sembrano la personale vendetta del regista nei confronti dell’oppressione degli schemi narrativi preesistenti che, nel suo caso, non limitano ma alimentano una narrazione intransigente e libertaria, abolizionistica nei confronti delle regole sì da crearsi le proprie e manifestare un’indipendenza giocosamente irrispettosa e ribelle ma mai offensiva. Il regista continua così la personale esperienza di cinema disincantato e disilluso, benché alla costante ricerca della irripetibile novità della commozione. Nell’irrefrenabile divertimento infantile del distruggere i propri giocattoli preferiti, Tarantino costruisce storie adulte attorno a personaggi improbabilmente credibili che, infine, riescono a veicolare lo stupore dell’emozione, a non rendere vacuo e vano l’esagitato circo in cui si agitano.
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