Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
All’interno di un potenziale franchise, che in virtù delle opportunità a monte può aspirare a estendersi per parecchio tempo figliando progenie che possono - a turno - guardare in avanti così come indietro e anche sulle fasce laterali, il secondo capitolo è decisivo per decretarne le sorti. Non che il primo passo sia ininfluente, solo che in questo caso sono ammesse delle attenuanti, con un processo di avviamento e di consolidamento che necessita di tempi aggiuntivi, di stabilire una base solida dalla quale decollare successivamente.
Questo avveniva con Dune, un film molto atteso, non senza erronei sospetti, in parte mitigati dal rango dell’autore che si era assunto la responsabilità di confrontarsi con il mito, rispettosamente conscio dell’onere a cui andava incontro.
Tre anni dopo, arriva Dune: Parte 2 ed è tutto un altro paio di maniche. Si sente il peso opprimente della classica prova del fuoco, quella in cui non si perdona più niente, dove la gittata deve allungarsi a dismisura (guardando al passato, vedi i successi di Terminator 2 e Aliens. Scontro finale, nei quali tutto veniva implementato), andando oltre il fossato, facendo delle scelte dirimenti, dalle quali diventa impossibile ravvedersi e/o fare retromarcia. Un conglomerato complesso, ricco di qualità innegabili ma anche cosparso di rammendi improvvisati, di conti che tornano a fatica (giusto chiudendo un occhio), di variazioni che fanno storcere il naso, di assist che non vengono convertiti in gol.
Guidati da Stilgar (Javier Bardem – Non è un paese per vecchi, Mare dentro) e da Chani (Zendaya – Euphoria, Spider-man: No way home), Paul (Timothée Chalamet – Chiamami col tuo nome, Wonka) e Jessica (Rebecca Ferguson – Silo, Mission: Impossible – Rogue nation) arrivano in un rifugio Fremen.
Mentre gli Harkonnen estendono il loro dominio su Arrakis, cercando di ripristinare la produzione di spezia, e l’imperatore Shaddam IV (Christopher Walken – Il cacciatore, Il mistero di Sleepy Hollow), insieme a sua figlia Irulan (Florence Pugh – Midsommar, Il prodigio), osserva con attenzione quanto sta avvenendo, Paul intraprende un percorso che lo porta rapidamente a essere un punto di riferimento nella lotta contro gli invasori.
Un’escalation del conflitto che conduce giocoforza a una resa dei conti tra tutti i contendenti, nella quale Paul dovrà vedersela con lo spietato Feyd-Rautha (Austin Butler – Elvis, Masters of the air), vero leader sul campo degli Harkonnen.
Con un budget di circa 190 milioni di dollari e l’obiettivo di surclassare gli incassi (vedi il totale aggiornato in tempo reale) del suo predecessore (stimati sui 433 milioni, non pochi considerando le limitazioni imposte a suo tempo dalla pandemia), Dune: Parte 2 si avvale dell’esperienza maturata da Denis Villeneuve (La donna che canta, Prisoners), a sua volta coadiuvato da uomini di fiducia in tutte le posizioni rilevanti.
Sceneggiato nuovamente con Jon Spaihts (l’interessante Passengers, ma anche un clamoroso passo falso come La mummia), riattacca la spina in assoluta continuità con il passato, per poi attuare una carburazione lenta, alla ricerca di nuovi equilibri.
Un procedimento che, in linea – per quanto amplificata - con quanto già avvenuto, deve districarsi su più fronti, con distinzioni nette (vedasi le precise tavolozze cromatiche, che ammettono rare intrusioni, elementi – come gli occhi azzurri – che vogliono bucare lo schermo), in un miscuglio compressivo pressoché completo di generi, che non vuole farsi mancare niente, con tutto ciò che ne consegue nell’ottica di una convivenza funzionale (ad esempio, tagliando corto spesso e volentieri).
