Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Primo vero passo falso di Tarantino, in 20 anni di onorata carriera. Succede anche ai migliori. Speriamo si riprenda al più presto. In questo spaghetti-pulp-western ha sbagliato tutto. La durata, quasi tre ore: troppe per un revenge-movie con questa sceneggiatura. I dialoghi, privi dell’ironia corrosiva, svagata e surreale che aveva contraddistinto le precedenti prove, annaspano in un fastidioso cinismo fine a se stesso. I personaggi! Non c’è una vera figura memorabile, per quanto grottesca e sopra le righe, a differenza di qualsiasi precedente film di QT: manca la fantasia, la creatività, il colore, la stravaganza nella truce umanità che popola Django Unchained. E non bastano gli ottimi Waltz e Jackson a salvare la baracca (tanto più che Foxx si rivela davvero insipido, e Di Caprio irritante nella sua proverbiale, anche se altrove efficace, recitazione caricata; per non parlare dei comprimari). E poi, c’è la struttura narrativa. Tarantino aveva elaborato uno stile inconfondibile, basato su lunghe, statiche, ipnotiche sequenze caratterizzate da unità di luogo e di tempo, dove si ricavava tanto significato da poche inquadrature: una sorta di reinvezione della rapsodia, all’insegna di un minimalismo sferzante. In Django Unchained, invece, l’impianto narrativo regredisce ad una normale progressione di scene madri alternate a “riempitivi” necessari a sviluppare la sceneggiatura. A questa normalizzazione narrativa, infine, si accoppia un’inventiva davvero misera, se paragonata a quello a cui QT ci aveva abituato. E credo che la chiave di questo blocco creativo sia da ritrovare nella rinuncia al consueto sincretismo di stili e immaginari: se in Pulp Fiction, Kill Bill e soprattutto Inglorious Basterds la fantasia dell’autore di estrinsecava in accostamenti e ibridazioni ardite e impensabili fra “cinemi” tanto distanti fra di loro, in Django Unchained si resta avvinghiati nel sadismo già visto nel western italiano, con abbondante condimento pulp e qualche rarissima escursione meta-filmica (esempio: Waltz che segnala allo spettatore come lo sceriffo entri nel saloon “perfettamente in battuta”). Insomma, Django Unchained non è una meditazione personale di QT sull’immaginario dei B-movie a partire da Corbucci, come ci si attendeva (come Inglorious Basterds e Grindhouse partivano da Castellari e Russ Meyer, per poi svariare senza alcun freno inibitore), ma semplicemente uno spaghetti-western inutilmente dilatato, riveduto e corretto. Film infine debolissimo, anche sul piano simbolico-morale, per come rappresenta la questione dello schiavismo, risolvendola facilmente secondo la logica tipicamente individualista del “mors mea vita tua” (dove vige la regola del più forte, e se un nero è tanto spietato da sapersi comportare come un bianco, buon per lui). Laddove il finale incendiario di Inglorious Basterds voleva essere un inno al cinema e al suo potere di cambiare la Storia, quello di Django Unchained è una stanca, noiosa e insensata carneficina, dove la dinamite non ha alcun potere catartico, ma solo il merito di far concludere, alla buon’ora, un film troppo insipido per essere di Quentin Tarantino.
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