Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film
Dopo "Milano rovente" (1973), Lenzi gira il secondo poliziesco (in realtà più un noir), scritto dallo specialista Ernesto Gastaldi. Un cast esemplare (Milian, Lovelock, Silva, Belli), la sceneggiatura perfetta, assieme a una direzione dinamica e suggestiva, ne fanno un capolavoro del genere oltreché una delle migliori pellicole dirette dal regista.
Milano, primi anni '70. Giulio Sacchi (Tomas Milian) passa le giornate al bar, vivendo alle spalle della fidanzata Iona (Anita Strindberg) quando non coinvolto in furti per conto del malvivente Majone (Luciano Catenacci). Proprio durante una rapina si rende colpevole dell'omicidio di un vigile, venendo per questo allontanato dalla banda. Puntualmente Giulio passa a prendere Iona quando esce dall'ufficio e, proprio in questa circostanza, nota Marilù (Laura Belli): la giovane e bella figlia del ricco commendator Porrino, datore di lavoro della fidanzata. Inizia quindi a pensare di realizzare un sequestro a scopo di riscatto (500 milioni di lire), coinvolgendo nel suo folle piano gli amici Vittorio (Gino Santercole) e Carmine (Ray Lovelock). Sin dall'inizio Giulio chiarisce che l'azione non prevede testimoni, pertanto la stessa Marilù, una volta incassato il riscatto, dovrà essere uccisa. Facendo ricorso a sostanze stupefacenti il trio criminale si rende artefice del sequestro, senza mostrare alcuna pietà per gli sfortunati, occasionali, testimoni. Un'intera famiglia, bambina compresa, viene letteralmente massacrata quando Marilù, in un vano tentativo di fuga, finisce all'interno di una villa per chiedere soccorso. In un progressivo, delirante percorso amorale e violento, Giulio arriva ad eliminare persino la sua ragazza facendola precipitare nelle profondità del Lago di Como, alla quale aveva rubato l'auto utilizzata durante il sequestro. Al commissario Walter Grandi (Henry Silva) tocca indagare sul rapimento della Porrino, mentre la lista di cadaveri attribuibili ai sequestratori si allunga. Grandi, mettendo assieme una lunga serie di indizi, arriva ad identificare Sacchi come probabile autore di alcuni delitti e dello stesso sequestro Porrino ma, nel frattempo, il criminale si è costruito un solido alibi con il supporto di Majone.
"Se ti vergogni quando vengo a prenderti in ufficio è perché sono un poveretto... perché non sono un signore."
(Giulio Sacchi esprime il suo sentimento di emarginato alla fidanzata)
Ernesto Gastaldi scrive una sceneggiatura particolarmente vivace, perfettamente calata nel clima di disilluso post '68, non priva di risvolti noir alla Scerbanenco. Milano odia: la polizia non può sparare è infatti un curioso, riuscito e sensazionale, ibrido tra poliziesco (la prima mezz'ora costituita da rapine e inseguimenti automobilistici) e noir in senso stretto. Prodotto da Luciano Martino, musicato da Bruno Nicolai - esecutore di una perfetta colonna sonora, composta da Ennio Morricone - e ben fotografato da Federico Zanni, il film è destinato a diventare una pietra miliare nel genere grazie alla strepitosa immedesimazione di Tomas Milian, qui volto, corpo e spirito di Giulio Sacchi, ovvero un personaggio "ribelle", emarginato e sinistro, avverso al potere costituito, alla borghesia, alla famiglia e alla società intera, disperatamente alla continua ricerca di un riscatto sociale che sceglie di attuare nella maniera più folle e assurda possibile. Giulio trascina nel suo delirante viaggio autodistruttivo chi gli sta vicino (consapevolmente, come faranno Carmine e Vittorio, o inconsapevolmente come toccherà a Iona), senza porsi freni morali, liberando il lato più oscuro e mostruoso della sua personalità, arrivando persino a farsi promotore dell'amore universale e dando infine sfogo al suo istinto omosessuale, quando impone a una vittima maschile di farsi fare un blowjob. Un testo potente e suggestivo, che oscilla tra ideologie di destra e di sinistra (all'epoca tendenze politiche monopolizzatrici dell'opinione pubblica) viene quindi adattato per il grande schermo da Umberto Lenzi, regista perfettamente a suo agio con la tematica (e probabilmente molto in sintonia con l'interpretazione di Milian) e, anzi, in grado (stando alle dichiarazioni dello sceneggiatore Gastaldi, contenute nell'audiocommento al film del DVD Alan Young) di infondere ulteriore nichilismo, pessimismo, malessere psicologico a ogni personaggio presente nel film. Benché Lenzi abbia sempre dato esempio di essere un ottimo artigiano trattando svariate tipologie di genere, con Milano odia: la polizia non può sparare sigla il suo capolavoro. Merito non solo dell'indiscutibile talento del cineasta, ma anche dell'ottimo contributo delle maestranze tecniche (sceneggiatore, operatore alla macchina, musicista) e di quelle artistiche (oltre a Milian e Lovelock, resta impressa la determinata figura del commissario Grandi, al quale si adatta perfettamente la gelida, quasi monoespressiva, faccia del grande Henry Silva).
