Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Mi vengono in mente due immagini dopo aver visto Django, nella prima il”bastardo” B.Pitt mentre dice che quello che ha appena fatto è il suo capolavoro, nella seconda il Jules/Jackson di Pulp fiction mentre ammonisce i delinquentelli”..avevi finito, tutto qui? Sai, non mi hai convinto..” A differenza degli altri film di Tarantino, Django non evoca un’immagine memorabile, puramente esplicativa. Il film denota più di un cambiamento di registro di stile e di contenuto, collocando Django in un’ottica a sé stante. Abituati a percorrere tumultuose strutture narrative senza curare troppo o per niente il contenuto morale, Tarantino orienta decisamente la percezione dello spettatore sulla tematica guida, in questo caso la schiavitù, la riconquista della libertà, il conseguente giudizio morale condizionato dalle scontate opinioni al riguardo influenza e legittima l’azione del duo Django e Shultz affievolendo notevolmente quelle caratteristiche nichiliste e antisistema proprie dei suoi personaggi. Mai come questa volta il regista ha diviso così chiaramente lo scenario morale fra il bene e il male, l’equilibrio interno dello spettatore non risulta neanche per un istante minato da qualche piccolo dubbio, fortificato da uno scenario ambientale classico e strutturato fedelmente al genere di riferimento del quale Django è un tributo. Ma smontare e ricreare linguaggi di genere su binari completamente diversi, iperreali ed inconsueti, non era una delle qualità migliori di Tarantino? In Django la provocazione è costituita dalla semplice rivalutazione di un genere che non ha più sussulti, la vendetta del regista è finalizzata all’inserimento potente quanto si vuole di una traccia significativa dal forte contenuto morale, anche senza la quale i film del nostro S.Leone, per esempio risultano molto più godibili e coinvolgenti. Sembra più una rivalsa magari anche giusta, ma poco efficace, verso quella colpevole omessa attenzione della critica dei tempi andati verso quei generi popolari e di successo così distanti dal cinema d'autore. Il fatto è che oggi siamo in presenza di autori che non hanno timore a contaminarsi con linguaggi stilistici inconsueti, magari in piccola parte grazie anche a Tarantino, e la portata “rivoluzionaria” di Django non trasmette qualcosa di imprevedibilmente nuovo. Il racconto si attorciglia su di sé, sullo schematismo che lo confina nel rispettare regole di un genere dallo spirito anarcoide che invece poteva trarre proprio dall’improvvisazione della scrittura e dei suoi interpreti gran parte della sua forza. Non mancano citazioni brillanti o una colonna sonora appropriata ( il rap si sostituisce alla surf music), qualche sussulto di quel respiro d’amore totale per il cinema che Quentin non negherà mai. Ciò di cui si sente realmente la mancanza è l’eccesso, violento, verbale, di comportamento, insomma di quegli elementi che mixati come il regista sa fare, creano quella miscela esplosiva che ingigantisce le peculiarità dei suoi personaggi, generando icone stilizzate, codificate e vuote, senza il bisogno che siano credibili. Ne soffre il rito collettivo, quel divertimento contagioso e schizofrenico al quale Tarantino mira, il divertimento che esalta, che collima con visioni forti di una realtà tanto inesistente da trascinare successivamente ad una revisione di quello che si mostra in superficie. In Django non avviene, è tutto spiegabile e organico alla storia, immancabile lo showdown per fortuna, ma qualche lungaggine di troppo stavolta sfida lo sbadiglio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta