Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Clint Eastwood in Per un pugno di dollari (1964) entrava in scena di spalle. Franco Nero in Django (1966) entrava di spalle e a piedi. L'antieroe demitizzato del western risemantizzato entra in scena di spalle, magari appiedato, magari anche...negro. Jamie Foxx, schiavo negro venduto e rivenduto da illuminati aristocratici del profondo sud americano, entra in scena di spalle, camminando in fila con altri schiavi afros come lui. A piedi nudi, su terra e fango, con una sola coperta a coprirli e a nascondere il corpo segnato dalla frusta, il Black Django di Tarantino riprende l'idea originale di Corbucci e da lì riparte per fare quello che di solito si fa con il western: reinterpretare miti primitivi con la forza della modernità utilizzando un altrove e un altrieri di incisiva capacità rappresentativa.
Puoi farci Shakespeare con il western. Puoi farci Omero. Puoi farci anche un porno, se vuoi. Con il western puoi raccontare tutto quello che vuoi, senza farlo mai passare di moda, perchè il western è il teatro di tutte le umane passioni. In Django Scatenato Tarantino infatti reimposta tutto sul tema classico della vendetta e lo nutre morbosamente con l'altro grande tema di fondo presente anche nell'originale di Corbucci: il razzismo. Difatti, vendetta e razzismo sono le mutue componenti dell'archetipo del 1966 dove la vendetta nasce dalla violenza razzista, e in cui la violenza razzista muore per mano di una vendetta mai assopita. Anche nel plot tarantiniano serpeggia la "questione della razza" fin dai titoli di testa – bellissimi per scelta visiva, grafica e per la celebre canzone di Bacalov-Migliacci cantata da Rocky Roberts celebrata nella sua riedizione su grande schermo – e la vendetta è il tema che innerva la narrazione dall'inizio alla fine passando per ogni snodo narrativo, ricostruendo ad ogni passo un'architettura della vengeance fatta di rabbia accumulata, corpi continuamente lesionati e silenzi dell'anima profondi come l'intrico della vegetazione sureña del Mississippi.
Dopotutto il western di Tarantino è soprattutto southern, e di quest'altra direttrice dei quattro massimi generi americani prende temi e iconografia da accostare e integrare al genere primo e puro. Quasi totalmente ambientato nel Mississippi, Django Scatenato porta in primo piano l'estetica di un genere, goticheggiante, labirintico, oscuro e morboso, attraverso i segni stessi di quella terra e di quel genere: paludi, salici piangenti, fitta vegetazione, piantagioni di cotone, forte presenza di afros con il proprio bagaglio culturale e fisico, grandi case padronali, il bianco sepolcrale dei vestiti, delle mura e del sole abbacinante, e una certa inclinazione ambigua per la lascivia e la cimiterialità. Resta comunque un western per le immagini e i motivi dominanti, nonché per i temi, che vanno dalle cavalcate al paesaggio desertico, dal bivacco notturno all'entrata in paese dello "straniero", dalle sparatorie ai duelli. Senza appunto contare la presenza fondamentale del tema della vendetta, tra i cardini fondativi del western stesso, ma tale proprio per essere alla base del rimosso americano nato con la genesi del suo popolo ai danni delle cosiddette minoranze etniche.
Tutte queste tensioni, sia fisiche che strettamente politiche – la tensione erotica per il corpo dell'amata, quella per il corpo dello schiavo Jamie Foxx in un generoso full frontal nude a testa in giù, quella per i corpulenti lottari neri che cela una silenziosa attrazione/gelosia/invidia/brama per un corpo perfetto, tonico e dotato come quello dell'etnia africana e Leo DiCaprio è perfetto a trasmettere questa lascivia repressa; così come la tensione politica e poco dialettica ma molto anarchica tra la cieca barbarie razzista e la sua violenta nemesi: la vendetta, il delitto. Tutte queste tensioni vengono rappresentate in Django Scatenato con il tipico piglio tarantiniano modulato su "corpo a corpo" attoriali, molto fisici, e su dialoghi come al suo solito lunghi, prolissi, inconcludenti, digressivi o sorprendentemente cervellotici ma infinitamente filosofici e coerenti. Dialoghi come quelli con Waltz, quello zoppicante tra Don Johnson e una sua schiava o quello divertentissimo tra i membri del Ku-Klux-Clan. La profondità del dialogo tarantiniano sta paradossalmente nella sua superficie. È la struttura stessa del dialogo il suo più profondo significato Un significato di disorientamento linguistico – nel film si parlano e citano più lingue: francese, tedesco e inglese – che fa dei principali personaggi del film la sintesi di un uomo babelico incapace di dialogare, capire, accettare e infine tollerare.