La parola a Umberto Lenzi
"Milano odia: la polizia non può sparare non era propriamente un film poliziottesco, tutt'altro, è un noir puro e semplice sulla falsariga dei noir francesi che poi hanno avuto in Italia come autore Fernando di Leo. Il noir è quel tipo di poliziesco dove il protagonista non è il poliziotto ma il cattivo, il criminale. Milano odia non era una storia mia ma di Ernesto Gastaldi, e cercai di accentuarne la connotazione sociale che non c'era: cioè, il personaggio di Milian è un personaggio sgradevole, violento, un assassino senza scrupoli, però è anche un emarginato sociale, un carattere che è frutto di una società sbagliata, in cui il capitale e il successo sono dei fattori determinanti; tant'è vero che il finale è emblematico, quando lui viene ucciso in mezzo all'immondizia, in mezzo a tutti quelli che sono i rifiuti sociali. Tomas, quando giravamo, beveva circa una bottiglia di vodka al giorno e prendeva una decina di Optalidon - diceva lui - ma forse anche qualche altra cosa, per cui era sempre a livelli di forzatura psicologica e anche fisica tali da poter interpretare bene il personaggio. Quando arrivava al punto di interpretare la scena si trasformava e - lui stesso lo ammetteva - non era più Tomas Milian, ma Giulio Sacchi, personaggio che l'ha perseguitato per tutta la vita. Anche ora, quando parla dei suoi personaggi - ne avrà interpretati penso 150 nella sua carriera - da Tepepa a Giraldi, dice sempre che la sua più grande interpretazione è stata quella di Giulio Sacchi. Il cast del film è particolarmente indovinato, con la riserva di Henry Silva che aveva sempre interpretato ruoli da killer e questa volta faceva invece il poliziotto. Fu naturalmente un caso singolare, perché il film stava per essere iniziato e il produttore, Luciano Martino, aveva un'opzione per un altro film, che aveva diretto il fratello Sergio, con l'attore americano Richard Conte. La mattina in cui stavamo per partire per Milano, il mio assistente di produzione doveva telefonare dall'ufficio e parlare con l'agente di Conte per spedirgli il biglietto aereo diretto, da Los Angeles a Milano; rispose la moglie e disse che Conte era morto da poche ore. Fu così sostituito dal primo disponibile, che era Henry Silva. Io cercai di renderlo il più aderente possibile al personaggio e anche il personaggio della sceneggiatura di modellarlo molto sulla faccia dell'attore. Però, visto che lo scontro del commissario con Tomas era lo scontro con un personaggio amorale, violento e pure omicida, l'espressione sempre ferma di Henry, una non-espressione, fu contrabbandata come severità di un poliziotto integerrimo". [1]
"Il nostro era un cinema che radiografava l'incontenibile violenza metropolitana a cui erano sottoposte le città italiane, specie Roma, Milano e Napoli. [...] Le forze dell'ordine erano completamente impreparate, non disponendo di mezzi adeguati a contenere quest'ondata criminale. All'epoca si poteva uscire dalla macchina, mettere un bavaglio sul viso, entrare in una banca con il mitra e sparare. Per questo si verificò una situazione paradossale, perché la malavita sembrava prevalere. E il cinema registrò quest'atmosfera. [...] Un film come Roma a mano armata fotografava la periferia operaia, lo squallore delle borgate, il comportamento quotidiano di malviventi e poliziotti, le banche senza sorveglianza, i lavoranti e i facchini sottopagati del Mattatoio, gli sfasciacarrozze, i biscazzieri, gli spacciatori di quartiere o i ricoverati nei manicomi, come in una celebre sequenza della Banda del gobbo. I miei film polizieschi degli anni '70, da Milano odia al Trucido e lo sbirro a Napoli violenta, erano lo specchio della società italiana di quel decennio drammatico". [2]
"Milano odia: la polizia non può sparare è considerato da diversi critici il mio capolavoro. Io ho sempre pensato fosse un film sbagliato e solo oggi, rivedendolo a distanza di molti anni, mi sono dovuto ricredere. Del resto, un autore non è mai il miglior critico di sé stesso. È un film di una violenza estrema, di una tensione spasmodica, meno spezzato e più unitario di molti altri miei lavori e con personaggi che, parliamoci chiaro, sono personaggi che hanno ispirato Oliver Stone per il famoso film che ha avuto tutti quei problemi giudiziari, Natural born killer. Non sono, anche lì, due che ne combinano una peggio dell'altra? Milano odia: la polizia non può sparare è il primo film dove io non ho messo mano alla sceneggiatura, l'ha scritta Ernesto Gastaldi, e le mie reticenze erano legate al fatto che lo consideravo un film inverosimile; invece la storia mi ha dato torto e lo dimostrano proprio pellicole come Natural born killer o Le iene di Quentin Tarantino, che è un mio grande estimatore. Tornando a Milano odia..., io penso che il plot fosse troppo romanzesco, perché qui si parte da una serie di delitti commessi da questi tre ragazzi che vanno ammazzando fino alla fine. L'unica strada che avevo per rendere il film credibile era il realismo delle immagini, delle ambientazioni e dei personaggi e devo dire che Tomas fu una scoperta enorme. Era la prima volta che facevamo un film insieme. Fu un Giulio Sacchi incredibile. Lui amava molto quel personaggio, si caricava tantissimo quando doveva recitarlo. È venuto un film forte con una Milano molto credibile, con dei posti poco sfruttati, un ritmo potente, gli attori sono scelti bene. È il film più violento di tutto il genere poliziesco italiano. C'è quella scena della fellatio di un ragioniere che è incredibile. Quella sequenza era già prevista in sceneggiatura ma io non la volevo neanche fare (dichiarazione in contrasto con quella successiva di Gastaldi, n.d.r.). Fu Tomas che insistette per girarla e solo un attore come lui poteva interpretarla nel modo giusto. Un'altra immagine molto forte è quella dei corpi sospesi al lampadario, che è diventata un po' il simbolo del film. Era la prima volta che lavoravo con Milian, come ho già detto, e devo dire che non aggiunse una virgola ai dialoghi del personaggio; si limitò solo a caricarlo psicologicamente quando doveva recitare. Milian cominciò a mettere bocca nelle sceneggiature un po' con Il giustiziere sfida la città: in quel caso la sceneggiatura l'aveva fatta scrivere lui a Mannino e la considerava un capolavoro. In realtà non era altro che un rifacimento in chiave poliziesca di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, con la motocicletta al posto dell'asino e lui con il sigaro in bocca. [...] (Henry Silva) fu un'imposizione del produttore, perché Henry Silva ci voleva per vendere il film in America (altra dichiarazione in contrasto con quanto affermato dallo stesso Lenzi anni dopo e riportata più sopra, n.d.r.). Purtroppo Silva è un attore privo di espressioni che poteva fare solo il killer e quindi come commissario milanese era poco credibile. Se avessi potuto scegliere un attore straniero adatto per quella parte io avrei preso Lino Ventura. Il Lino Ventura di Ultimo domicilio conosciuto e Ascensore per il patibolo, che era un film in cui doveva avere un piccola parte ma che mi colpì molto; questa figura di commissario così intensa... Dovemmo prendere Henry Silva perché avevano un contratto e perché il film doveva uscire in America. Quindi io l'ho ridotto come personaggio al minimo possibile, perché non aveva quella modalità di recitazione che il ruolo richiedeva. Nel fare il killer lui era perfetto, e infatti ancora oggi lavora e interpreta quel tipo di personaggio, ma come commissario non c'entrava niente. Dal punto di vista umano lui è una bravissima persona e abbiamo fatto altri film insieme. Trovo che l'idea centrale del film (l'Istituzione spesso non arriva a punire i colpevoli se non con atti estremi, da giustiziere, e quindi anticostituzionali) sia veramente centrata e che amplifichi in Milano odia... quell'atmosfera cruda e cupa di cui si parlava all'inizio. A dire la verità questo è l'aspetto che è stato maggiormente criticato del film. È in effetti quello di Silva un atto estremo quasi senza motivazione. Voglio dire: in Roma a mano armata Merli uccide il 'Gobbo' ma perché questo gli ha ammazzato l'amico davanti agli occhi con un sotterfugio e la dinamica è poi quella del duello classico degli spaghetti western mentre qui è una vera e propria esecuzione. Una cosa simile mi è successa anche con Napoli violenta, dove ho seguito alla lettera la sceneggiatura di Mannino, e dove Merli organizza tutto per uccidere Sullivan e incastrare Saxon dandogli la pistola con le impronte e ferendolo. Erano cose che prestavano molto, ma molto, il fianco alla critica, che puntualmente ci tacciava di essere registi di destra. Del resto io mi sono sempre difeso chiedendo perché criticavano me e i miei film e non pellicole come Piccolo Cesare o tutti i film degli anni Trenta della Warner Bros dove Bogard o chi per lui veniva ucciso a sangue freddo dal poliziotto di turno. In Lo sfregiato di Howard Hawks, il protagonista non viene ammazzato con duecento pallottole? E allora? C'era molto pregiudizio. Il pregiudizio della critica italiana contro questo genere è stata una cosa vergognosa." [3]
La parola a Ernesto Gastaldi [4]
"Il clima di quegli anni era molto turbolento, in cui c'erano già delle posizioni - anche di sinistra - a favore della polizia. Pasolini diceva: 'I figli dei poliziotti sono i figli dei poveri (...)'. Quindi questo senso d'impotenza delle forze dell'ordine, in quanto troppo burocratiche, poco addestrate, si leggeva sui giornali, si sentiva. (...) In Milano odia: la polizia non può sparare Lenzi ha calcato molto la mano sulle scene sensazionalistiche, inserendo dettagli non presenti nella sceneggiatura. Ogni scena scritta lui l'ha portata al parossismo, l'ha aumentata, in questo supportato da Tomas. (...) Il tema era quello: da una parte questa violenza spaventosa che si scatena e dall'altra l'impossibilità di perseguirla stando nei binari della legge. L'Italia del 1973 era divisa tra un partito comunista, garantista e costituzionale, e un partito democristiano che andava bene per tutte le stagioni, dove tutto più o meno si spegneva; dove c'era la censura... ma insomma; dove c'erano le tangenti, però non tanto. La frangia di estrema destra, che c'era, era una frangia come oggi Forza Nuova, cioè nessuno si va a preoccupare di cosa fanno quelli di Forza Nuova (forse 5000 o meno persone). (...) L'impressione era che la sicurezza delle persone normali fosse messa in pericolo dall'impossibilità per la polizia (...) di bloccare questo nuovo tipo di violenza. (...) La cosa bella della critica è che vede cose che noi, che le abbiamo fatte, non ci abbiamo pensato. Ad esempio, nel caso di questo film, io non ho mai pensato di alludere a un rapporto omosessuale tra Giulio Sacchi e Carmine."
