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Grace Is Gone

Regia di James C. Strouse vedi scheda film

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La recensione su Grace Is Gone

di lao
8 stelle

Esiste un posto dove vorremmo essere quando lutti o eventi tragici ci colpiscono? Stanley alla notizia della morte della moglie Grace, ufficiale dell’esercito in Iraq, prende le due figlie bambine, fa chilometri in autostrada, arriva dalla madre, sale nella sua camera di ragazzo, e lì, restato solo, si getta sul letto, e piange: tra quella quattro pareti di una villetta piccolo borghese, simile a tante altri, l’ex militare tradito dalla Nazione o dal destino ritrova se stesso, lì si infrangono definitivamente le illusioni, lì ciò che è stato non potrà mai più essere. Strouse di fatto relega negli angoli il dibattito sulla guerra in Iraq, su cui invece la recente cinematografia statunitense impegnata si è incentrata, e pone a tema del lungometraggio la casa o meglio le case dalle quali un’esistenza prende forma: vi è la casa di famiglia dove aleggia ancora il fantasma di Grace, vi è la casa giocattolo nel cuore del grande magazzino, dove si rinchiude la piccola Dawn, vi è ciò che sopravvive di una casa nelle note di una voce dalla segretaria telefonica o nei ricordi indelebili del passato e infine vi è la grande casa, quella che contiene tutte le altre, la Patria, gli Stati Uniti d’America, con le sue strade, con le stanze d’albergo, con i parcheggi sterminati e il luccichio delle auto. Muri, pareti, mobili, spazi a cielo aperto o ambienti chiusi, eppure sono gli uomini a dare loro un’anima o a ricercarvela affannosamente, quando essa sembra essersi smarrita: la guerra mina dalla fondamenta l’identità di una Nazione ed essa, se vuole sopravvivere, deve ritrovarla, rielaborando i propri lutti. Pertanto la domanda elusa volutamente da Grace is gone sull’utilità del sacrificio dei giovani mandati sui campi di battaglia attesta l’intento della pellicola di arrivare al cuore della questione, svincolandosi dalla scontata polemica anti Bush, da una prospettiva ben più profonda e non sorprende che l’eclettico Clint Eastwood abbia composto un dolente commento musicale al sofferto itinerario: la Storia porta alla ribalta politici disonesti o incapaci quasi sempre, ma gli individui comuni vivono in buona fede nell’ombra del palcoscenico e il loro eroismo dimesso consiste nella forza di risanare le ferite di cui nella maggior parte dei casi non sono responsabili in prima persona. Il viaggio di Stanley e della figlia maggiore, la saggia Heidi, attraverso gli States è così un dilacerante intervento di ricostruzione dopo una devastante demolizione, indispensabile per preservare la purezza della più fragile fra loro, figlia minore e sorella, e con lei un futuro: per questo devono andare fino in fondo senza cedimenti consolatori nell’esplorazione della piaga, non prendendo in considerazione l’ovvia solidarietà dell’argomentato pacifismo dello zio contestatore. Il percorso è ostruito da ostacoli, la meta si avvicina e si allontana di continuo fra deviazioni e scorciatoie: il sentiero è tutto interiore e la regia pudica di Strouse consente di intravedere il faticoso strascicarsi del procedere negli scatti nervosi, nei rari e scabri colloqui, nel tarpare le alti alle sdolcinature, nel consentire alle asperità caratteriale di affiorare e nelle lacrimevoli ricomposizioni, inevitabile tributo alla retorica dell’epitaffio. E alla fine la soluzione arriva ed è quella prevedibile, essendo l’unica possibile: la capanna nel reparto giocattoli concede un riparo dalla bufera non la resurrezione. Mio blog..http://spettatore.ilcannocchiale.it

Cosa cambierei

avrei asciugato il finale

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