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Django Unchained

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Django Unchained

di ROTOTOM
9 stelle

 

Cosa c’è di più vero nel cinema se non la finzione ? Mimesi e sostituzione, camuffamento, la materia plastica della Storia che viene maneggiata esplosa e ricomposta in una  forma diversa.

Django ha la D muta , bifolchi e ogni gentiluomo dovrebbe avere nel suo bagaglio il francese. Monsieur. Dumas era nero. Il mandingo D’Artagnan sbranato dai cani. Cortocircuito di senso e forma.
La Storia americana prima della guerra di secessione è riscritta dai due corpi estranei estrattori  - di denti che dondolano ai capricci di una molla ficcata su un carretto ? – di erbacce, un po’ per soldi, un po’ per vendetta, un po’ per gioco.

Un negro e un dottore tedesco. L’Europa che incombe con la propria cultura sull’abnorme ignoranza del fattore del Sud  che si erge a padre, marito, fratello subdolo, confessore, papa e boia carnefice di ogni umanità . Proprio mentre il Lincoln di Spielberg sbarca sugli schermi a fissare nel tempo l’enorme Presidente americano gravato di ombre razziste dai puristi storici, come contraltare di un idem sentire,  il  Django scatenato riemerge dal fango del 1966 a riscrivere la storia di un Sud alla vigilia della Guerra Civile, in una storia western postmoderna contaminata di pulp e revenge movie  nel quale la purezza senza ombre del nero ha la meglio sull’informe e putrida civiltà del bianco. In realtà del Django di Corbucci, con un Franco Nero asciutto come Le samourai  di Melville c’è molto poco. Resiste nel nome, sradicato dagli occhi azzurri di Nero e restituito al nero (Jamie Foxx) che si specchia negli occhi azzurri dell’attore italiano nel cammeo del bar, durante un combattimento tra mandingo, uno dei quali si chiama Luigi.

Fioccano i nomi , bastardi, assurdi, ipotetici lasciati a galleggiare come relitti nel flusso dell’anacronistico linguaggio postmoderno tarantiniano che si spiralizza attorno a bolle svuotate di senso e rivestite di segni e stile . Broomhilda da Sigfrido e il Drago, Big Daddy, Stephan viscido nero che odia i negri. Nigger ripetuto alla nausea. Bianco contro nero, dicotomie che appartenevano ai vecchi film di cappelloni qui ostentato sul colore della pelle.
Ancora fondamentale il linguaggio: il farfugliante verbo dei redneck che si scontra con l’ipnotico  tedesco forbito del Dott. King Schultz (Christoph Waltz) in contrasto al delirante de-evoluzionismo ispirato del ricco latifondista  Calvin Candie da Candyland (Leo Di Caprio) che ragguaglia sulle caratteristiche di un teschio (candido) appartenuto al negro di casa in una laida commistione tra teorie lombrosiane e darwinismo da osteria, spalleggiato dal roco nero Stephan (Samuel L Jackson) corvo edgarallanpoeiano che conosce i nigger più di se stesso.

Scorre una disincantata violenza pop che richiama lo splatter con gaudio giocoso, un sangue fresco , chiaro e gorgogliante sprizza dalla carne frolla, il torture porn e il trash bianco ritrattati nelle catapecchie abitate da sdentati, orrorifici redneck osceni, razzisti, stupidi. Carne da macello. E macello fu (sarà) (è stato) ?
Il melting pot di stili e registri incalza come da copione senza sosta, fatto sta che le due ore e 45 minuti volano su ritmi scanditi di farsa e tragedia, commedia e violenza. La carne che si apre generosa ai colpi delle colt in un trionfo di suoni iperrealistici-  si sente il rumore del cane e dell’esplosione della carica fino al plof della carne vinta dalla fisica della balistica ; lo scatto della Derringer ; il sordo rimbombo del fucile a canne mozze; il sibilo rettile della frusta –  si fonde alla colonna sonora che pesca nel contemporaneo le sonorità che inchiodano al loro destino i protagonisti. Luis Bacalov/Rocky Roberts della title track, il  gangsta rap, il lirismo di Morricone e Elisa Toffoli passando per Beethoven.

Il cinema di Tarantino non ha ambizioni storico didattiche, i suoi personaggi sono moderni nelle loro pulsioni, specchio deforme che ha ne La Casa di Candyland, bianca immacolata e troneggiante , l’antro entro cui si perpetrano le violenze più atroci  nulla ha a che vedere con la Tara di fleminghiana memoria. Nel cinema di Tarantino i personaggi di fronte alla morte sono tutti uguali, si muore quando è ora di morire. Ecco quindi che il decesso di un paio di protagonisti avviene in maniera quasi casuale – sempre al termine di insostenibili tensioni verbali – rifiutando l’escalation classica del confronto / duello finale tra eroe e antagonista cara al cinema classico.

Il Django di Tarantino non ha neppure in sé l’epica del selvaggio west, della frontiera. Nessun significato metafisico. Il cinema di Tarantino basta a se stesso come somma di segni che riconducono ognuno a esperienze dislocate nella cultura cinematografica consolidata e rimangono lì, sullo schermo , come cicatrici a ricordare le emozioni passate.
Quelle cicatrici che segnano gli schiavi che entrano in scena sulla musica di Django, di spalle, come entrava in scena di spalle  Franco Nero trascinandosi dietro la bara carica di morte. 

Django Unchained è un western di Tarantino , un pezzo di storia che parte nel suo immaginario privato e che poi passerà per l’ucronia di Bastardi Senza Gloria e via via verso la destrutturazione di Pulp Fiction, l’immortalità della sposa di Kill Bill, la contemporaneità de Le iene il cui twist più famoso , il taglio dell’orecchio del poliziotto da parte di Michael Madsen, viene ripescato proprio dal ’66 nel Django di Corbucci.
Dell'originale imane l’uso dello zoom stile anni 70, ma l’ambientazione da set tradisce l’intenzione ludica del film. Tarantino non si preoccupa che la finzione si veda , che il set sia lindo, che la polvere non esista. L’occhio vuole (tutta) la sua parte e in un west senza polvere nel quale le pistole scintillano il sangue non si impasta alla nuda terra,  lo sguardo si incunea in ogni dettaglio con partecipato ludibrio.
Poiché quello che vede Tarantino è ciò che vede lo spettatore, l’atto liberatorio rituale del feticcio, della citazione, del giocoso non sense ha un effetto catartico comune a tutte le sue opere. Tarantino spettatore del suo immaginario che sempre ha allontanato da sé intellettualismi pomposi in favore del cinema viscerale divenendo egli stesso materia intellettuale. Catarsi di un genio.

Django Unchained è un signor film dalla trama semplice capace di momenti sublimi – la diatriba per i cappucci dai buchi fatti male del delirante commando del ku klux klan – ma anche qualche momento farraginoso. Cosucce di poco conto che non inficiano per nulla il valore del film ma che in qualche sviluppo narrativo non permettono al racconto di farsi così fluido e il meccanismo gracchia un poco sul peso della forzatura. Nulla di male, è il pelo nell’uovo di un film ottimo. Divertente cinema fattosi carne e impregnato di sangue e stile.    

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