Dunque, ondeggia/rimbalza senza sosta tra avventura e sentimento, fantascienza e dramma, azione e respiro epico, con una stesura abbondante, talvolta ridondante, in altri casi tagliata in modo sbrigativo (il cammino di Paul lascia pezzi per strada, tira dritto senza porsi troppi problemi), con contrassegni portentosi e omissioni sanguinose (ponti onirici che non vengono varcati), in generale obbligata a fare cernite dolorose.
Andando per sommi capi, Dune: Parte 2 cerca – con pragmatismo prettamente industriale – di dare un colpo al cerchio (tanti temi proposti, tra il colonialismo selvaggio e la paura dello straniero) e uno alla botte (la logica consumistica, che vuole un pasto completo, non può essere contraddetta), di accontentare un po’ tutti (vedi un romanticismo impunemente spiccio), di seminare tanto per raccogliere semplicemente quanto basta, senza paventare un grammo di coraggio, con passi allungati e sbalzi pericolosi/azzardati, mancando un effettivo/auspicato/desiderabile salto di qualità.
Comunque sia, i parametri tecnici rimangono di alto profilo, per quanto la compattezza precedente non venga replicata. Se la fotografia di Greig Fraser (Zero dark thirty, Foxcatcher) espleta il suo mandato, il montaggio accusa dei colpi a vuoto (ancora di Joe Walker – Arrival, 12 anni schiavo), mentre le scenografie rimangono di valore, per quanto siano meno euclidee/impattanti (Patrice Vermette – Enemy, Vice), e il comparto sonoro (Hans Zimmer – Interstellar, Il Re leone) è nuovamente potente ma stereotipato (per non dire ripetitivo), per un agglomerato che offre il massimo quando la mole di dati prende il sopravvento sul resto, quando la sontuosità diviene dominante, come nelle varie scene di battaglia, quantunque non si arrivi nemmeno vicini – per durata e consistenza - a sfiorare i vertici della categoria (da Il signore degli anelli. Il ritorno del Re a scendere).
Per ultimo, il cast fornisce indicazioni ondivaghe, contrastanti soprattutto per scelte imposte dall’alto. Se Timothée Chalamet è chiamato a coprire/sobbarcarsi un arco tanto assoluto quanto ellittico, troppe personalità sono lasciate a un destino privo di sbocchi (l’utilizzo di Christopher Walken grida vendetta, mentre un colosso come Javier Bardem si ripete fino allo sfinimento) o rimandate al futuro, con tanti ritorni e altrettanti inserimenti, per uno sfarzo complessivamente improduttivo, eccezion fatta per Austin Butler, che con il suo psicopatico sopra le righe ruba l’occhio (pure qui, il suo sfruttamento è parziale e purtroppo anche temporaneo).
Alla fine, in attesa di vedere chiudersi la trilogia (che dovrebbe attingere in larga parte dal testo Messia di Dune), Dune: Parte 2 garantisce una variegata ed estesa lista di attrazioni in formato grandeur, ma rimane una cattedrale tanto imponente quanto priva di un’anima in grado di lasciare un segno indimenticabile, un blockbuster troppo calcolato, cumulativo e completista (in fondo, unisce i puntini come può) per rispettare le prerogative d’autore che lo anticipavano.
Vanta un colpo d’occhio maestoso, che in circolazione si vede raramente, è un’esperienza cinematografica che ha il merito di caldeggiare una visione di qualità (in soldoni, di premiare il grande schermo, facendo uscire le persone da casa, un risultato che pare otterrà, vedi i dati mondiali), ma si sente in dovere di presidiare troppi spazi, seguendo modalità dimostrative, con giunture sacrificate/aleatorie, a favore di un moto perpetuo che non può permettersi nessuna fermata, neanche quando il lume della ragione lo caldeggerebbe.
Tra oppressori e ribelli, buio e luce, onde del destino e marcature strette, catalizzatori ed elementi periferici, profezie e sanzioni, tante bocche da fuoco e archi circoscritti, per un resoconto che annovera troppe occasioni sprecate per gridare al miracolo.
Giunonico e bulimico, tanto ridondante quanto professionale, abbastanza affidabile ma troppo inamidato per colpire – e affondare - il bersaglio grosso.
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