Umberto Lenzi (1931 - 2017) [5]
"Umberto Lenzi, nato a Massa Marittima (GR) il 6 agosto 1931, si laurea in Giurisprudenza e consegue il diploma in Regia presso il CSC (Centro Sperimentale di Cinematografia) nel 1956. Dopo alcune esperienze in veste di 'operatore culturale' come saggista, critico (su varie riviste tra cui 'Bianco & Nero') e direttore di cineclub, esordisce come aiuto al fianco di registi (Merusi, Vivarelli, De Felice, Paolella ecc.) prendendo parte a pellicole spettacolari come ad esempio Apocalisse sul Fiume Giallo, Costantino il grande e Il terrore dei Mari. Dopo la stesura di alcune sceneggiature, l'opera prima da regista è datata 1961 con Le avventure di Mary Read, un avvincente 'cappa e spada', seguito da Duello nella Sila (1962) e dai successivi Il trionfo di Robin Hood, Caterina di Russia (1963) e Zorro contro Maciste (1964), specializzandosi nella realizzazione di opere di genere storico-romanzesco. Risultano interessanti e ben dirette le pellicole ispirate ai miti salgariani (riveduti e corretti in chiave moderna): Sandokan la tigre di Mopracem (con il mitico Steve Reeves), I pirati della Malesia e I tre sergenti del Bengala. Sulla scia dei successi internazionali spionistici ispirati alle gesta degli agenti 007, Lenzi firma ben quattro film in due anni, tra i quali il più rilevante è Superseven chiama Cairo. Il 1967 è il momento di Kriminal, pellicola basata sul 'fumetto nero', fenomeno di costume dell'epoca e del 'war-movie' Attentato ai tre grandi, girato a Casablanca ed ispirato all'omonima conferenza svoltasi nel Gennaio 1943 tra Roosevelt, Churchill e De Gaulle. Dopo un paio di spaghetti-western, il regista toscano confeziona un ottimo prodotto bellico targato Titanus: La legione dei dannati (1968) sceneggiato da un giovane Dario Argento e interpretato da un notevole cast. Inventore del 'thriller erotico all'italiana' con la celebre trilogia giallo-paranoica Orgasmo (1969), Cosi dolce...così perversa e Paranoia (1970), Lenzi diviene anche anticipatore del 'cannibal-movie' firmando Il paese del sesso selvaggio (1972) a cui il regista darà seguito nel 1981 con Mangiati vivi! e Cannibal Ferox (successo strepitoso in U.S.A e osannato dai fan del genere in tutto il mondo). A comporre l'interessantissimo mosaico Lenziano del thriller: Sette orchidee macchiate di rosso e Il coltello di ghiaccio (1972), Spasmo e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974), diretti con mano felice e assoluto rigore logico. Nel 1973 Lenzi inizia a girare rabbiosi, roventi, stupendi film d'azione ispirati alle vicende banditesche che all'epoca attanagliavano le città, strette in una morsa di violenza sempre più feroce e inarrestabile. Ed ecco Milano rovente (1973), Milano odia: la polizia non può sparare (1974), film ultraviolento dalla struttura solidissima e dalla stupefacente interpretazione di Tomas Milian, supportato dagli ottimi Ray Lovelock ed Henry Silva. Roma a mano armata e Napoli violenta (1976) opere dagli incassi stellari, che vedono il mitico Maurizio Merli nei panni del Commissario che con la sua grinta ed umanità è intento ad estirpare la delinquenza con metodi poco ortodossi, assolutamente efficaci, ma disapprovati dai suoi superiori. Il Trucido e lo Sbirro, Il cinico l'infame il violento, La Banda del Gobbo e Il giustiziere sfida la città permettono al connubio Lenzi-Milian di assurgere agli altari della produzione nostrana sfornando vere e proprie pietre miliari di celluloide. Al regista maremmano va attribuita la scoperta e la celebrazione del talento dell'attore cubano che, grazie al personaggio di 'Monnezza', entrerà nel costume del nostro Paese. Il canto del cigno di questo genere è segnato dal film Da Corleone a Brooklyn (1979), 'road-movie' a cavallo tra la Sicilia e gli Stati Uniti d'America, incentrato sul tema del pentitismo mafioso, con un Mario Merola nella sua migliore interpretazione. Nel 1978 Lenzi gira due film di guerra realizzati con notevole senso dello spettacolo e dall'ottimo cast: Contro quattro bandiere e Il grande attacco. Dopo una piccola incursione nella farsa scollacciata, il regista toscano esordisce nell'horror riscuotendo notevoli consensi anche al di fuori dai confini nazionali: Incubo sulla città contaminata (1980), dagli zombie iper-dinamici, La Casa 3 (1987), Demoni 3 (1990) sui riti voodoo, e lo 'slasher' Hitcher in the Dark - Paura nel buio, sono tra le pellicole più rappresentative del genere. Negli ultimi anni della carriera, Lenzi si dedica al cinema d'esportazione, confezionando pellicole soddisfacenti tra 'istant-movie' bellici, thriller e film d'avventura. Regista eclettico, sanguigno, profondo e rigoroso realista, vivace, dalla mente fervida e dalla mano astuta, nella sua intensissima attività ha abbracciato praticamente tutti i generi con una particolare predilezione per il thriller, il bellico ed il poliziesco all'italiana (genere col quale ha raggiunto i favori del grande pubblico), firmando opere cult che raccolgono estimatori in tutto il globo. Sposato con la scrittrice Olga Pehar, sua preziosa collaboratrice, Lenzi, nel corso della sua multiforme carriera, ha utilizzato anche diversi pseudonimi tra cui: Humphrey Humbert, Bob Collins, Doo Young Lee."