Il vecchio Stephen interprato con generosità da Samel L. Jackson è mezzo sordo. Una sordità fisica come morale. Non vuole sentire le ragioni del suo popolo e si vota al suo padroncino come una prostituta al suo pappone. Il Big Daddy di Don Johnson domina la sua immensa proprietà ma né riesce a costruire un dialogo con i suoi servi neri né con i membri del clan razzista come ci viene raccontato da una scena ormai entrata di diritto nell'immaginario cinematografico, in cui il regista prende letteralmente per il culo gli invasati bianchi per poi sterminarli tutti senza pietà. Così anche il monsieur Candy di Leonardo DiCaprio, logorroico ma poco incline all'ascolto se non quando viene punto sul vivo rischiando che terzi distruggano in un soffio il suo regno retto dalla menzogna.
Il cinema di Tarantino dopotutto è prettamente verboso, e fa quindi della logorroica tendenza alla ciarla inutile una cifra stilistica che, se ben ci becca in generi come il gangster e il noir di Le Iene (1992) e Pulp Fiction (1994), cozza fortemente con il western di Django Scatenato. Non per questo il film ha un valore inferiore ai precedenti. Semplicemente, nel lavoro di risemantizzazione del genere, il regista tende, come sua spiccata prerogativa, a inclinare tutto sul piano del grottesco, ironizzando su personaggi, situazioni e topoi, e destabilizzando la durezza e la purezza del genere con improvvisi slanci di bizzarrie varie, citazionismi e semplici divertissement – basti vedere la morte che riserva a se stesso verso la fine del film.
L'anima puramente western, dove palpita realmente il genere, è tutta sorprendentemente in Jamie Foxx. L'attore afro-americano è stupefacente. Tiene la parte come se fosse nato nei panni di Django. Un volto western incisivo e non fuori luogo – come invece DiCaprio che già lo era in Pronti a Morire (1995), o come Cristoph Walzt per cui non ho tutta l'ammirazione che gli conferisce la critica intera. Non solo Foxx va applaudito per il nudo frontale, ma anche per la calibrata interpretazione di un vero western-character. A parte qualche tipica faccia azzeccatissima, dal chiaro gioco cinefilo, come Tom Wopat – il moro dei fratelli Duke di Hazzard per intenderci – Don Stroud ovvero il folle Ringerman de L'uomo dalla cravatta di cuoio (1968) che dà "filo da torcere" a Clint Eastwood per tutta New York, oppure Russ Tumblyn – ex doctor Jacobi di Twin Peaks – e l'immancabile Michael Parks from Kill Bill (2003), l'unico vero western-character è Jamie Foxx. Volto, corpo, personaggio. Tutto è puramente western in lui – se gli si concede la stravaganza del regista di farlo vestire da paggetto in livrea blu cobalto – e va felicemente ad inserirsi con onore in quella breve lista di black cowboys che annovera Jim Brown, Mario Van Peebles, Danny Glover e pochi altri. Se proprio volessimo trovare dei difetti a Django Scatenato – e personalmente li trovo nel calo di ritmo dell'avventura segnato dalla verbosità di molte scene e nell'accumulo di immagini spurie che spersonalizzano il genere, come il carro del dentista Shultz, gli abiti fin troppo eleganti di fin troppi personaggi, le ambientazioni domestiche di fin troppe scene: il western dopotutto è fatto di esterni, di battute lapidarie, personaggi duri e scontrosi, violenti, erranti, "bradi", come infatti lo è visceralmente il Django di Jamie Foxx.
