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Django Unchained

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Django Unchained

di ed wood
4 stelle

Primo vero passo falso di Tarantino, in 20 anni di onorata carriera. Succede anche ai migliori. Speriamo si riprenda al più presto. In questo spaghetti-pulp-western ha sbagliato tutto. La durata, quasi tre ore: troppe per un revenge-movie con questa sceneggiatura. I dialoghi, privi dell’ironia corrosiva, svagata e surreale che aveva contraddistinto le precedenti prove, annaspano in un fastidioso cinismo fine a se stesso. I personaggi! Non c’è una vera figura memorabile, per quanto grottesca e sopra le righe, a differenza di qualsiasi precedente film di QT: manca la fantasia, la creatività, il colore, la stravaganza nella truce umanità che popola Django Unchained. E non bastano gli ottimi Waltz e Jackson a salvare la baracca (tanto più che Foxx si rivela davvero insipido, e Di Caprio irritante nella sua proverbiale, anche se altrove efficace, recitazione caricata; per non parlare dei comprimari). E poi, c’è la struttura narrativa. Tarantino aveva elaborato uno stile inconfondibile, basato su lunghe, statiche, ipnotiche sequenze caratterizzate da unità di luogo e di tempo, dove si ricavava tanto significato da poche inquadrature: una sorta di reinvezione della rapsodia, all’insegna di un minimalismo sferzante. In Django Unchained, invece, l’impianto narrativo regredisce ad una normale progressione di scene madri alternate a “riempitivi” necessari a sviluppare la sceneggiatura. A questa normalizzazione narrativa, infine, si accoppia un’inventiva davvero misera, se paragonata a quello a cui QT ci aveva abituato. E credo che la chiave di questo blocco creativo sia da ritrovare nella rinuncia al consueto sincretismo di stili e immaginari: se in Pulp Fiction, Kill Bill e soprattutto Inglorious Basterds la fantasia dell’autore di estrinsecava in accostamenti e ibridazioni ardite e impensabili fra “cinemi” tanto distanti fra di loro, in Django Unchained si resta avvinghiati nel sadismo già visto nel western italiano, con abbondante condimento pulp e qualche rarissima escursione meta-filmica (esempio: Waltz che segnala allo spettatore come lo sceriffo entri nel saloon “perfettamente in battuta”). Insomma, Django Unchained non è una meditazione personale di QT sull’immaginario dei B-movie a partire da Corbucci, come ci si attendeva (come Inglorious Basterds e Grindhouse partivano da Castellari e Russ Meyer, per poi svariare senza alcun freno inibitore), ma semplicemente uno spaghetti-western inutilmente dilatato, riveduto e corretto. Film infine debolissimo, anche sul piano simbolico-morale, per come rappresenta la questione dello schiavismo, risolvendola facilmente secondo la logica tipicamente individualista del “mors mea vita tua” (dove vige la regola del più forte, e se un nero è tanto spietato da sapersi comportare come un bianco, buon per lui). Laddove il finale incendiario di Inglorious Basterds voleva essere un inno al cinema e al suo potere di cambiare la Storia, quello di Django Unchained è una stanca, noiosa e insensata carneficina, dove la dinamite non ha alcun potere catartico, ma solo il merito di far concludere, alla buon’ora, un film troppo insipido per essere di Quentin Tarantino.

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