Tomas Milian (1933 - 2017) [6]
"Tomas Milian, nato a Cuba nel 1933, pur lavorando nell'ambito del cinema internazionale (ha studiato all'Actor's Studio) lega la sua immagine al cinema italiano di genere. I primi film che interpreta in Italia negli anni Sessanta lo vedono lavorare principalmente con autori quali Bolognini (La notte brava, Il bell'Antonio, Madamigella di Maupin), Lattuada (L'imprevisto), Maselli (I delfini, Gli indifferenti, Ruba al prossimo tuo), Loy (Un giorno da leoni), Brusati (Il disordine). Il secondo, fortunato periodo cinematografico di Tomas Milian avviene però con il genere western, dove spicca con memorabili personaggi in film diretti da Giulio Questi (Se sei vivo spara), Giulio Petroni (Tepepa), Giovanni Fago (O'Cangaceiro), Sergio Corbucci (Vamos a matar companeros) e, soprattutto nella trilogia western di Sergio Sollima La resa dei conti, Faccia a faccia e Corri uomo corri, dove interpreta (nella prima e nella terza pellicola) il ruolo dello scanzonato peon Cuchillo, abilissimo lanciatore di coltelli. Tramontata la stagione del western all'italiana, Milian diventa uno degli attori più popolari e richiesti del cinema poliziesco degli anni Settanta: lavora con i più importanti registi del settore e interpreta le varie fasi dal poliziottesco, da quello serio alla sua derivazione comico-parodistica. Monnezza e Nico Giraldi sono i suoi personaggi ormai divenuti di culto, nati rispettivamente nei film di Umberto Lenzi (Il trucido e lo sbirro) e di Bruno Corbucci (Squadra antiscippo), ma non bisogna dimenticare altri ruoli non meno importanti in pellicole dirette da De Martino (Il consigliori), Massi (Squadra volante), Martino (La polizia accusa: il servizio segreto uccide). Milian è inoltre il crudele 'gobbo' in Roma a mano armata e in La banda del gobbo, un altro spietato gangster, Giulio Sacchi, in Milano odia: la polizia non può sparare, il 'cinese' in Il cinico l'infame il violento e un vendicatore solitario in Il giustiziere sfida la città, tutti diretti da Lenzi. Ma Tomas Milian è un attore dalle molteplici sfaccettature, in grado di interpretare personaggi diversi in maniera sempre credibile, come dimostra nello storico Beatrice Cenci di Lucio Fulci, che lo dirige anche nell'angosciante thriller Non si sevizia un paperino e nel violento western I quattro dell'apocalisse. Sono almeno da segnalare le sue interpretazioni nel giallo psicologico La vittima designata di Maurizio Lucidi, nei drammatici La luna di Bernardo Bertolucci e Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni, nel fantascientifico Luci lontane per la regia di Aurelio Chiesa. A partire dalla fine degli anni Ottanta, terminata la stagione d'oro del cinema italiano di genere, Tomas Milian si specializza in eccezionali caratterizzazioni, di solito di villain, da Oltre ogni rischio di Abel Ferrara a Traffic di Steven Soderbergh. Segno, questo, dello straordinario carisma di Milian, un attore con la A maiuscola."
Ray Lovelock (1950 - 2017) [7]
"Ray [Raymond] Lovelock nasce a Roma il 19 giugno 1950, da padre inglese e madre italiana ed esordisce al cinema a soli 16 anni interpretando il giovanissimo Evans, oggetto della violenza di uno spietato mucchio selvaggio, in Se sei vivo, spara, il western di Giulio Questi conosciuto anche con il titolo di Oro Hondo, con il quale venne rieditato nel 1975. Il film, per la sua dirompente carica di violenza e la crudezza della sua rappresentazione andò incontro a notevoli problemi con la censura, che impose alcuni pesanti tagli, che tuttavia non furono sufficienti ad evitare il sequestro, che venne decretato dalla magistratura nel marzo del 1967. Dopo un'interessante esperienza in 7 volte 7 di Michele Lupo, rivisitazione in chiave umoristica dei Sette uomini d'oro di Marco Vicario che peraltro lo produce, Lovelock prende parte al bellissimo Banditi a Milano (1968) che il regista Carlo Lizzani trae dalla storia criminale della banda Cavallero, e nello stesso anno partecipa all'intimistico Plagio del regista Sergio Capogna. Il 1969 lo vede interprete oltre che di una pellicola di produzione tedesca (Haschen in der Grube) anche di due film italiani diretti da altrettanti Maestri, come Mario Monicelli (Toh, è morta la nonna) e Alberto Lattuada (L'amica), che non ebbero però i riscontri di pubblico sperati. Nel 1970 arriva il primo ruolo da protagonista con il film Il delitto del diavolo di Tonino Cervi, che risente fortemente degli umori della rivoluzione studentesca del '68, e per il quale, oltre ad interpretare il ruolo di un hippy contestatore che deve vedersela nientemeno che con Lucifero in persona, Lovelock compone ed esegue due brani della colonna sonora della pellicola. Ancora un ruolo da hippy, questa volta al fianco di una giovane e conturbante Ornella Muti, è quello che Lovelock viene chiamato ad interpretare dal regista Umberto Lenzi per il suo Un posto ideale per uccidere (1971), un thriller, per la verità non troppo riuscito, con al centro della vicenda un traffico di foto pornografiche. Dopo aver preso parte, al fianco di attori del calibro di Oliver Reed e Claudia Cardinale, a Il giorno del furore, unica opera cinematografica del regista teatrale Antonio Calenda, Lovelock torna a vestire gli abiti anticonformisti dell'hippy in Un modo di essere donna (1973), che segna il debutto nella regia dell'ex direttore della fotografia Pier Ludovico Pavoni. Nel 1974 Lovelock è in compagnia di un sadico Tomas Milian in Milano odia: la polizia non può sparare, il noir iper-violento diretto da Umberto Lenzi, che può considerarsi uno dei pilastri dell'intero filone del poliziesco all'italiana, al quale appartiene a pieno titolo anche il coevo Squadra volante di Stelvio Massi, nel quale egli interpreta il breve ma intenso ruolo di un malavitoso appassionato di filosofia ed estimatore di Che Guevara, al quale tocca in sorte una drammatica fine. Nello stesso anno interpreta il ruolo del misterioso assassino che perseguita la giovane ricercatrice Mimsy Farmer in Macchie solari, un thriller con marcate venature horror diretto da Armando Crispino, mentre un horror a tutto tondo è quel Non si deve profanare il sonno dei morti, diretto dallo spagnolo Jorge Grau, nel quale Lovelock figura come protagonista accanto ad Arthur Kennedy e Cristina Galbo. Il 1975 vede Lovelock cimentarsi con la sexy-commedia La moglie vergine di Marino Girolami, nella quale egli interpreta il ruolo del consorte temporaneamente impotente di una sfolgorante Edwige Fenech e che verrà guarito dalla sua imbarazzante patologia grazie alle amorevoli cure della suocera, incarnata da una non più giovanissima, ma pur sempre intrigante, Carroll Baker. Il genere poliziottesco ritorna nella filmografia di Lovelock con altri due titoli: in Roma violenta (1975) è Biondi, il valoroso aiutante del commissario Betti-Maurizio Merli, che infiltratosi nella malavita, ci rimette dapprima l'uso delle gambe ed infine anche la vita. In Uomini si nasce, poliziotti si muore (1976) di Ruggero Deodato, insieme al compianto Marc Porel, forma invece una coppia di poliziotti belli e spietati che combattono