Altro elemento importante dei film di Quentin Tarantino, sono i personaggi, molto caratterizzati, molto fumetizzati, e per i quali servono gli attori giusti. Se già si è parlato e bene di Foxx. Jackson e DiCaprio, Waltz e Johnson come di quegli attori in ruoli generici come Wopat, Parks e Tumblyn, vanno citati anche Bruce Dern, in una sola, unica e fica posa nei panni del vecchio sadico Carrucan, Tom Savini domatore della muta infernale, James Russo con cui si apre il film, Jonah Hill, la tarantiniana stuntgirl Zoe "the cat" Bell, la bellissima Kerry Washington e un fugace Rex Linn. Su tutti, manco a dirlo, troneggia il vero e originale Django: Franco Nero. A settant'anni compiuti il glorioso attore di San Prospero si presta a questo gioco spersonalizzante interpretando un negriero dedito alle lotte tra mandingo, attività ludica, da aristocratico signore feudale che DiCaprio utilizza per soddisfare ben altri stimoli e istinti, sublimati nella violenza erotica della lotto tutta maschile. Qui Franco Nero appare abbastanza fuori luogo, data l'ambiguità della scena, ma il gioco è presto servito con il suo incontro con il Black Django. Una posa, quella al banco del saloon, che entra di diritto nell'universo citazionista della poetica tarantiniana, suggellando il ben conosciuto amore del regista per il nostro cinema di genere.
Ciò che va oltre al western, ed è poi la vis politica del film è il razzismo. Tarantino compie con Django Scatenato lo stesso che aveva fatto con la morte di Hitler in Bastardi Senza Gloria (2009). Uccidere, in una violenta scarica di rabbia repressa, l'artefice di tanto male, il responsabile della morte di migliaia di innocenti, tra l'altro morti sadiche, orribili senza giustificazione alcuna, ha significato molto politicamente. Tarantino ha voluto fare quello che la Storia non ha fatto, regalando a tutti, oltre il piacere della visione, un "immorale" senso di soddisfazione per le ingiustizie ricevute. Pur non essendo auspicabile la vendetta che segue la legge del taglione, da un punto di vista della soddisfazione subliminane, è più che lecito giocare immaginificamente con queste tensioni sociali e puramente politiche. Finisce che prima di omaggiare il Sergio Leone de Il buono, il brutto, il cattivo (1966) – Samuel L. Jackson che rifà Eli Wallach nella celebre battuta di chiusura – Tarantino affoga secoli di folle, insensata e religiosa discriminazione razziale WASP in un bagno di sangue. Una carneficina di proporzioni bibliche, forse la più generosa in sangue e frattaglie, lunga e articolata, montata con genio narrativo, un film nel film che accelera il ritmo e recupera quello perso nella verbosità del prime-time.
Le due grandi mattanze del film, quella in casa di DiCaprio e quella conclusiva contro Jackson e i sopravvissuti, intervallate dal corpo nudo di Foxx appeso a "testicoli" in giù a fare da traite d'union tra la complessa dialettica dei corpi, esemplifica in un'estetica pulp fatta di mucha sangre e sbudellamenti iperreali tutta la carnalità delle due simbiotiche tematiche di rito, vendetta e razzismo. Il corpo, prima bramato e desiderato, poi eroticizzato e infine massacrato, è l'input da cui parte la patologia razzista, l'invidia per una razza forte, la brama per dettagli virili non posseduti, un atavico senso di paura e insicurezza tale da dover inventare la balla colossale della supremazia della razza e giustificarla scientificamente dall'analisi del teschio di un uomo nero. Questa patologia viene letteralmente massacrata da Tarantino sia attraverso il taglio comico con cui si prende gioco dell'impianto sociale del clan e dei suoi adepti, ridicolizzandoli come pupazzi devirilizzati o come rednecks zotici e analfabeti – bellissimo il personaggio di Mr. Stonesipher interpretato da David Steen – sia attraverso il taglio più decisamente violento e propriamente western con cui innesca la rivalità e la conseguente nemesi tra antagonisti e quindi, infine, tra opposte istanze politiche. Perché Django Scatenato, è un film politico. E con il western puoi dire tutto quello che vuoi.
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