Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Luca Guadagnino, cultore di horror - si pensi all'interpretazione personalizzata di Suspiria (2018) - ma anche regista di film dai forti risvolti erotici - si veda il discusso Melissa P (2005) – si conferma ad Hollywood e lo fa con un duello sportivo/sentimentale destinato a lasciarsi ricordare. Questo, infatti, è Challengers, un duello che, in verità, si chiude con un happy-end dai retrogusti western (penso a film come Amore, Piombo, Furore di Monte Hellman) e all'insegna della vera amicizia. Il tema è così classico che più non si può e verte sul mai sbiadito plot della “ragazza in due” innestato su un copione alla Borg vs McEnroe (2017). Tashi Duncan (la sexy e sensuale Zendaya), una giovane promessa del tennis, viene contesa da due ragazzi amici di infanzia, anch'essi validi tennisti caratterialmente molto diversi tra loro. Da una parte abbiamo il tamarro e tenebroso Patrick Zweig (che passa da una ragazza all'altra) contrapposto al bravo ragazzo e monogamo Art Donaldson. Nel mezzo, tra i due, la seducente e grintosa Tashi Duncan, una ragazza non proprio raccomandabile. Justin Kuritzkes, alla sceneggiatura, destruttura la storia di questo ménage à troise lo fa, grazie all'eccellente montaggio di Marco Costa, seguendo una linea narrativa fatta di continui sbalzi temporali tenuti uniti dalla finale di un torneo minore dove i due grandi amici/nemici, ormai trentenni, si contendono la coppa sotto l'occhio vigile della donna che li ha divisi in un lontano passato (oltre dieci anni prima). Uno di questi cerca il rilancio per tornare sui palcoscenici più importanti; l'altro, invece, ha l'opportunità di esibirsi al cospetto della vecchia fiamma dopo essersi perso nel cammino della vita.
Guadagnino pecca (ma al sottoscritto piace) di leziosità tecnica, utilizzando in tutti modi immaginabili la macchina da presa, fino ad arrivare a proporre la soggettiva della palla da tennis presa a “martellate”, da una parte e dall'altra del campo, dalle racchette. In questo si respira l'amore del regista per gli sperimentalismi alla Dario Argento prima maniera. Alcune inquadrature sono particolarmente riuscite (le soggettive dei giocatori durante il match), ma altre infastidiscono (l'inquadratura ribaltata dal terreno di gioco che da l'idea che i due si sfidino su un campo di vetro. Dettagli dei gocciolii di sudore, dei muscoli in evidenza e un linguaggio a tratti sporco (la scena dove si parla della masturbazione si poteva anche evitare) completano il quadro. Piacciono, invece, molto le caratterizzazioni dei personaggi e i rapporti, in perenne evoluzione, che vengono a delinearsi tra questi. Allo stesso modo è quadratissima la scrittura. Sebbene destrutturata e rimodulata secondo esigenze narrative, lo sceneggiatore chiude tutte le parantesi aperte nel corso della storia (compreso il grido finale della Duncan, che arriva a coronamento di una metafora di rapporto sessuale a tre). Interessante il personaggio di Zendaya (già apprezzata in Dune), che incarna assai bene un contrasto psicologico che cela, sotto un'apparenza di certezza, un'indecisione di fondo dovuta sostanzialmente a un'incapacità di innamorarsi davvero delle persone ("pensi che io voglia veramente qualcuno innamorato di me?"). Il suo personaggio è provocante, materialista, orientato a sfruttare a proprio favore che ha intorno (finirà per essere manovrata da chi, per punizione o vendetta, intenderà solo portarsela a letto, in realtà in uno squallido rapporto in auto). Da antologia erotica (piacerà soprattutto alle ragazze) la sequenza dei tre attori che limonano, con Zendaya che si defila lasciando i due ragazzi a baciarsi tra loro senza che se ne accorgano.
Oltre al personaggio affidato a Zendaya, è molto ben caratterizzato il “genio & sregolatezza” Patrick Zweig (il valido Josh O'Connor), nei panni del golden boy che non ha saputo far fruttare il proprio talento giovanile e che, tra un vizio e l'altro, si trova ora da declassato a giocare la partita che potrebbe dimostrare a tutti che non è affatto un fallito. Più debole e meno spontaneo Art Donaldson (interpretato dal biondo Mike Faist), un soldatino agli ordini di Tashi Duncan che, pur di stare con la donna che ama, si fa manovrare senza accorgersi di essere sfruttato per ragioni psicologiche. Tashi Duncan infatti lo utilizza per soddisfare il proprio ego, così da poter continuare a sentirsi coinvolta dal tennis (dopo un grave infortunio al ginocchio), da allenatrice, per interposta persona.
Sebbene la pellicola duri oltre le due ore, l'intrattenimento è costante; non c'è un attimo di tregua, garantendo una continuità che fa del ritmo una delle armi di forza della pellicola. Ruolo imporante è inoltre recitato dal marcatissimo uso della musica, proposta in stile bombardamento ipnotico/disco, con Costa, al montaggio, che ricorre al rallentatore per amplificarne l'effetto.
Alla fine il film piace e piace parecchio (ci sono comunque alcune ripetizioni comportamentali, tipo i richiami disciplinari ai giocatori da parte dell'arbitro e i tennisti che distruggono di continuo le racchette quasi a voler fare il verso a Medvedev). Piacerà soprattutto alle ragazze per effetto di un ruolo femminile dominante e manipolatore. Ottimi i riscontri al botteghino, che evidenziano come Challengers, nella prima settimana d'uscita, si sia già issato al primo posto della classifica settimanale degli incassi. Guadagnino: talento da tutelare e vanto per l'Italia cinematografica.
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