la criminalità con ogni mezzo, ed inoltre, per l'occasione, rispolvera le proprie doti musicali, interpretando due canzoni della colonna sonora del film. Dopo aver partecipato, con un piccolo ruolo, alla coproduzione internazionale di ampio respiro Cassandra Crossing di George Pan Cosmatos, Lovelock ritorna a vestire la divisa di poliziotto nel film Pronto ad uccidere (1976) per la regia di Franco Prosperi, che lo dirigerà nuovamente due anni dopo in un cult del rape & revenge qual è La settima donna, ove impersona un rapinatore-sequestratore dalla faccia d'angelo ma dalla ferocia smisurata, che finirà vittima della terribile vendetta di una Florinda Bolkan in abito monacale. Dopo essere stato L'avvocato della mala, nell'omonimo film di Alberto Marras, in La vergine, il toro ed il capricorno (1976) di Luciano Martino, Lovelock si prende, cinematograficamente parlando, la sua bella rivincita, fornicando con l'ex moglie vergine Edwige Fenech, che si vendica in tal modo del consorte fedifrago, interpretato da un esilarante Alberto Lionello. Dopo L'anello matrimoniale, spassosa commedia italo-spagnola nella quale ha come partner Carmen Villani, il regista Fernando Di Leo (1932-2003) gli affida il ruolo di Rico nel suo Avere vent'anni (1978) al fianco delle bellissime e spregiudicate Gloria Guida e Lilli Carati. Umberto Lenzi dopo averlo chiamato a ricoprire due ruoli di rilievo nel suo dittico bellico Il grande attacco (1977) e Contro 4 bandiere (1978), lo dirige anche in Scusi, lei è normale? (1979), divertente commedia en-travesti dove con il compianto Enzo Cerusico (1939-1991) dà vita ad una coppia di omosessuali, destinata a scoppiare allorquando Lovelock finisce per innamorarsi di una splendida Anna Maria Rizzoli, con la quale peraltro aveva già fatto coppia nel thriller erotico a tinte forti Play Motel, diretto, tra molte vicissitudini, dal regista Mario Gariazzo. Dopo essere stato L'ebreo fascista, nell'omonimo film di Franco Molè tratto da un romanzo di Luigi Preti, ed una partecipazione a Murderock uccide a passo di danza (1984), del maestro italiano del brivido Lucio Fulci, Lovelock intraprende una prestigiosa carriera televisiva che lo porterà a diradare sempre più le sue apparizioni sul grande schermo e a diventare, attraverso la partecipazione a numerosissime serie e mini-serie di grande successo, uno degli attori di punta della fiction nostrana. Dopo il mediocre Mak pigreco 100 del 1988, prende parte al film d'esordio del regista Stefano Gigli, dal titolo Il fratello minore, prodotto ed interpretato, in un cameo, da Edwige Fenech, che, al pari di Lovelock, ritorna al cinema dopo più di un decennio di assenza."
Laura Belli [8]
"Capelli e occhi castani, bellezza spigliata ma discreta, la napoletana Laura Belli esordisce sul piccolo e grande schermo dopo aver frequentato, in giovane età, il Centro Sperimentale di Cinematografia e l'Accademia d'arte drammatica. Poco più che ventenne, la Belli rifulge in pellicole quali il melodramma storico La monaca di Monza (una storia lombarda) (1969) di Eriprando Visconti, il bellico La battaglia del deserto (1969) di Mino Loy, il 'musicarello' Faccia da schiaffi (1969) di Armando Crispino e l'erotico di ispirazione 'sadiana' La stagione dei sensi (1969) di Massimo Franciosa. Sul piccolo schermo, invece, l'attrice alterna il ruolo di presentatrice di programmi televisivi (Prossimamente) a quello, ben più prestigioso, di protagonista femminile di film tv (L'Eneide [1971], memorabile trasposizione televisiva del poema virgiliano diretta dallo specialista Franco Rossi), telefilm (Viaggio d'andata [1972] di Alessandro Cane e Il vicino di casa [1973] di Luigi Cozzi) e sceneggiati (Lungo il fiume e sull'acqua [1973], tratto da un romanzo di Francis Durbridge e diretto da Alberto Negrin, e Ho incontrato un'ombra [1974] di Daniele D'Anza). Nonostante i numerosi impegni televisivi la Belli, che nel frattempo si è unita in matrimonio con il presentatore Claudio Lippi, continua a comparire in un discreto numero di film, per lo più di genere poliziesco, realizzati nel corso degli anni '70. In La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina (il popolare 'Steno' di tante irresistibili commedie all'italiana), film per molti versi antesignano del rigoglioso filone, l'attrice interpreta la parte di Anna Maria Sprovieri, una giovane donna rapita e tenuta in ostaggio da un efferato criminale. La Belli, che nell'opera di Vanzina senior va incontro ad una brutta e crudele fine, l'anno seguente prende parte a La polizia sta a guardare, sequel non dichiarato della fortunata pellicola poliziesca. Diretta dal produttore Roberto Infascelli, questa nuova puntata delle avventure del duro commissario interpretato da Enrico Maria Salerno vede l'attrice calarsi nei panni dell'avvenente Laura Ponti, ragazza di facili e liberi costumi, testimone fondamentale in una complessa inchiesta che intreccia sequestri di persona e trame eversive. Lasciate per un momento da parte le asprezze di commissari e criminali, la Belli si concede una parentesi comica ne Il figlioccio del padrino (1973) di Mariano Laurenti, film comico-parodistico padroneggiato da Franco Franchi, fresco di divorzio artistico dal suo antico sodale Ciccio Ingrassia, in cui impersona la figlia di un potente 'padrino', promessa sposa di un aspirante mafioso tutto da ridere. Nel 1974 l'attrice partecipa ad uno dei titoli più significativi dell'intero genere poliziesco tricolore, quel Milano odia: la polizia non può sparare che Umberto Lenzi dirige magistralmente prendendo a modello i gangster movie americani degli anni '30 e '40. Ancora una volta relegata nello scomodo ruolo della vittima, l'attrice napoletana nel capolavoro di Lenzi riveste il ruolo di Marilù Porrino, figlia di un facoltoso industriale, rapita, brutalizzata e infine uccisa da un empio ed efferato criminale superbamente interpretato da un elettrico e scatenato Tomas Milian. Dopo aver presenziato al velleitario film 'd'autore' I giorni della chimera (1976) di Franco Corona, la Belli ritorna al genere poliziesco con il confuso e mediocre Porci con la P.38 (1978) di Gian[franco] Pagani, degno di nota solo per il demenziale e delirante titolo, e con l'ottimo Da Corleone a Brooklyn (1979), autentico canto del cigno del declinante filone diretto da un Umberto Lenzi in gran forma. In questo tardo poliziesco l'attrice appare nella parte di Paola, l'ex moglie del duro commissario Giorgio Berni (Maurizio Merli), a cui il regista affida l'unica parentesi sentimentale in un film altrimenti dominato da un ritmo frenetico. L'ultima apparizione sul grande schermo della bella e brava attrice è in Ombre (1979), un film drammatico dai risvolti fantastici diretto dall'ex editore e sceneggiatore di fumetti erotici Giorgio Cavedon. Nel 1999, a sorpresa, la Belli esordisce dietro la macchina da presa, dirigendo una pellicola, forse autobiografica, tautologicamente intitolata Film, che, malgrado si avvalga dell'interpretazione di un'attrice in ascesa come Laura Morante, è completamente ignorata dal pubblico e ferocemente stroncata dalla critica."
Critica del tempo [9]
"Il filone poliziottesco colpisce ancora. Questa volta per mano di Umberto Lenzi già specializzato in cosiddetti giallo-sexy.[...] Il disegno del protagonista (un Tomas Milian alla sua peggiore prova, quasi la caricatura di se stesso) è quanto mai irragionevole, mostrando un personaggio talora preda di raptus omicidi tal'altra lucido organizzatore di crimini, senza mediazione psicologica attendibile.[...] Né le situazioni possono considerarsi tipiche (almeno in Italia) né la finzione trova una sua logica interna nelle pur meccaniche convenzioni spettacolari qui più che mai banalizzate da dialoghi e altri elementi. Fra i personaggi di contorno l'unico veramente attendibile è quello affidato ad Anita Strindberg (ragazza del bandito) ma anche questo non ha sviluppi per l'immatura morte decretata dalla sceneggiatura.[...]"
(Aurora Santuari, Paese Sera 23.08.1974)
"[...] Straripante violenza e non privo di azione il lavoro diretto da Umberto Lenzi, anche se costruito secondo gli schemi convenzionali, si lascia vedere. Tomas Milian ben puntualizzato nel ruolo del gangster paranoico ed Henry Silva nelle vesti del commissario, i principali interpreti. [...]"
(Vice, Il Messaggero, 23.08.1974)
"Continua la serie dei polizieschi all'italiana in linea con l'ideologia della destra reazionaria e con i gusti della maggioranza silenziosa. [...] A parte la sistematica falsificazione dei dati di fatto e lo spaccio dei più laidi pregiudizi che ha in comune con altri film dello stesso filone, il discorso è condotto con i modi più viscerali della rappresentazione della violenza e con un impudente disinteresse per la logica e la verosimiglianza. Il tutto è al servizio di Tomas Milian il cui gigionismo ormai non conosce confini. Esistono due categorie di cattivi attori: i colposi e i dolosi. Milian appartiene alla seconda."
(Morando Morandini, Il Giorno, 07.09.1974)
"Violenza a buon mercato e ideali di giustizia da «maggioranza silenziosa» sono ancora una volta gli elementi di questo ennesimo Ispettore Callaghan all'italiana, maturato all'ombra delle periferie milanesi. [...] Farcito di dichiarazioni di principio sul classismo come causa prima della delinquenza, il film non nasconde moderate ambizioni sociologiche, e punta soprattutto a delineare una galleria di personaggi che paiono ritagliati dalle pagine più squallide della cronaca nera. Ma non sempre il verosimile corrisponde al vero: e le buone intenzioni finiscono col perdersi in un'orgia di sadismo gratuito e fastidioso, che ha il solo scopo di motivare il drastico finale".
(R.P., Milano odia: la polizia non può sparare, in Il Corriere della sera, 06.09.1974)
"Poiché certe carenze legislative non consentono di fronteggiare come occorrerebbe certa delinquenza particolarmente feroce e resa folle dagli stupefacenti, è necessario che alla violenza belluina dei criminali si opponga un'altra violenza all'insegna del fine che giustifica i mezzi. [...] Il film ha un'innegabile presa spettacolare, benché i ripetuti e compiaciuti eccessi crudeli gli tolgano credibilità: anche la truculenza insistita diventa occasione di risate, specie se affidata a un attore che «fa» il cattivissimo e il pazzoide recitando sempre sopra le righe."
(A. Val., "Scelleratissimo", in Stampa Sera, 30.08.1974)
Critica revisionista
"Giulio Sacchi è un perdente. Un pavido. Un perdigiorno che per farsi coraggio ha bisogno di bere e di impasticcarsi, buono solo a fare il gradasso al bar con gli amici - anzi, macché amici, Giulio Sacchi amici non ne ha, neppure nell'ambiente della mala. Tutti lo disprezzano, lo schivano come un appestato. Giulio Sacchi è uno che si vanta di saper alzare milioni, poi finisce che ammazza un poliziotto per 600 lire. Giulio Sacchi è uno così pieno di odio, che se lo buchi non esce sangue, ma fiele. Fino a che un giorno Giulio Sacchi decide che è arrivato il suo momento: assieme a un paio di sbandati, rapisce la figlia di un ricco «cummenda», lasciandosi dietro una scia di morti. È la travolgente prova attoriale di Tomas Milian a marchiare indelebilmente Milano odia: la polizia non può sparare (1974) di Umberto Lenzi. Sulla carta, Giulio Sacchi - capello lungo, occhiali scuri e tic assortiti - è un incrocio tra l'Andrew Robinson di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! e il Tony Musante di New York ore 3: l'ora dei vigliacchi, ma nelle mani dell'attore cubano diventa qualcosa di più: l'impersonificazione di un furore ancestrale e assoluto, un outsider destabilizzante che calpesta le regole del vivere civile. È per questo che Giulio Sacchi fa paura e ribrezzo: non (solo) perché uccide senza distinzione vecchi e giovani, donne e bambini, ma per l'impudenza con cui si fa beffe delle vittime, anche dopo la morte, come se fosse l'insulto, e non il piombo, a dar loro il colpo di grazia. Come tanti altri, è deciso a prendersi con la forza una parte di quel benessere da cui si sente escluso. Ma anche la sua fame di denaro contiene una componente dissacrante: Sacchi desidera i simboli della ricchezza per poterli profanare («Quando riscuoto i soldi di paparottolo tuo», dice alla sequestrata Laura Belli, «faccio il bidè nello champagne tutte le mattine!»). La rivalsa è anche sessuale, come nella scena in cui Sacchi e i complici sequestrano e seviziano alcuni ricchi borghesi in una villa di campagna: «Io sono per la parità dei sessi», ghigna Giulio prima di costringere il padrone di casa a praticargli una fellatio; ma c'è nel personaggio una componente di larvata omosessualità, nel rapporto con il giovane luogotenente Carmine (Ray Lovelock). A dispetto degli strali della critica, che tira al bersaglio sul film e sullo stesso Milian, Milano odia: la polizia non può sparare è un film solido, capace di filtrare gli umori del periodo in un racconto cinematografico gagliardo e di creare personaggi che si imprimono nella memoria. A partire dallo stesso Sacchi, primo di una galleria di pendagli da forca cui Milian darà vita sempre diretto da Lenzi (dal gobbo Vincenzo Moretto di Roma a mano armata e La banda del gobbo al «cinese» di Il cinico, l'infame, il violento), fino a quelli appena abbozzati: il piccolo vecchio sensale che procaccia a Giulio le armi («Papà, ho bisogno di tre rosari...», «Una novena?», «No, messa da morto») nel magazzino sui Navigli dove vive con una vecchia prostituta rimbambita, le mosche da bar che costituiscono il pubblico preferito di Sacchi, la succube morosa Anita Strindberg. Rispetto alle atmosfere del precedente Milano rovente, Lenzi adotta un tono più aspro, senza alcuna tentazione crepuscolare. I legami con il poliziottesco vero e proprio, già in piena escalation, sono marginali: l'inseguimento iniziale ammicca alle scorribande di Luc Merenda in Milano trema, anch'esso prodotto dalla Dania di Luciano Martino, poi il copione di Ernesto Gastaldi prende una piega differente, quasi horror nella scena delle sevizie, mentre il personaggio del commissario, che però non ha la grinta e il sorriso sbarazzino dei Merli e dei Merenda ma la maschera di ghiaccio di Henry Silva, rimane in secondo piano. Milano odia: la polizia non può sparare è piuttosto un nero metropolitano, che aggiorna il modello della 'belva umana' in un contesto sociale credibile. E mette in scena la violenza con una crudezza incompromissoria che necessita di un contrappasso finale adeguato: se James Cagney, in La furia umana, arrivava sulla «vetta del mondo», Sacchi Giulio è freddato come un cane rabbioso, in cima a un cumulo di spazzatura."
(Roberto Curti) [10]
"Umberto Lenzi ha definito il film 'di una violenza incredibile, tanto che nonostante sia stato tagliato non è passato in televisione neanche di notte'. Si vede che i tempi sono cambiati perché è stato trasmesso (...) martedì 13 aprile 2004 a notte fonda su Rai Uno. In ogni caso è vero che la pellicola ha una solida struttura narrativa basata sulla sceneggiatura di Gastaldi, che assolve pure al compito didattico di spiegare i motivi della violenza. Il film è comunque crudo e spietato e al tempo stesso suscita diverse reazioni negative tra i critici borghesi e perbenisti. La pellicola viene accusata di compiacimento verso la violenza e soprattutto di giustificare la vendetta di chi si fa giustizia da solo quando la legge è impotente. Certo che pure oggi il nichilismo del film colpisce e disturba e lo spettatore sprofonda nel clima angoscioso che Lenzi sa creare, logico alla fine parteggiare per Silva che libera il mondo da un pericoloso delinquente. Tomas Milian è il vero protagonista della storia che ruba la scena a un commissario come Silva privo delle connotazioni fisiche per competere. Perfetta la sua interpretazione di un antieroe repellente e amorale che vive ai margini della società e che non è integrato neppure nella malavita. Si tratta di un bel film di genere che descrive la realtà di un'epoca, utilizzando anche la colonna sonora di Ennio Morricone che da sola vale la visione della pellicola. Mereghetti, solitamente restìo a parlar bene del cinema di genere, concede la bellezza di due stelle e mezzo a quest'opera fondamentale del poliziottesco."
(Gordiano Lupi) [11]
"In questo film Tomas Milian dà vita, senza dubbio, alla più straordinaria raffigurazione di 'cattivo' della sua carriera. Il suo Giulio Sacchi è più di un semplice assassino, si tratta di uno psicopatico folle che prova gusto ad uccidere, una vera e propria belva umana, anzi è Almost Human (Quasi umano), come recita acutamente il titolo straniero del film. Un personaggio così esasperato nella sua incredibile ferocia e così 'sopra le righe' che solo il bravissimo attore cubano avrebbe potuto renderlo in maniera tanto convincente e realistica. E anche Lenzi trova magicamente in questo film il suo registro migliore, calando sempre più, progressivamente, il suo personaggio in un crescendo di violenza tanto allucinante da caricare allo stesso tempo sempre più lo spettatore, che si trova alla fine ad attendere, con impazienza quasi frenetica, la catarsi della eliminazione di quel mostro da parte del commissario, impersonato da un Henry Silva, dal canto suo, mai così glaciale e determinato. Da antologia poi la scena della notturna sequela di omicidi che precede il rapimento, una sequenza da incubo che sembrerebbe ispirata ad un racconto di Giorgio Scerbanenco (e in effetti il piglio duro e grintoso della pellicola sembra molto vicino allo stile secco e brutale dello scrittore). Sacchi e i suoi complici aggrediscono Marilù mentre sta amoreggiando in auto, in un bosco buio, col fidanzato. Prima la spaventano attraverso i finestrini della macchina poi, dopo aver ucciso il suo partner, inseguono la ragazza, che fugge disperata nel bosco fino ad una villa isolata. Qui alcuni ricchi borghesi, udite le sue grida d'aiuto, fanno entrare la ragazza, ma mal gliene incoglie perché anche gli assassini riescono a penetrare nella casa e, dopo aver ferocemente seviziato i padroni di casa (Sacchi ingiunge anche ad uno di loro di praticargli una fellatio!), li massacrano e appendono i loro cadaveri a un lampadario. Questa scena rende alla perfezione l'idea della carica di ferocia che pervade tutto il film e che ne fa in assoluto uno dei migliori polizieschi di tutti i tempi, un film culto che non può non aver ispirato Tarantino (il film è infatti tra i suoi preferiti) e tanti autori di oggi versati nel cinema violento e d'azione. Ma il Sacchi di Tomas Milian è una 'jena' che fa sfigurare di fronte a lui qualsiasi analogo personaggio di Pulp Fiction. Con questo film Lenzi raggiunge vertici di presa emotiva sullo spettatore difficilmente superabili, firmando un cult-movie assoluto, tesissimo, duro e violento."
(Antonio Bruschini e Antonio Tentori) [12]
"«Non è che quando si scriveva questi film si pensasse a far filosofia [...] si trattava solo di storie costruite per un pubblico che ne fosse sufficientemente intrigato per 100 minuti. Andava il poliziesco? Si faceva il poliziesco...» (Ernesto Gastaldi, dall'audio commento al film contenuto nel DVD edito da Alan Young Pictures). Perché quando il cinema si faceva ragionando in questi termini nascevano capolavori e adesso che i cineasti italiani hanno tutti la pretesa di essere artisti e autori si producono solo cazzatone?!? La risposta è contenuta nelle stesse parole di Gastaldi: intrigare il pubblico per tutta la durata di un film vuol dire dargli una storia avvincente, personaggi interessanti, trasmettere emozioni. Questa dovrebbe essere la priorità di chi fa cinema, perché questa è l'essenza del cinema. Se faccio questa riflessione proprio su questo film non è per caso. Siamo infatti di fronte a una pellicola che, seppur nata con intenti prettamente commerciali, grazie all'abilità e alla professionalità di chi l'ha realizzata si è rivelata essere un capolavoro, a parere di chi scrive non solo del cinema di intrattenimento popolare. Milano odia è un titolo per cui la visione in DVD è obbligatoria, non tanto (e non solo) per gli interessanti audiocommenti o per il meraviglioso trailer presente negli extra dell'edizione digitale, ma semplicemente perché è un film da vedere nel migliore dei modi, essendo uno dei più importanti e riusciti del genere, uno dei titoli imprescindibili per capire il poliziesco italiano dei '70. Dopo aver scimmiottato il cinema di Fernando Di Leo col precedente Milano rovente, Lenzi mette in scena un'altra storia di malavita, questa volta su invito del produttore Luciano Martino, fresco reduce del successo di Milano trema: la polizia vuole giustizia (altro titolo fondamentale), ricavandone un film molto più personale, potendo contare anche sulla straordinaria vitalità interpretativa di Tomas Milian. Il soggetto è semplice: Milian è Giulio Sacchi, uno sfigato che, dopo essere stato cacciato dal giro grosso della mala per la sua propensione all'omicidio immotivato, si prende (o crede di prendersi) la sua rivincita sul mondo mettendo insieme una banda di perdenti come lui, in cui poter spadroneggiare e dare libero sfogo alla propria furia distruttiva. Con l'ausilio di droghe e alcool la banda arriverà a commettere crimini di una violenza e una crudeltà impareggiabili, prima che il commissario Henry Silva metta fine con una pallottola all'esistenza di Sacchi, che significativamente schiatta in mezzo a un cumulo di spazzatura, mentre l'obiettivo di Lenzi si alza a inquadrare il profilo opprimente di un caseggiato popolare, pronto a sfornare chissà quanti altri Giulio Sacchi. Violenza cupa, feroce, disturbante. Se è vero (...) che è proprio la violenza la vera protagonista del poliziesco all'italiana, allora Lenzi si incorona qui sovrano del genere, conquistando una leadership che manterrà fino all'estinzione del filone, trovando in Milian il complice ideale. Tanto il regista amava esasperare la carica di violenza già abbondantemente presente nelle sceneggiature dei poliziotteschi, tanto l'attore cubano adorava calarsi in ruoli eccessivi, scegliendo personaggi sporchi, viscidi, emarginati. Racconta Gastaldi che Milian scriveva soggetti che avrebbe voluto interpretare, in cui i protagonisti erano reietti che vivevano nelle stalle con i maiali! Il suo Giulio Sacchi, comunque, rimane nella memoria dello spettatore in maniera indelebile, incarnazione della malvagità assoluta non meno dell'Alex di Arancia Meccanica (ma senza traccia di ironia) o del Michael Myers della saga di Halloween (ma ben più realistico)."
(Daniele Magni e Silvio Giobbio) [13]
"Nel 1974 Lenzi viene chiamato da Luciano Martino per dirigere Milano odia: la polizia non può sparare dato che Sergio, fratello del produttore, era già impegnato in un altro progetto; il risultato è un'opera straordinariamente innovativa, quasi sperimentale, un equilibrio perfetto di violenza e azione, un noir spinto alle estreme conseguenze dove il contrasto è necessario ed inevitabile, in cui la città assume un ruolo preponderante non solo nella sua accezione visiva ma anche sul piano concettuale; indubbiamente il capolavoro del regista."
(Federico Patrizi e Emanuele Cotumaccio) [14]
Visto censura [15]
Il 10 luglio 1974, Milano odia: la polizia non può sparare ottiene nulla osta n. 64875, potendo circolare nelle sale cinematografiche con divieto di visione ai minori degli anni 18, "per la tematica del film, che è totalmente impostata sulle scene di violenza e su altre sequenze raccapriccianti".
Metri di pellicola accertati: 2800 (102'10" a 24 fps).
Tuttavia su richiesta del produttore Luciano Martino il lungometraggio ottiene due ulteriori visto censura, dei quali uno piuttosto tribolato, in occasione di un passaggio televisivo e della distribuzione home video. Il 15 novembre 1986 (n.o. n. 81164) nonostante alcuni tagli che riducono a 2726 i metri di pellicola, Milano odia: la polizia non può sparare incontra le avversità della Revisione cinematografica che, nonostante le modifiche apportate, conferma il giudizio espresso dalla Commissione di 1a istanza (28 gennaio 1986), ossia il divieto di visione ai minori di anni 18, "in considerazione di tutta la tematica del film ispirata a cruda violenza che non lascia spazio ad alcuna valutazione e che non sia di riprovazione e di rigetto".
Solo con il terzo nulla osta (n. 96362) del 03 ottobre 2002, il film ottiene la derubricazione potendo essere visto dal pubblico senza più limiti di età, poiché "dato i tagli eseguiti ed il tempo trascorso, non contiene più scene che possono turbare i minori."
NOTE
[1] "Monnezza e i suoi fratelli - Guida al cinema poliziesco di Tomas Milian", Dossier allegato a Nocturno n. 39 (ottobre 2005).
[2] "Destra e sinistra nel cinema italiano", a cura di Christian Uva e Michele Picchi (Edizioni Interculturali), pag. 224 - 228. Dichiarazione riportata anche ne "Il cinema rovente di Umberto Lenzi", a cura di Davide Magnisi, Gordiano Lupi e Matteo Mancini (Edizioni Il Foglio), pag. 246.
[3] "Umberto Lenzi: il mio cinema precursore della filosofia pulp di Quentin Tarantino". Intervista al regista a cura di Davide Pulici e Manlio Gomarasca, pubblicata sul booklet allegato alla vhs Shendene & Moizzi (1999).
[4] Dall'audiocommento al film (DVD Alan Young), moderato da Giona A. Nazzaro.
[5] [6] [7] [8] Schede biofilmografiche inserite tra gli extra del DVD Alan Young. Testi a cura del critico Giona A. Nazzaro.
[9] Stralci critici riportati tra gli extra del DVD Alan Young e su "Il cinema rovente di Umberto Lenzi" (pag. 286).
[10] "Italia odia - Il cinema poliziesco italiano" (Lindau), pag. 196 - 197 - 198.
[11] "Tomas Milian - Il trucido e lo sbirro" (Profondo rosso edizioni), pag. 120.
[12] "Italia a mano armata - Guida al cinema poliziesco italiano" (Profondo rosso edizioni), pag. 87 - 89.
[13] "Cinici, infami e violenti - Dizionario dei film italiani polizieschi anni '70" (Bloodbuster), pag. 148 - 149.
[14] "Italia calibro 9" (Profondo rosso edizioni), pag. 96.
[15] Dal sito "Italia Taglia".
"La violenza è rivoluzionaria, quando è adoperata a liberarsi dall'oppressione violenta di chi ci sfrutta e ci domina; appena essa si organizza a sua volta, sulle rovine del vecchio potere, in violenza di governo, in violenza dittatoriale, diventa controrivoluzionaria."
(Luigi Fabbri)
F.P. 11/01/2024 - Versione integrale visionata in lingua italiana - DVD Alan Young (durata: 95'14")
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